N. 140 ORDINANZA (Atto di promovimento) 04 agosto 2023
Ordinanza del 27 settembre 2023 del Tribunale di Ravenna nel
procedimento civile promosso da Soltani Hamza contro Gi Group S.p.a..
Lavoro - Licenziamento individuale - Disciplina del contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - Licenziamento
determinato da ragioni inerenti all'attivita' produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa
(licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico)
- Ipotesi in cui il giudice accerti l'insussistenza del fatto posto
a fondamento del licenziamento - Applicazione della tutela
reintegratoria - Omessa previsione.
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 3, commi 1 e
2.
(GU n. 43 del 25-10-2023)
TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA
Sezione civile settore lavoro
Il giudice del lavoro Dario Bernardi a scioglimento della riserva
precedentemente assunta, pronuncia la seguente ordinanza di
rimessione della questione della legittimita' costituzionale
dell'art. 3, commi 1 e 2, decreto legislativo n. 23/2015.
Motivi
1. - Fatto e processo a quo.
Con ricorso depositato in data 23 febbraio 2022 Soltani Hamza
domandava, per quanto qui rileva:
«In via principale:
accertare, ex art. 3, comma 2, decreto legislativo n.
23/2015, l'insussistenza dei motivi fondanti il licenziamento per
giusta motivo oggettivo intimato da GI Group S.p.a., in persona del
legale rappresentante pro tempore, nei confronti del sig. Soltani
Hamza con lettera dell'11 novembre 2021, annullare il licenziamento
dell'11 novembre 2021, per i fatti di cui al presente ricorso;
e conseguentemente condannare la societa' GI Group S.p.a., in
persona del legale rappresentante pro tempore, a reintegrare il sig.
Soltani Hamza nel posto di lavoro oltre pagamento in favore dello
stesso, di una indennita' risarcitoria commisurata all'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto dal giorno del licenziamento all'effettiva reintegrazione
...» (in subordine domandava liquidarsi l'indennizzo di cui al comma
1 dell'art. 3, decreto legislativo n. 23/2015).
GI Group SPA resisteva al ricorso domandandone il rigetto.
In punto di fatto si osserva quanto segue.
Il ricorrente era lavoratore dipendente a tempo indeterminato
(dal 1° dicembre 2018) della resistente, che e' impresa di
somministrazione di lavoro.
Dopo avere svolto un paio di incarichi (o missioni) per la durata
complessiva di meno di due anni, cessato l'ultimo di essi, il datore
di lavoro - in asserita assenza di ulteriori prospettive di reimpiego
- in data 18 luglio 2020 attivava la procedura di messa in
disponibilita' per mancanza di occasioni di lavoro (M.O.L.), di cui
all'art. 25 del C.C.N.L. per le agenzie di somministrazione di lavoro
del 15 ottobre 2019, all'esito del cui infruttuoso esperimento,
sostenendo di non avere reperito ulteriori occasioni di lavoro per il
Soltani, ai sensi del comma 24 («qualora le attivita' di
riqualificazione ... non abbiano portato alla ricollocazione del
lavoratore ... permanendo la mancanza di occasioni di lavoro,
l'Agenzia al termine del periodo di procedura puo' procedere alla
risoluzione dei rapporti di lavoro per giustificato motivo oggettivo
...») lo licenziava per G.M.O., con missiva dell'11 novembre 2021.
Non e' contestata l'esistenza di dimensioni dell'impresa tali da
legittimare la invocata tutela reintegratoria (dovendo essere
dimostrata l'insussistenza delle stesse ad opera del datore di
lavoro: Cass. SS.UU. n. 141/2006; dalla visura camerale risulta
peraltro una media di quasi 40.000 dipendenti nel 2020).
Il lavoratore ha contestato la circostanza che non vi fossero
offerte disponibili per posizioni richiedenti la propria
professionalita' («operaio specializzato in attivita' di montaggio
meccanico, equilibratore di rotori, logistica e gestione del
magazzino, verniciatore, addetto alla conduzione di macchine a
controllo numerico (piegatura lamiere), e' titolare di
specializzazione tecnica superiore per la manutenzione e
programmazione di PLC?», confermato a livello testimoniale),
sostenendo che esse furono destinate ad altri lavoratori.
Il datore di lavoro ha inizialmente sostenuto di avere variamente
segnalato per alcuni mesi il ricorrente a potenziali clienti senza
che queste segnalazioni avessero riscontro positivo.
Tuttavia, in seguito ad un ordine di esibizione documentale dei
contratti di somministrazione stipulati dal datore di lavoro nel
periodo di interesse (durante lo svolgimento della procedura ex art.
25 e prima del licenziamento), e' emersa una notevole mole di
contratti di somministrazione (una cinquantina in totale), proprio
per le professionalita' del ricorrente e proprio nella provincia di
Ravenna; di essi molti si riferiscono ad unita' operative site a
distanza inferiore a 50 km dalla residenza o dal domicilio del
lavoratore o comunque raggiungibili in meno di 60 minuti con mezzi
pubblici (cosi' come previsto dall'art. 50 del CCNL applicabile, che
qualifica in tali termini l'offerta congrua).
Cio' e' risultato dalla produzione, a cura della difesa attorea,
dei percorsi stradali necessari per raggiungere le aziende de quibus
(un'azienda e' sita a distanza di 8 km ed e' raggiungibile in 39
minuti coi mezzi pubblici; ancora piu' vicina un'altra azienda, sita
a 6,2 km e raggiungibile con mezzi pubblici in 22 minuti; una terza
azienda dista invece 26,1 km ed e' raggiungibile con mezzi pubblici
in 53 minuti e cosi' via).
Tali offerte di lavoro non furono mai presentate al lavoratore,
che quindi non ebbe mai modo ne' di accettarle, ne' a sua discrezione
di contestarne la congruita' (in base allo schema di cui al 2° comma
dell'art. 50 del CCNL cit. si desume chiaramente che non sono i 15 o
i 20 minuti di sforamento rispetto ai 60 necessari al tragitto
casa-lavoro ad impedire che l'offerta di cui al 1° comma venga fatta
al lavoratore, essendo piuttosto quest'ultimo a poterla accettare o
contestare in base alla opzioni disponibili: cosi', evidentemente,
andava rivolta al lavoratore anche l'offerta presso p.e. una quarta
azienda sita a soli 9,3 km ma raggiungibile coi mezzi pubblici in 1
ora e 6 minuti; od altra ancora raggiungibile entro 1 ora e 16
minuti).
Pacificamente - cio' che piu' conta - il lavoratore non e' stato
proposto a nessuna di tali imprese terze utilizzatrici (diverse dalle
imprese sulle quali la resistente ha costruito la sua difesa ed alle
quali ha segnalato il ricorrente durante la procedura ex art. 25
CCNL).
Il datore di lavoro sostiene (senza spiegarne il motivo) che per
quasi tutti questi contratti (ben 47) si trattasse di «profili
assunti a tempo determinato e somministrati, sempre a tempo
determinato», dal che deriverebbe l'impossibilita' di ivi assegnare
il ricorrente, che era contrattualizzato con GI-Group a tempo
indeterminato (ma si consideri che lo stesso ricorrente, a tempo
indeterminato con la resistente dal 1° dicembre 2018, svolgeva nel
2019 un incarico a tempo determinato presso un utilizzatore finale).
In ogni modo, ammessa e non concessa l'esistenza di tali
indimostrate ragioni ostative, residuano sicuramente 3 contratti per
un'azienda sita a 17,2 km dalla residenza del ricorrente e
raggiungibile in 1 ora e 16 con mezzi di trasporto pubblici in
relazione ai quali, per stessa ammissione della resistente, era
possibile impiegare un lavoratore a tempo indeterminato (v. contratti
del 29 ottobre 2020, 2 novembre 2020, 9 novembre 2020, tutti per una
figura di montatore meccanico da collocare a tempo indeterminato
presso l'utilizzatore: si tratta di rapporti instaurati
successivamente al 18 luglio 2020, data a partire dalla quale il
ricorrente risulta inoccupato).
Per tali contratti il ricorrente non fu segnalato
all'utilizzatore, ne' al lavoratore venne segnalata tale possibilita'
di impiego e questo esclude l'extrema ratio propria del
licenziamento.
Il datore sostiene di avere svolto la sua ricerca sulla base del
solo indirizzo del domicilio del ricorrente (in un comune della
Provincia di Ravenna) e non anche dell'indirizzo di residenza (in
periferia di Ravenna, a circa 7 km dal domicilio), ma nella
documentazione aziendale interna (si veda in particolare la
liberatoria ai fini del contatto con le organizzazioni sindacali
proprio al fine dello svolgimento della procedura di cui all'art. 25
del CCNL, nel quale sono indicati sia il domicilio che residenza,
documento accluso ad una e-mail di GI Group del luglio del 2020) sono
indicati entrambi (perche' il lavoratore aveva la disponibilita' di
entrambi, come confermato ad abundantiam in sede di interrogatorio
libero) ed e' piu' che ragionevole ritenere che su entrambi andasse
effettuata la ricerca.
Le parti disquisiscono, inoltre, sul fatto che il lavoratore
fosse (auto)munito o meno al fine di raggiungere i possibili luoghi
di lavoro (secondo il datore, parte degli utilizzatori aveva preteso
solo lavoratori automuniti).
La questione e' stata chiarita dal lavoratore sentito in sede di
interrogatorio libero: egli aveva la macchina fino al licenziamento,
dopo non poteva piu' permettersela; i conti tornano perche' in una
e-mail del 21 luglio 2020 nella quale l'agenzia di somministrazione
proponeva il ricorrente ad una azienda del territorio (che non era
alla ricerca di personale in ambito produttivo in quel momento e
quindi declino'), GI Group definisce il lavoratore come «automunito»
(e la cosa si ripete in varie e-mail dal contenuto analogo successivo
all'avvio della procedura ex art. 25: v. e-mail del 23 settembre
2021).
Dunque, difficilmente un datore di lavoro potra' avere scartato
il ricorrente perche' non automunito quando nelle stesse segnalazioni
di GI Group lo stesso veniva definito «automunito».
In ogni modo, trattandosi in diversi casi di luoghi veramente
prossimi alla propria residenza o anche al domicilio, ne risultano
dei tempi di percorrenza con mezzi pubblici ben al di sotto dell'ora
di tempo o comunque la raggiungibilita' anche con altri mezzi diversi
dall'autovettura (come visto una delle aziende si trova a soli 6,2
km, distanza quest'ultima percorribile con ogni mezzo, anche privo di
motore).
Il discorso dell'autovettura, comunque, non riguarda il cliente
che fece tre contratti tra l'ottobre e il novembre del 2020 ed anzi
quelle tre offerte a tempo indeterminato di cui si e' detto prima
sarebbero state perfettamente idonee per il ricorrente, viste le
mansioni dallo stesso rivestite in passato (montatore meccanico),
vista la distanza dalla residenza del lavoratore (17,2 km) e attesa
comunque la raggiungibilita' del luogo di lavoro in 1 ora e 16 minuti
con mezzi pubblici.
Ma piu' in generale, come visto, furono una cinquantina nel
periodo in esame le offerte di potenziale e concreto interesse (che
si trasformarono tutte in contratti di somministrazione, alcuni anche
a tempo indeterminato) in relazione alle quali mai fu tentato il
collocamento del ricorrente, senza alcuna reale ragione
giustificatrice (se non l'idea - come si vedra' tuttavia
incompatibile con il diritto oggettivo - che l'esecuzione della
procedura di cui all'art. 25 del CCNL esenti l'agenzia di
somministrazione dall'obbligo di eseguire un vero e proprio, anche se
peculiare, ripescaggio; nemmeno la circostanza che l'utilizzatore
possa respingere il profilo del lavoratore appare pertinente, perche'
in mancanza di segnalazione - e questo per 50 oltre casi pertinenti -
il dato e' francamente irrilevante).
Tali elementi rendono sussistente allo stato un fumus di
fondatezza della domanda attorea necessario per sollevare la presente
questione, apparendo insussistente l'adempimento dell'obbligo di
repechage che si configura anche per le imprese di somministrazione
di lavoro (v. oltre nello specifico).
Preme infine osservare come il lavoratore abbia medio tempore
trovato una nuova occupazione, cio' che come e' noto non e' ostativo
dell'ordine di reintegrazione nel precedente posto di lavoro (ne'
dell'alternativa opzione).
2. - L'oggetto del giudizio di costituzionalita': la norma.
L'oggetto dell'ordinanza di rimessione e' l'art. 3 del decreto
legislativo n. 23/2015, rubricato «Licenziamento per giustificato
motivo e giusta causa» ed ai sensi del quale: «1. Salvo quanto
disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non
ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il
giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale, in
misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei
mensilita'.
2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato
motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato
al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione
circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al
periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva
reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo
svolgimento di altre attivita' lavorative, nonche' quanto avrebbe
potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi
dell'art. 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile
2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura
dell'indennita' risarcitoria relativa al periodo antecedente alla
pronuncia di reintegrazione non puo' essere superiore a dodici
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro e' condannato,
altresi', al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva
reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione
contributiva. Al lavoratore e' attribuita la facolta' di cui all'art.
2, comma 3».
Queste le disposizioni, la norma che si censura e' l'esclusione
della tutela reintegratoria (con tutte le conseguenze) di cui al 2°
comma dell'art. 3, in caso di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo economico nelle ipotesi («insussistenza del fatto») in cui
la stessa e' prevista per i licenziamenti per giusta causa e
giustificato motivo soggettivo.
Si impugnano qui entrambi i commi dell'art. 3 del decreto n.
23/2015, posto che il vulnus costituzionale deriva dal combinato
operare delle due disposizioni (una prevede la sola tutela
indennitaria; l'altra limita la tutela reale ai soli casi di
licenziamento disciplinare) e che le modalita' tecniche di possibile
intervento sulla disposizione, al fine di eventualmente aggiungere
quanto qui invocato, sono piu' di una.
3. - I parametri.
Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in contrasto con
alcuni parametri costituzionali.
In particolare si tratta delle seguenti disposizioni:
art. 1 della Costituzione;
art. 2 della Costituzione;
art. 3, 1° e 2° comma della Costituzione;
art. 4, 1° comma della Costituzione;
art. 24 della Costituzione;
art. 35, 1° comma della Costituzione;
art. 41, 1° e 2° comma della Costituzione;
117, 1° comma, della Costituzione, in relazione all'art. 24
della Carta sociale europea.
4. - Le questioni.
Si dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 3 del
decreto legislativo n. 23/2015 (nel prosieguo, per semplicita', anche
solo «decreto n. 23») laddove ne risulta che in caso di licenziamento
per giustificato motivo oggettivo di tipo economico (ossia
determinato da «ragioni inerenti all'attivita' produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»:
art. 3, legge n. 604/1966), in ipotesi in cui il giudice accerti
l'insussistenza del fatto (nell'accezione di Corte costituzionale n.
125/2022) posto a fondamento del licenziamento stesso, il legislatore
abbia escluso - anche in ipotesi di impresa sopra soglia ex art. 9
(che sul punto rinvia alle soglie numeriche dell'art. 18 dello
statuto dei lavoratori), la tutela reintegratoria.
Una prima questione e' egualitaria e si pone con riferimento
all'art. 3, 1° comma della Costituzione con riguardo alla tutela
reintegratoria prevista dall'art. 3, 2° comma del decreto n. 23 per i
licenziamenti disciplinari, posto che si trattano in modo
ingiustificatamente differenziato (a livello di tutele) situazioni
del tutto identiche (o almeno omogenee), ossia il licenziamento per
motivi disciplinari e il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio la mancanza di
giustificazione per insussistenza del fatto; tale differenza di
tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta
del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell'altro l'atto
espulsivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto
pretestuoso (art. 3, 1° comma della Costituzione); qui si ritiene
presente anche un concomitante vulnus all'art. 24 della Costituzione,
posto che al lavoratore, nella sostanza, non viene concesso -
all'esito della dimostrazione processuale che un fatto non esiste -
di avere le conseguenze che razionalmente spetterebbero in mancanza
di valorizzazione dell'etichetta assegnata dalla controparte al
licenziamento; egli invece e' tenuto a subire conseguenze sostanziali
e ultrattive di fatti pur processualmente accertati come inesistenti;
secondo un meccanismo che e' l'esatto contrario del concetto di
deterrenza.
Una seconda questione si pone in forza del principio di
ragionevolezza per un qui ritenuto scorretto bilanciamento dei valori
costituzionali (irragionevolezza: art. 3, 1° comma della
Costituzione) in causa, essendo conculcati ingiustificatamente i
valori del lavoro (art. 1, 4,1° comma, 35, 1° comma della
Costituzione) e della persona (art. 2 della Costituzione), piegati
questi alle necessita' dell'impresa (invertendo la dinamica prevista
dall'art. 41, 2° comma della Costituzione) e non viceversa, come
dovrebbe aversi anche in applicazione dell'art. 3, 2° comma della
Costituzione, escludendosi la reintegra, strumento in grado di
assicurare l'adeguatezza del risarcimento subito dal lavoratore,
rispetto ad una tutela complessiva altrimenti duplicemente limitata
(no reintegra; tetto all'indennizzo); ma anche la deterrenza della
sanzione, qui fortemente sminuita.
Analoga questione si pone ai sensi dell'art.117, 1° comma, della
Costituzione, in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.
Altra questione riguarda ex art. 3, 1° comma della Costituzione
la notevole ed ingiustificata diversita' di trattamento sostanziale
(disuguaglianza ...) tra i lavoratori ai quali si applica l'art. 18,
legge n. 300/1970, ai quali in determinati casi spetta la reintegra
per G.M.O. (valorizzandosi la gravita' del vizio - insussistenza del
fatto - e le dimensioni dell'impresa in base alla soglia numerica per
l'applicazione della tutela reale) e i lavoratori soggetti al decreto
n. 23, ai quali non spetta mai la reintegra e che vedono quindi
eccessivamente penalizzati i propri diritti (... in rapporto alla
irragionevolezza).
Altra questione riguarda il trattamento sostanziale
ingiustificatamente deteriore ex art. 3, 1° comma della Costituzione
(disuguaglianza ...) riservato al lavoratore subordinato che ha
subito l'inadempimento (al mantenimento del rapporto di lavoro, allo
svolgimento della propria prestazione e alla retribuzione) del datore
di lavoro che lo ha licenziato, rispetto ad ogni altro creditore del
diritto civile, posto che quest'ultimo - al contrario del primo -
gode della scelta generale tra risarcimento in forma specifica e per
equivalenti risultando la duplice limitazione eccessivamente
penalizzante i diritti dei lavoratori (... in rapporto alla
irragionevolezza).
Va subito evidenziato che il secondo vizio (ma anche il terzo)
riguarda il ritenuto cattivo uso della discrezionalita' legislativa.
La trattazione dello stesso viene anticipata rispetto a due delle
questioni di uguaglianza (4° e 5° vizio) in quanto queste ultime
risultano in realta' una combinazione di disuguaglianza e di
irragionevolezza (in quanto il quid trattamentale di differenziazione
rispetto al tertium comparationis si ritiene essere il frutto anche
di un cattivo uso della discrezionalita' legislativa, venendo in
rilievo sempre bilanciamenti di beni aventi tutti rango
costituzionale).
Per questa ragione gli elementi fondanti il cattivo uso della
ragionevolezza in punto a bilanciamento degli interessi vengono
inseriti nel 2° vizio, ma devono (per esigenze di continenza)
considerarsi richiamati in punto ad irrazionale bilanciamento anche
in relazione al 3°, 4° e 5° vizio.
5. - Rilevanza della questione.
Il lavoratore, assunto a tempo indeterminato nel 2018 e quindi
dopo l'entrata in vigore del decreto n. 23, che gli e' applicabile,
aziona una pretesa reintegratoria, fondandola sull'insussistenza del
fatto posto a fondamento del G.M.O.
Come visto il decreto n. 23, all'art. 3, 1° e 2° comma, esclude
tale possibilita'.
Ai fini della valutazione della rilevanza della questione, si da'
atto che il tribunale ha istruito la controversia acquisendo una
serie di elementi (v. punto 1 in fatto) che in questa sede si ritiene
sufficienti integrare un rilevante fumus di fondatezza del ricorso.
Fumus rappresentato dal mancato reimpiego del lavoratore presso
numerosi altri clienti del somministrante (al quale il ricorrente non
fu nemmeno indicato), per posizioni richiedenti mansioni proprie del
bagaglio professionale del primo.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata in tema di G.M.O.
economico:
«3. In via generale, ai fini del licenziamento individuale per
giustificato motivo oggettivo, giova ribadire che l'art. 3 della
legge n. 604 del 1966 richiede:
a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del
posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la
soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo
stesso;
b) la riferibilita' della soppressione a progetti o scelte
datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruita'
e opportunita', purche' effettivi e non simulati - diretti ad
incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero
sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una
migliore efficienza ovvero ad incremento di redditivita';
c) l'impossibilita' di reimpiego del lavoratore in mansioni
diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova
giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non
pretestuoso della scelta datoriale, che non puo' essere condizionata
da finalita' espulsive legate alla persona del lavoratore.
L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi
presupposti e' a carico del datore di lavoro, che puo' assolverlo
anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul
lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (v.
per tutte Cassazione n. 24882 del 2018)» (Cassazione n. 752/2023).
Tale onere di repechage si ritiene - in ossequio alla natura di
extrema ratio del licenziamento - ormai essere stabilmente parte del
fatto (Cassazione n. 29102/2019; Corte costituzionale n. 125/2022),
mentre a livello probatorio lo stesso incombe, al pari di tutti gli
altri presupposti legittimanti il potere di recesso, in capo al
datore di lavoro (art. 5, legge n. 604/1966) ed opera in modo pieno,
senza possibilita' di aggravare surrettiziamente la posizione del
lavoratore attraverso l'imposizione allo stesso di obblighi di
allegazione di posizioni vacanti (Cassazione 6497/2021 in
motivazione).
Tale disciplina di ordine generale, risulta applicabile anche al
rapporto di lavoro in somministrazione a tempo indeterminato (art.
34, 1° comma decreto legislativo n. 81/2015 «In caso di assunzione a
tempo indeterminato il rapporto di lavoro tra somministratore e
lavoratore e' soggetto alla disciplina prevista per il rapporto di
lavoro a tempo indeterminato»; in giurisprudenza, sotto il vigore
della precedente analoga normativa v. Cassazione n. 26607/2019).
Anche in tale tipologia di rapporto e' stato correttamente
sostenuto sussistere il capo al datore di lavoro un pieno obbligo di
repechage, posto che la normativa collettiva (art. 25 del CCNL
agenzie di somministrazione di lavoro, cit.), che prevede un percorso
di riqualificazione professionale in caso di mancanza di missioni,
«... non esonera il datore di lavoro dall'onere di prova degli
elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso e,
nel caso di licenziamento per motivo oggettivo, dell'impossibilita'
di repechage (Cassazione n. 10435 del 2018; n. 32159 del 2018) che
per il dipendente a tempo indeterminato di una agenzia di
somministrazione consiste nella impossibilita' di reperimento di
altre occasioni di lavoro in un arco di tempo congruo ..., potendo
l'esito della procedura suddetta costituire elemento indiziario
valutabile dal giudice unitamente al restante materiale probatorio»
(Cassazione n. 26607/2019).
Come visto, nel caso di specie, a fronte dell'esecuzione della
procedura di cui all'art. 25 del CCNL (con segnalazioni piu' o meno
casuali del lavoratore ad aziende del territorio), oltre 50 contratti
di somministrazione relativi alle professionalita' del ricorrente
venivano stipulati con aziende del territorio realmente interessate
ad utilizzare un lavoratore, senza che ad alcuna di esse il
nominativo del ricorrente venisse fatto.
Ne discenderebbe una situazione di «insussistenza del fatto»
dimostrata direttamente in giudizio (art. 3, 2° comma, decreto n.
23).
Tali elementi di fumus in fatto rendono, in diritto, rilevante la
questione di costituzionalita' qui proposta, posto che lo stato
attuale della normativa conduce direttamente al rigetto della domanda
di reintegra (che e' la domanda formulata in via principale e va
quindi esaminata per prima) diparte ricorrente.
In cio' si esaurisce la rilevanza della questione, posto che,
alla luce della domanda formulata in via principale dal ricorrente,
e' necessario superare il dato legislativo per arrivare
all'accoglimento della stessa.
Al contrario, le questioni sulla dosimetria della tutela (vizi
nn. 2-3-4-5), afferendo a valutazioni di ordine generale e astratto
(errato bilanciamento da parte di una norma di legge dei valori
costituzionali che vengono in rilievo), non sono influite dalle
circostanze del caso di specie ed in particolare dell'entita' del
danno patrimoniale subito nell'occasione dal lavoratore (p.e. la
circostanza che il lavoratore abbia nel frattempo trovato un lavoro
e' irrilevante nella valutazione astratta della correttezza o meno
del bilanciamento dei valori costituzionali, anche in punto a quantum
risarcibile, nell'art. 3,1° comma decreto n. 23: tali aspetti
attengono a norme e vanno verificati a livello generale e astratto;
la rilevanza e' semplicemente rappresentata dall'ostacolo che la
norma positiva frappone alla tutela invocata dalla parte).
6. - L'impossibilita' di una interpretazione adeguatrice.
La norma e' chiarissima nella sua formulazione (il raffronto tra
1° e 2° comma) sul punto e l'assenza di reintegra in caso di
licenziamento pur gravemente ingiustificato (ma non nullo) per G.M.O.
nel decreto n. 23 appare un dato pacifico in dottrina e in
giurisprudenza, rappresentando essa proprio il tratto maggiormente
«qualificante» (unitamente alla forfettizzazione proporzionale
dell'indennita' risarcitoria, quest'ultima espunta dall'ordinamento
grazie alle sentenze n. 194/2018 in tema di vizi sostanziali e n.
150/2020 in tema di vizi formali, della Consulta) della riforma dei
licenziamenti del 2015.
7. - La non manifesta infondatezza della questione.
1° vizio: contrasto con art. 3, 1° comma della Costituzione.
Tertium comparationis:
art. 3, 2° comma decreto legislativo n. 23/2015:
«2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il
giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di
un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto,
corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia
percepito per lo svolgimento di altre attivita' lavorative, nonche'
quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di
lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In
ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria relativa al periodo
antecedente alla pronuncia di reintegrazione non puo' essere
superiore a dodici mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro
e' condannato, altresi', al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per
omissione contributiva. Al lavoratore e' attribuita la facolta' di
cui all'art. 2, comma 3».
Il primo comma dell'art. 3 prevede esclusivamente la tutela
indennitaria.
Il secondo comma dell'art. 3 - laddove si prevede una finestra di
tutela reale - non e' applicabile ai licenziamenti economici.
Qui il vulnus costituzionale si ritiene essere radicato nella
mancata previsione che per il GMO, nel caso «in cui sia direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto» (ossia la stessa
formula impiegata per il licenziamento disciplinare nel 2° comma
dell'art. 3), non e' prevista la reintegra (unitamente alle
conseguenze risarcitorie di cui al 2° comma).
Al contrario, il riferimento sempre nel 2° comma al fatto
«materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»
risulta del tutto estraneo alla tematica del GMO attenendo alla sola
fattispecie del licenziamento disciplinare.
Le modalita' di intervento tecnico (mediante aggiunta o ritagli
di una o piu' parole) sulla norma sono piu' di una e non ci si mette
a cercare di sostituirsi alla Corte in un ambito tecnico applicativo
che le e' proprio.
Qui semplicemente si indica il petitum in modo inequivocabile
nella richiesta che la norma sia dichiarata incostituzionale nella
parte in cui non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e le
conseguenze risarcitorie previste dal 2° comma dell'art. 3 in tema
licenziamento disciplinare, anche nell'ipotesi in cui il giudice
accerti che il licenziamento per G.M.O. si e' fondato su un fatto
insussistente.
La distinzione di disciplina tra il caso del licenziamento per
motivo soggettivo e per motivo oggettivo, in relazione all'ipotesi in
cui entrambi risultino accertati dal giudice come giustificati su
fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria, essendo al
contrario i due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente
omogenei. Non si discute ovviamente della diversita' strutturale tra
le fattispecie del licenziamento disciplinare e per motivo oggettivo
(cio' che, a livello retorico, potrebbe essere individuato come falso
bersaglio al fine di escludere l'esistenza della discriminazione).
Si discute al contrario e solamente dell'ipotesi in cui il
licenziamento sia accertato non solo come illegittimo, per mancanza
di uno o piu' presupposti, ma addirittura per insussistenza di uno
degli elementi che ne compongono il fatto costitutivo (e questo
nell'accezione di cui alla sentenza costituzionale n. 125/2022
relativa ad analoga questione, ma in ambito applicativo di art. 18
statuto dei lavoratori).
Come e' noto a partire dalla riforma del 2012 la strada scelta
dal legislatore in tema di tutele avverso i licenziamenti illegittimi
e' stata nel senso della graduazione delle tutele.
E' stata data una gerarchia valoriale, con vizi piu' gravi e vizi
meno gravi.
Si e' trattata di una scelta discrezionale.
Tuttavia, una volta poste le fondamenta del sistema, il
legislatore e' vincolato al rispetto dei principi di ragionevolezza e
uguaglianza, entrambi rinvenibili nell'art. 3, 1° comma della
Costituzione.
Dunque, a parita' di gravita' del vizio deve necessariamente
corrispondere un uguale trattamento sanzionatorio.
E questo vieppiu' in presenza di una identita' di vizi, che
corrisponde all'ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto
(soggettivo o oggettivo) posto alla base del recesso non esiste.
La scelta contraria effettuata dal legislatore nel 2012 (che
aveva reso discrezionale la scelta di reintegra da parte del giudice
solo in caso di motivo economico, mentre per i disciplinari permaneva
l'obbligo) e' gia' stata sanzionata con l'abrogazione per questo
motivo dalla sentenza costituzionale n. 59/2021.
In quella sede si trattava di una normativa che prevedeva gia' la
(possibilita' di) reintegra anche nel caso di G.M.O., subordinandola
tuttavia ad elementi casuali ed accidentali (oltre alla facolta'
discrezionale di reintegra, occorreva anche una sorta di aggravio
probatorio sintetizzato nella qualifica di «manifesta» che doveva
avere l'insussistenza dei presupposti fondanti il licenziamento) che
avevano l'effetto di limitarne stocasticamente l'applicazione,
elementi rimossi oltre che ad opera della sentenza n. 59/2021
(«puo'»), dalla successiva n. 125/2022 («manifestamente»).
Rispetto alla fattispecie in esame (in cui non c'e' traccia della
reintegra per il G.M.O.), in quei casi vi era un passaggio in parte
diverso nel ragionamento.
Nell'art. 18, 7° comma era gia' previsto che la reintegra potesse
operare anche nel G.M.O. e questo rendeva chiara la disarmonia che il
legislatore del 2012 aveva inserito mediante la discrezionalizzazione
dell'applicazione del rimedio in forma specifica.
Nel caso di specie, al contrario, vi e' una scelta a monte di
preclusione della reintegra per il caso di licenziamento per G.M.O.
Anche qui il ragionamento, pero', non puo' che essere il medesimo
ed anzi, trattandosi di una radicale differenza di tutela sostanziale
(totale preclusione per il G.M.O.), la linea argomentativa di cui
alla sentenza n. 59/2021 ne esce addirittura rafforzata.
Perche' non e' piu' una mera facolta' (in luogo di un obbligo) di
reintegra che viene collegata alla qualifica (disciplinare o G.M.O.)
data dal datore di lavoro al licenziamento, bensi' dall'etichetta
utilizzata dal datore discende la radicale esclusione del rimedio
restitutorio del rapporto di lavoro.
Dunque, sicuramente vale anche in questo caso l'assunto che
«L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando
adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si
appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede
l'interesse del lavoratore alla continuita' del vincolo negoziale e
si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata
la persona del lavoratore. L'insussistenza del fatto, pur con le
diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di
licenziamento, denota il contrasto piu' stridente con il principio di
necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che
questa Corte ha enucleato sulla base degli articoli 4 e 35 della
Costituzione (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in
diritto)» (Corte costituzionale n. 59/2021).
Senza che possa rilevare in senso contrario, come visto, la
circostanza che il punto di partenza per il G.M.O. nel decreto n. 23
e' differente perche' la reintegra e' ab origine esclusa in ogni
caso.
Esattamente come in presenza degli elementi naturali della
tipologia del rapporto di lavoro, laddove ne derivi un contrasto con
le norme inderogabili a tutela del lavoratore, non e' concessa al
legislatore disporre della qualifica che piu' gli (contingentemente)
conviene (Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994) allo stesso
modo chi fa le leggi non puo' disporre delle tutele fondando
distinzioni su quid inesistenti, ed anzi rimettendo tale scelta
essenzialmente al debitore (il datore di lavoro, in ordine alla
giustificazione del recesso, ex art. 1218 del codice civile).
Un esempio potra' essere chiarificatore.
Se invece di essere licenziato perche' sosteneva di non avergli
trovato un lavoro nel congruo periodo successivo alla cessazione
della precedente missione, il datore di lavoro avesse licenziato il
ricorrente per averlo insultato gravemente o per avere sottratto beni
aziendali e tali circostanze fossero inesistenti, cosa cambierebbe?
Nulla, ne' a livello fenomenologico (la giustificazione manca in
entrambi i casi), ne' tantomeno di logica giuridica (dal nulla
difficilmente puo' farsi derivare qualcosa: non da ieri si suole
ripetere ex nihilo nihil fit).
Tutto cambia, invece, secondo la legge, perche' nel secondo caso
il lavoratore potrebbe vedersi reintegrato nel proprio rapporto di
lavoro, mentre nel primo caso tale scelta gli sarebbe preclusa, per
volonta' del legislatore, essendo la stessa, al contrario, rimessa
insindacabilmente al datore di lavoro al momento della redazione
della lettera di licenziamento, tra l'altro mettendo quest'ultimo
davanti ad un enorme azzardo morale (per sbarazzarsi definitivamente
di un lavoratore senza che sussista radicalmente un motivo legittimo,
sara' sufficiente utilizzare un motivo oggettivo, pur inesistente).
Eppure l'ordinamento giuridico nel suo complesso ha bene presente
che una cosa e' l'affermazione di una circostanza e un'altra cosa e'
il fatto che la circostanza esista.
E' infatti chiarissimo in giurisprudenza di legittimita' che non
e' il titolo astratto di licenziamento a dovere essere oggetto della
valutazione giudiziale in punto alle conseguenze sanzionatorie
dell'illecito, bensi' e' solo il motivo in concreto accertato dal
giudice nel corso del processo a potere determinare la tutela
spettante: «Ne' si dica che il fatto giustificativo debba essere
valutato non in concreto, bensi' in astratto ed ex ante, secondo la
prospettiva del datore di lavoro al momento di intimazione del
licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovra' poi essere
accertato in sede giudiziaria: ove pure il datore di lavoro fosse
convinto, nel momento in cui ha comunicato il licenziamento,
dell'avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il
licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in base
all'erroneo calcolo effettuato dal dichiarante. Infatti, mentre
l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione
del motivo di licenziamento enunciato, l'individuazione
dell'eventuale sanzione applicabile (nullita', inefficacia,
annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in
concreto emerso all'esito del giudizio, a prescindere dall'originaria
prospettiva di parte datoriale. Ad esempio, un licenziamento nullo
(v. art. 18, comma 1, legge n. 300 del 1970, nel testo novellato ex
lege n. 92 del 2012) perche' discriminatorio o viziato da motivo
illecito e determinante non si sottrarra' alla sanzione della
nullita' sol perche' nella lettera di licenziamento sia stata
enunciata un'inesistente infrazione disciplinare astrattamente
integrante giusta causa di recesso»: (Cassazione civile, SS.UU., n.
12568/2018).
Cio' e' talmente ovvio che e' lo stesso legislatore che precisa
(ad abuntantiam) tale principio laddove stabilisce, nel 1° comma
dell'art. 18, che la tutela reintegratoria forte spetti laddove ne
siano accertati i relativi presupposti e questo «indipendentemente
dal motivo formalmente addotto», essendo evidente che l'accertamento
giudiziale - in un sistema democratico costituzionale fondato sulla
tripartizione dei poteri -supera sempre l'eventuale etichetta
formale.
Nel decreto n. 23 questo non avviene e quindi l'individuazione
della tutela applicabile rispetto ad una ipotesi di vizio identica
(licenziamento, sia esso fondato su motivo soggettivo che oggettivo,
completamente ingiustificato per insussistenza di un presupposto
costitutivo della relativa fattispecie), o se si preferisce altamente
omogenea, spetta non al giudice, bensi' ad una delle parti.
Cio' che contrasta frontalmente con ogni logica, anche giuridica.
Quindi il vizio riguarda l'art. 3, 1° comma della Costituzione
sotto il profilo della disuguaglianza ingiustificata di trattamento
tra il motivo soggettivo e il motivo oggettivo, in presenza degli
stessi presupposti di vizio.
Ne risulta inoltre l'irrazionalita' assoluta di far dipendere le
conseguenze sanzionatorie e di tutela per un fatto illegittimo ed
illecito dalla mera qualificazione giuridica utilizzata da una delle
due parti del rapporto, senza al contrario dare rilievo alla realta'
quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal giudice.
L'azzardo morale concesso al datore importa anche un problema di
ragionevolezza della disciplina (v. anche 2° vizio prospettato), che
pero' puo' essere speso utilmente anche in relazione all'aspetto
egualitario, essendo evidente che l'esclusione della reintegra solo
per il G.M.O. produce non solo un minore effetto deterrente per il
datore di lavoro, bensi' un effetto addirittura ammiccante l'illecito
nel momento in cui gli si concede la possibilita' di impedire la
reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando in un
certo modo piuttosto che in un altro un motivo - comunque inesistente
- di licenziamento.
Nulla rileva che nel 1° comma dell'art. 3, decreto n. 23 sia
previsto un indennizzo monetario che nel massimo (36 mesi) puo'
essere superiore all'importo di una eventuale monetizzazione della
reintegra (12+15 mesi), in quanto, in disparte il fatto che non
l'indennizzo di cui al 1° comma va liquidato dal giudice nel caso
concreto (tenendo innanzi tutto conto dell'anzianita' di servizio),
la reintegra - ricostituendo il rapporto di lavoro - offre
possibilita' ed utilita' compensative (produzione di reddito futuro;
mantenimento della professionalita', ristabilimento della dignita'
del lavoratore e ritorno in azienda, con alleviamento dei pregiudizi
non patrimoniali ordinariamente subiti dal licenziamento;
risarcimento integrale del danno previdenziale) incomparabili con
quelle del solo indennizzo monetario.
Tale sistemazione giuridica si ritiene essere in contrasto anche
con l'art. 24, 1° comma della Costituzione, in quanto al lavoratore
viene preclusa una tutela che gli spetterebbe (in quanto prevista
dall'ordinamento giuridico per l'ipotesi di licenziamento per motivi
soggettivi), sulla base della insindacabile qualificazione formale
data al recesso dal datore di lavoro.
Se, come si ritiene, tra il dire «hai rubato» senza dimostrarlo e
il dire «non c'erano occasioni di lavoro» (ma p.e. in questo casi si
e' visto esservi stati ben 51 contratti nel periodo per le mansioni
del ricorrente), non vi e' differenza fenomenologicamente percepibile
(zero e' sempre zero ed ogni numero moltiplicato per zero, anche un
numero enorme, da' sempre zero), fondare un diverso trattamento tra
le due ipotesi (disciplinare/G.M.O.) sulla base di un presupposto
inesistente, viola il diritto del lavoratore di agire in giudizio per
fare valere i propri diritti (come detto, il diritto alla reintegra
non e' estraneo al sistema del decreto n. 23).
In conclusione, le conseguenze in tema di tutela
dell'accertamento giudiziale che un fatto di licenziamento e'
inesistente (nei suoi elementi costitutivi, strutturali) sono
indisponibili per il legislatore, nel senso che egli non puo'
diversificarle prendendo a giustificazione la motivazione (soggettiva
o oggettiva) adottata dal datore di lavoro e risultata come detto
inesistente.
Per questi motivi si chiede la parificazione delle tutele tra
licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo di
tipo economico, con previsione che in entrambi i casi spetta la
reintegra e con le stesse conseguenze sanzionatorie di cui al 2°
comma dell'art. 3.
Sul punto, al fine di appurare quale norma debba espandersi e a
discapito di quale, va evidenziato che ordinariamente il vizio di
discriminatorieta' circa due forme di tutela importa l'estensione
della maggior tutela (come reazione all'altrui illecito) anche alle
ipotesi per le quali cio' e' incostituzionalmente escluso (cosi' e'
avvenuto, per restare in tema, con le sentenze costituzionali n.
59/2021 e n. 125/2022).
2° vizio: contrasto con gli articoli 3, 1° e 2° comma, 1, 2, 4, 1°
comma, 35, 1° comma, 41, 1° e 2° comma della Costituzione.
Il vizio in questione e' complesso e poliedrico.
Esso deriva dal ritenuto errato bilanciamento dei valori
costituzionali in tema di lavoro e impresa, nonche' dalla violazione
del principio di uguaglianza, formale e sostanziale.
Si tratta di un uso che si ritiene costituzionalmente illegittimo
della discrezionalita' che il legislatore possiede in questa materia.
Si ritiene illegittima l'esclusione della reintegra in ipotesi di
vizi della gravita' di quello qui in potenziale rilievo
(insussistenza del fatto per mancato repechage), che ridondano
nell'inesistenza del motivo di licenziamento e questo per le sole
imprese «oltre soglia» statutaria.
Sul punto si e' consapevoli che la Consulta, anche recentemente
(sentenza n. 194/2018), ha fatto riferimento all'inesistenza di un
principio di costituzionalizzazione della reintegrazione, che non
sarebbe un rimedio sempre obbligato in ambito lavoristico.
In particolare nella fondamentale sentenza n. 194 del 2018 si e'
ritenuto che «Il legislatore ben puo', nell'esercizio della sua
discrezionalita', prevedere un meccanismo di tutela anche solo
risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purche' un tale
meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza.
Il diritto alla stabilita' del posto, infatti, «non ha una propria
autonomia concettuale, ma e' nient'altro che una sintesi
terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati
dall'invalidita' dell'atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994,
punto 5. del Considerato in diritto)».
Sotto altro profilo, la stessa sentenza costituzionale ha
ritenuto ossequioso della Suprema Carta l'apposizione di un tetto
massimo al risarcimento del danno spettante al lavoratore («In
occasione dell'esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni
legali limitative del risarcimento del danno, questa Corte ha piu'
volte affermato che la regola generale di integralita' della
riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al
danneggiato non ha copertura costituzionale» (sentenza n. 148 del
1999), purche' sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze
n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011, punto
3.3.1. del Considerato in diritto). Il risarcimento, dunque,
ancorche' non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio
subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato.
Dalle stesse pronunce emerge altresi' che l'adeguatezza del
risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un
adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n.
235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985). Non
contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro
(ora trentasei) mensilita', fissato dal legislatore quale soglia
massima del risarcimento»: Corte costituzionale n. 184/2018).
I principi in se' e per se', presi singolarmente ed
astrattamente, difficilmente sono contestabili e non lo si fara'.
Ma una cosa e' dire che la reintegra non e' sempre obbligatoria,
un'altra cosa e' dire che in presenza di ipotesi in cui il solo
rimedio risarcitorio sarebbe non satisfattivo delle ragioni del
lavoratore, nel caso in cui non vi siano interessi dell'impresa
meritevoli di essere tutelati per quella via (fatto inesistente,
ossia dolo, imprese di maggiori dimensioni), sia costituzionalmente
corretto non affiancare ad un rimedio indennitario, anche il rimedio
restitutorio, in quanto necessario a compensare danni che il rimedio
monetario - fornito di un tetto massimo - non riesce a soddisfare.
Infatti, cio' che e' mancato nei precedenti costituzionali in
materia - in quanto profilo che non risulta mai essere stato
sottoposto all'attenzione della Corte - e' un esame complessivo e
sinergico dei rimedi (indennizzo monetario e reintegra) spettanti al
lavoratore cosi' come delineato dal decreto n. 23, in rapporto a
tutti i valori costituzionali in gioco ed in particolare dei principi
personalistico e lavoristico, nell'ipotesi di imprese di maggiori
dimensioni ed in relazione a vizi dell'atto risolutorio talmente
gravi da fare dubitare della meritevolezza dell'interesse del datore
di lavoro ad avere un trattamento risarcitorio ingiustificatamente
favorevole (cattivo uso della discrezionalita': si pregiudica
eccessivamente uno dei diritti in bilanciamento senza una
apprezzabile ragione a favore del contro-diritto).
Tale trattamento, che si ritiene ingiustificato in se' e per se',
risulta inoltre molto piu' sfavorevole rispetto a quello proprio
delle altre obbligazioni civili (articoli 1453 e 2058 del codice
civile), ma anche rispetto a quello riservato dall'art. 18, 7° comma,
legge n. 300/1970 in ipotesi identiche, questioni queste ultime che,
pur essendo parte di un esame logico complessivo (in quanto tutto e'
connesso), vedranno spiegarsi (anche a fini di razionalizzazione
delle questioni) due ulteriori vizi (discriminatori) rispetto a
quello qui in esame.
Tentando di esplicare quanto premesso circa la censura in esame,
si osserva quanto segue.
Innanzi tutto il principio della disponibilita' di «tempi e modi»
di tutela dei lavoratori dai licenziamenti illegittimi va
contestualizzato.
Esso e' stato enunciato nel 1965 in un sistema normativo
lavoristico primario ancora di libera recedibilita'.
Tale principio, riaffermato piu' volte al fine di escludere
l'estensione della reintegra oltre l'ipotesi statutaria, solo in un
caso (a quanto consta) e' stato affermato in relazione all'ipotesi di
imprese «sopra soglia».
Si tratta della sentenza n. 46/2000, in tema di ammissibilita'
del referendum abrogativo dell'art. 18.
L'ammissibilita' veniva al riguardo pronunciata, considerato come
«... va osservato che la disposizione oggetto di quesito e'
indubbiamente manifestazione di quell'indirizzo di progressiva
garanzia del diritto al lavoro previsto dagli articoli 4 e 35 della
Costituzione, che ha portato, nel tempo, ad introdurre temperamenti
al potere di recesso del datore di lavoro, secondo garanzie affidate
alla discrezionalita' del legislatore, non solo quanto alla scelta
dei tempi, ma anche dei modi d'attuazione (sentenze n. 194 del 1970,
n. 129 del 1976 e n. 189 del 1980). In riferimento a tale
discrezionalita', e' da escludere, tuttavia, che la disposizione che
si intende sottoporre a consultazione, per quanto espressiva di
esigenze ricollegabili ai menzionati principi costituzionali,
concreti l'unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi.
Pertanto, l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe il
solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del
diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che
attualmente vigono sia per la tutela reale che per quella
obbligatoria, al criterio di fondo della necessaria giustificazione
del licenziamento. Ne', una volta rimosso l'art. 18 della legge n.
300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia di licenziamenti
illegittimi, in quanto resterebbe, comunque, operante
nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta
sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio
1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio
1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la
cui tendenziale generalita' deve essere qui sottolineata».
L'osservazione (del 2000) che la tutela obbligatoria di cui alla
legge n. 604/1966 fosse (nell'ipotesi in cui fosse venuta meno la
tutela ex art. 18) sufficiente a garantire i diritti dei lavoratori
ingiustamente licenziati, si rivelerebbe oggi anacronistica, alla
luce delle considerazioni di cui alla sentenza n. 194/2018 (non
prevedendo tale disciplina un adeguato risarcimento del danno ed una
funzione sufficientemente dissuasiva, come peraltro espressamente
osservato - in relazione all'analogo meccanismo contenuto nel decreto
n. 23 per le «piccole» imprese - dalla successiva sentenza
costituzionale n. 183/2022, contenente un monito al legislatore).
Questo rende evidente che non e' il mero richiamo alla regola
della discrezionalita' legislativa in materia («tempi e modi») a
poter giustificare una qualunque disciplina in un qualunque momento
storico, ma e' invece il grado di attuazione della Carta, come
registrato dall'evoluzione giuridica e sociale, ad influire sulla
discrezionalita' del legislatore del momento in cui deve valutarsi la
costituzionalita' di una norma.
Cio' che poteva essere costituzionale secondo una interpretazione
del 1965 (o del 2000) puo' non esserlo nel 2024 se la societa' si e'
nel frattempo evoluta e se i principi costituzionali sono stati nel
frattempo attuati, divenendo sul punto anche problematico immaginare
un percorso di de-attuazione della Costituzione.
Questa evoluzione, esemplificativamente e tralasciando le
questioni non attinenti alla tutela dei rapporti obbligatori e della
persona, vede l'emersione di diritti un tempo impensabili, a partire
innanzi tutto dalla tutela dei diritti di credito (il caso Meroni
data 1971), per poi scendere (giocando qui un ruolo da protagonista
proprio il diritto del lavoro e dunque la figura del lavoratore) sino
alla tutela dei danni biologico, esistenziale, morale, divenuti poi
danno «non patrimoniale» in senso ampio, e cio' anche al di fuori dei
casi espressamente previsti dalla legge (art. 2058 c.c.), purche'
venga innanzi tutto in rilievo la lesione di beni di rango
costituzionale.
A livello lavorativo sono inoltre sorti i diritti alla
professionalita' (con danni patrimoniali ma anche non patrimoniali) e
il diritto a lavorare in ambienti non ostili e a non subire atti
vessatori (mobbing e straining), pena il risarcimento del danno.
Si e' configurato anche il danno alla posizione previdenziale
(esemplificativamente tutelato a livello normativo proprio nell'art.
3, 2° comma decreto n. 23, ma anche nell'art. 18, 1° e 4° comma,
ossia nelle ipotesi in cui spetta la reintegra).
Potrebbe proseguirsi oltre ma si ritiene che si sia compreso
quanto si voleva evidenziare.
L'evidenza empirica dell'evoluzione e dei portati del principio
personalista contenuto nella Costituzione, al quale si salda in
questo contesto specifico il principio lavorista (posto che il
lavoratore e' anche una persona), fa si' che la tutela che deve
essere assegnata dalla legge alla persona-lavoratore in ipotesi di
licenziamento illegittimo non possa essere quella che poteva
immaginarsi nel 1965 (ma neanche quella del 2000).
Di questa evoluzione e' un perfetto esempio l'applicazione dei
principi risarcitori piu' evoluti in tema di dissuasivita' e
compensativita' da parte della sentenza costituzionale n. 194/2018
(che pero', come detto, non entra nel merito di questioni relative
alla tutela complessivamente spettante al lavoratore), mentre a
livello generale si e' ormai preso atto della natura polifunzionale
del danno, in quanto, «Nel vigente ordinamento, alla responsabilita'
civile non e' assegnato solo il compito di restaurare la sfera
patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiche' sono
interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria
del responsabile civile» (Cass. SS. UU. n. 16601/2017), con la
precisazione che - in ambito lavoristico ed in particolare in tema di
tutela contro i licenziamenti illegittimi - la polifunzionalita' del
danno non e' una opzione legislativa, ma una imposizione a livello di
valori costituzionali e sovranazionali.
E' alla persona-lavoratore che deve quindi farsi immediato
riferimento al fine di comprendere il danno che lo stesso
ordinariamente subisce da un licenziamento illegittimo, che e' anche
da qualificarsi quale illecito (Corte costituzionale n. 194/2018).
Il lavoratore riceve dal licenziamento un danno ingiusto, che e'
sia di tipo patrimoniale (la mancate retribuzioni future), sia di
tipo previdenziale (mancato pagamento dei contributi, con risvolti
sia economici che esistenziali futuri), che di tipo non patrimoniale,
categoria quest'ultima che ricomprende quelli che descrittivamente
sono chiamati danno morale (il turbamento nell'animo, la dignita'
lesa, la vergogna, il dolore, la disistima di se', la paura,
l'incertezza verso il futuro, talvolta la disperazione) e danno
esistenziale (o relazionale, in rapporto con soggetti terzi e,
dunque, innanzi tutto il rapporto con i colleghi, poi con i
familiari, gli amici, etc).
A tali danni non patrimoniali si possono poi aggiungerne di
ulteriori, quali quelli (morali) all'onore e alla reputazione
(licenziamento ingiurioso) o quelli alla salute (soprattutto
psichica: danno biologico) che - attenendo a beni giuridici diversi
ed ulteriori dai primi e suscettibili di lesione autonoma - per
giurisprudenza consolidata, sono liquidabili separatamente dai primi,
laddove si verifichino.
Si rientra pienamente in ambito della lesione di una situazione
giuridica costituzionalmente protetta (partendo dalla «Repubblica ...
fondata sul lavoro» in giu') e, quindi, tutti tali danni possono
sicuramente sussistere in capo alla persona-lavoratore leso dal
licenziamento illegittimo e illecito (cfr. Cass. n. 25191/2023
secondo la quale - in ambito di violazione dell'art. 2087 del codice
civile - « ... il danno morale, all'interno della categoria unitaria
del danno non patrimoniale, da' rilievo ai pregiudizi del danno alla
persona che attengono alla dignita' ed al dolore soggettivo ovvero a
quei pregiudizi interiori rilevanti sotto il profilo del dolore,
della vergogna, della disistima di se', della paura, della
disperazione, che sono differenti ed autonomamente apprezzabili sul
piano risarcitorio rispetto agli effetti dell'illecito incidenti sul
piano dinamico-relazionale (che si dipanano cioe' nell'ambito delle
relazioni di vita esterne; cfr. sez. 3, ordinanza n. 23469 del 28
settembre 2018)»).
L'analisi in questa sede parte dal presupposto che l'indennizzo
meramente monetario di cui al 1° comma dell'art. 3, del decreto n. 23
sia riferito e limitato ai danni patrimoniali (nonostante vi sia
incertezza sulla «onnicomprensivita'» dell'indennita' risarcitoria in
questione e, dunque, sull'attitudine della stessa a «coprire» ogni
tipo di danno, anche non patrimoniale; come p.e. in ambito di art.
18, 5° comma e' stato ritenuto, sulla base del dato letterale, che
«L'indennita' risarcitoria, non associata alla reintegra, di cui
all'art. 18, comma 5, st. lav. riformulato, e', in relazione alla sua
funzione di riparazione per equivalente, onnicomprensiva, assorbendo
qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, ivi
compreso quello previdenziale, fatta eccezione solo per i danni
derivanti dal licenziamento ingiurioso o dal fatto costituente reato
(Cass. n. 1507/2021).
Quindi va verificata la adeguatezza dell'indennita' di cui
all'art. 3, 1° comma del decreto n. 23 considerando la stessa
relativa al solo pregiudizio patrimoniale (ma se cosi' per ipotesi
non fosse, ovviamente, tutto il ragionamento ne sarebbe oltremodo
rafforzato).
Si dara' tuttavia conto del fatto che lo strumento della
reintegrazione va a compensare anche danni afferenti alla sfera non
patrimoniale del lavoratore, in cio' attuandosi sul punto il disposto
dell'art. 2 della Costituzione e risultandone quindi un risarcimento
anche per tale aspetto gia' di per se' maggiormente adeguato per il
lavoratore.
Si osserva che legislatore del lavoro ha essenzialmente due
rimedi a tutela del danno patrimoniale prodotto dal licenziamento
illecito: la ricostituzione del rapporto di lavoro e il risarcimento
monetario.
In presenza di un inadempimento datoriale che causasse un
licenziamento in assenza dei presupposti, se mancasse una norma
specifica in ambito lavoristico che si occupasse di limitare le
azioni esercitabili e il risarcimento del danno risarcibile, la
conseguenza ordinaria sarebbe il possibile (laddove richiesto)
ripristino del rapporto (azione di esatto adempimento), oltre al
risarcimento del danno subito, laddove il danno patrimoniale sarebbe
evidentemente rappresentato dalle retribuzioni omesse tra la data del
licenziamento e quello della ripresa del rapporto di lavoro (come
risulta anche dalla giurisprudenza di legittimita' in tema di recesso
ante tempus da un rapporto di lavoro a termine: Cass. n. 11692/2005),
oltre evidentemente ai danni non patrimoniali di cui si e' detto
prima (alcuni provati secondo l'id quod plerumque accidit, altri da
dimostrare), oltre agli eventuali danni biologico e all'onore.
Si tratta proprio delle ipotesi (residue) che vengono dalla
dottrina e dalla giurisprudenza ricondotte alla c.d. «reintegra di
diritto comune» (nei limitati spazi in cui - tempo per tempo - non
vigono le limitazioni previste dalle tutele strettamente
lavoristiche).
Tuttavia, fin dall'introduzione della regola della
giustificazione del recesso datoriale, il legislatore ha limitato le
azioni a tutela delle situazioni giuridiche del lavoratore. Si e'
innanzi tutto parlato di stabilita' obbligatoria (un ossimoro
evidentemente) nel momento in cui era il datore a poter scegliere se
reintegrare o se pagare una modesta indennita' (legge n. 604/1966).
Si e' poi sviluppata una tutela piu' penetrante, chiamata
stabilita' reale, nel momento in cui il legislatore ha previsto che
il lavoratore tornasse al suo posto in azienda e ricevesse a titolo
di danno una somma pari alle mensilita' omesse nel periodo intermedio
(art. 18, legge n. 300/1970 versione precedente al 2012).
Tale tutela ripristinatoria-risarcitoria (piena) operava solo
nelle imprese di maggiori dimensioni, secondo una valutazione
numerica dei lavoratori ad esse addetti.
Da tale regime sappiamo essersi discostato inizialmente il
legislatore del 2012 che ha previsto la graduazione delle tutele in
base alla gravita' dei vizi e ha limitato la reintegra, sia nei
licenziamenti disciplinari che in quelli per motivo oggettivo
(considerando la versione attuale, depurata delle
incostituzionalita') ai vizi maggiori, graduando a sua volta la
tutela reale in «forte», per i casi di ritenuto maggiore contrasto
con l'ordinamento (nullita': spetta il risarcimento nella misura
delle retribuzioni perdute dal licenziamento al ritorno in azienda e
la reintegra opera anche nelle imprese di minori dimensioni) e in
«debole», nel caso di vizio comunque talmente grave da portare alla
reintegra, ma di minore contrasto con l'ordinamento (si tratta
essenzialmente dell'inesistenza del fatto, soggettivo o oggettivo,
posto alla base del licenziamento, oltre che nei soggettivi della
stabilita' reale accordata direttamente dalla contrattazione
collettiva) e che dunque giustifica una limitazione forfettaria in
massimo dodici mensilita' (anche perche', sul punto saggiamente, quel
legislatore introdusse contestualmente un rito che - potendo afferire
solo alle questioni legate al licenziamento - se bene maneggiato,
aveva in effetti una durata fulminante e cosi' facendo il danno
monetario subito dal lavoratore non superava i dodici mesi; per il
residuo, se la tutela specifica gli spettava, riprendevano con la
reintegra anche le retribuzioni).
Tale ultimo modello risarcitorio complessivo (reintegra +
indennizzo con tetto) ricalca (forse non a caso) quello del
risarcimento del danno da «abuso del precariato», fattispecie
esaminata e confermata a livello di costituzionalita' da Corte
costituzionale n. 303/2011, che si e' occupata delle questioni di
costituzionalita' all'art. 35, commi 5, 6 e 7, legge n. 183/2010,
ritenendo infondata la censura di irragionevolezza del limite imposto
al risarcimento del danno nell'importo previsto dalla norme, atteso
tra l'altro che la fattispecie in scrutinio assegnava il fondamentale
risarcimento in forma specifica rappresentato dalla conversione del
contratto a termine e, dunque, garantiva una sorta di stabilita'
reale («In termini generali, la norma scrutinata non si limita a
forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore
illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a
quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. Difatti, l'indennita' prevista dall'art. 32, commi 5 e
6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la
garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del
rapporto e' la protezione piu' intensa che possa essere riconosciuta
ad un lavoratore precario»).
Nei casi di vizi sostanziali meno gravi (fatto disciplinarmente
rilevante ma di entita' non tale da determinare il recesso; nel
G.M.O. violazione obblighi buona fede quali p.e. nella fase di scelta
dei lavoratori - aventi posizioni fungibili - da licenziare: Corte
costituzionale n. 125/2022) il legislatore ha introdotto un unico
rimedio monetario calmierato, ossia con un tesso massimo in
ventiquattro mensilita'.
Si tratta di una ipotesi, quest'ultima, che qui non interessa,
posto che il ragionamento che si sta sviluppando concerne i vizi
maggiori.
Va osservato che il sistema sanzionatorio adottato dalla legge n.
92/2012 (al netto delle necessarie declaratorie di costituzionalita')
permette, se non il risarcimento del danno integrale, un risarcimento
che come visto e' stato ritenuto costituzionalmente adeguato,
sussistendo la reintegrazione che permette al lavoratore di
continuare a fare fronte (mediante le retribuzioni future) ai propri
impegni economici, individuali e familiari e, dunque, a proseguire la
propria vita, analogamente a quanto (dal punto di vista economico)
faceva prima del licenziamento.
Le retribuzioni intermedie coprono il danno economico prodottosi
medio-tempore.
La reintegra, con conseguente ristabilimento della dignita' della
persona-lavoratore e del suo statuto dentro e fuori dall'azienda,
appare inoltre idonea a rimediare a parte dei danni non patrimoniali
subiti dal lavoratore (sull'idoneita' - in generale - della
stabilizzazione del rapporto a sanare in generale i danni precedenti,
in quel caso da abuso dei contratti a termine nel settore scolastico,
v. Corte costituzionale n. 187/2016 secondo la quale «Per i docenti,
si e' scelta la strada della loro stabilizzazione con il piano
straordinario destinato alla «copertura di tutti i posti comuni e di
sostegno dell'organico di diritto» ... La scelta e' piu' lungimirante
rispetto a quella del risarcimento, che avrebbe lasciato il sistema
scolastico nell'attuale incertezza organizzativa e il personale in
uno stato di provvisorieta' perenne ... »).
La prosecuzione del rapporto esclude il (protrarsi di un) danno
alla professionalita' (con risvolti patrimoniali e non) del
lavoratore.
Il danno previdenziale viene integralmente sanato, con versamento
dei contributi relativi al periodo di illegittima estromissione
dall'azienda.
In definitiva, il concorso sinergico dei due rimedi - unitamente
ad un modello processuale estremamente rapido - permette di
«contenere» i danni (sia patrimoniali che non patrimoniali) e di
risarcire la perdita complessiva del lavoratore in modo adeguato.
Con la riforma del decreto n. 23/2015 il sistema e' cambiato
completamente per i licenziamenti economici.
La reintegra e' completamente preclusa.
L'indennita' - inizialmente fissa e in misura macroscopicamente
insufficiente - ora e' graduabile (Corte costituzionale n. 194/2018)
e puo' arrivare sino a 36 mensilita'. Occorre domandarsi, quindi, se
il sistema che ne deriva (tetto massimo in interazione con
l'esclusione della reintegra) e' idoneo a compensare adeguatamente il
lavoratore e a dissuadere il datore di lavoro.
A parere di chi scrive la risposta e' negativa.
L'indennizzo prefissato per legge, si sa, ha un lato positivo ed
uno negativo per il creditore: il positivo e' che non occorre dare la
prova di avere subito concretamente alcun danno (ma qui, come detto,
in caso di inoccupazione, il danno e' facilmente dimostrabile nelle
retribuzioni perdute, detratto l'aliunde perceptum); il negativo e'
che se si ha subito un danno maggiore, la quota oltre il tetto di
legge non viene ristorata e rimane allocata sul danneggiato.
Circa il primo aspetto vi e' la possibilita' (posto che nell'art.
3, 1° comma non vi e' detrazione dell'aliunde perceptum), per chi ha
gia' trovato un lavoro, di lucrare una parte dell'indennita', che in
questo caso si affianca alla retribuzione ricavata per il tramite
della nuova.
Ma se invece tale nuovo lavoro non venisse trovato in tempi
rapidi ed anzi non venisse trovato affatto?
Il danno economico puo' essere ben piu' elevato delle mensilita'
ricevute a titolo di indennizzo, posto che l'eta' del lavoratore puo'
essere significativa ma non ancora tale da concedergli il
pensionamento (che anzi si allontana nella normativa positiva sempre
di piu'), creando una condizione di prematuro esodo forzoso dal
mercato del lavoro.
Si tratta questa, peraltro, di una ipotesi assai frequente nei
casi (patologici) di sostituzione di lavoratore piu' anziano (e
talvolta logorato fisicamente) e costoso con uno piu' giovane ed
economico.
Inoltre, non in ogni area geografica e' possibile reperire con
facilita' (o con difficolta') un nuovo lavoro.
Cio', in correlazione magari con una congiuntura sfavorevole
dell'economia e del mercato del lavoro, puo' portare facilmente - in
certe aree geografiche e come detto per lavoratori di una certa eta'
- a condizioni di prolungata (se non addirittura definitiva)
disoccupazione lavorativa.
Si tratta di casi - purtroppo non certamente «di scuola» o
infrequenti: cfr. Cass., ord. n. 26693/2023: «11.2. Non vi e' dubbio
che, nel caso in esame, le conseguenze derivanti dalla rimozione
automatica sono inevitabilmente incidenti sulla vita privata del
ricorrente, rimasto senza lavoro quando non aveva ancora compiuto
sessanta anni (e, dunque, un'eta' che, da un lato, non consente di
accedere al trattamento pensionistico e, dall'altro, rende del tutto
illusoria la possibilita' di intraprendere altra professione, diversa
da quella oggetto della rimozione») - nei quali le mensilita'
ricevute come indennizzo non sono sicuramente sufficienti a
compensare il danno economico subito dal lavoratore (ed astrattamente
risarcibile in assenza di limitazioni nel massimo dell'indennizzo).
Vi e' poi il danno previdenziale (ingravescente, alla luce delle
piu' recenti modalita' di calcolo della pensione).
Vi e' poi il danno (sia patrimoniale che non patrimoniale) alla
professionalita' del lavoratore.
Orbene, queste valutazioni dimostrano l'inattitudine (non
certamente teorica) dell'indennizzo con tetto massimo (ossia senza
possibilita' di agire per il danno ulteriore), in una molteplicita'
del tutto ordinaria di casi, ad essere sufficiente - se disgiunto dal
rimedio dalla reintegra - a compensare adeguatamente il lavoratore
per tutti i danni sofferti ad opera del fatto illecito contrattuale
perpetrato ai suoi danni dal datore di lavoro.
Una situazione singolare, considerato non solo il rilievo
primario che il diritto al lavoro riveste nella nostra Costituzione
(articoli 1, 4, 35), ma anche il dovere della Repubblica di
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale
del Paese» (art. 3, 2° comma, Costituzione).
Al contrario, in questi casi, la reintegra andrebbe a
rappresentare una ulteriore forma di compensazione sia di pregiudizi
patrimoniali (venendo assicurata la capacita' reddituale del
lavoratore anche pro futuro) sia di pregiudizi non patrimoniali
(morali ed esistenziali: ristabilimento della dignita' del lavoratore
dentro e fuori l'azienda, ritorno nella formazione sociale-azienda),
sia misti (riduzione o eliminazione del danno patrimoniale e non
patrimoniale alla professionalita'; eliminazione del danno alla
posizione previdenziale) e, operando sinergicamente con l'indennizzo
limitato nel quantum, assicurerebbe non solo le finalita'
risarcitorie generali, ma anche quelle specifiche (e rafforzate) del
lavoratore (ex art. 3, 2° comma Costituzione).
Ora vanno analizzati gli interessi contrapposti a quelli del
lavoratore che in questo caso sono rappresentati dalla liberta' di
iniziativa economica (art. 41, Costituzione).
Essa innanzi tutto «Non puo' svolgersi in contrasto con
l'utilita' sociale o in modo da recare danno alla salute,
all'ambiente, alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana»
(art. 41, 2° comma, Costituzione).
In secondo luogo, a fronte della chiara situazione giuridica
vantata dal lavoratore, che invoca un risarcimento dei danni
globalmente conseguenti al licenziamento, occorre che il
contemperamento degli interessi sia effettuato al fine di garantire
il regolare funzionamento delle imprese dovendosi, inoltre, tenere
conto delle variabili rappresentate dalle condizioni del
licenziamento e delle dimensioni della prima.
Circa il primo aspetto, e' evidente dal punto di vista generale,
come non possa che darsi rilievo ad interessi meritevoli di tutela
del datore di lavoro, mentre in presenza di liberta' (rectius:
arbitrii) non connesse con reali necessita' di gestione dell'impresa,
venga a mancare un aspetto di meritevolezza nei desiderata datoriali
e, quindi, la bilancia debba pendere dalla parte del lavoratore.
A questo punto si osserva come risulti sicuramente poco
comprensibile il motivo per il quale, tra gli interessi del
lavoratore e quelli del datore di lavoro, dovrebbero prevalere in
misura cosi' enfatizzata questi ultimi, nel caso in cui si discute,
ossia in presenza dei piu' gravi vizi sostanziali possibili
(inesistenza del fatto).
Favorire sul piano risarcitorio un datore di lavoro che pone in
essere un licenziamento del tutto privo di motivo (oggettivo) risulta
squilibrato in favore di questo, senza che vi siano motivi di
meritevolezza di tale approccio: l'impresa si puo' fare benissimo
anche senza licenziare personale in patente mancanza di un motivo,
tante imprese si comportano correttamente da questo punto di vista e
sono anche leaders nei rispettivi settori di appartenenza.
Tale meritevolezza gia' claudicante si allontana poi ancora piu'
decisamente, sempre analizzando gli interessi datoriali, laddove
vengano in rilievo imprese sopra soglia statutaria (richiamata dal
decreto n. 23, all'art. 9 proprio quale presupposto per la reintegra
nei casi di licenziamento per motivi soggettivi). Si tratta di
aziende di dimensioni tali che, per esperienza ormai di oltre mezzo
secolo di applicazione dell'art. 18, sono in grado di sopportare le
conseguenze (economiche, organizzative, umane) di una reintegrazione.
Ne consegue che, nemmeno da tale punto di vista, l'esclusione del
rimedio in forma specifica appare realmente giustificato dalla
necessita' di fare impresa.
Gia' questo, a parere di chi scrive, giustifica una
considerazione negativa circa l'operato discrezionale del
legislatore.
Ma non e' tutto.
C'e' poi un ulteriore importante argomento (ad abundantiam) che,
si ritiene, dovrebbe fare apparire ancora piu' scorretto il risultato
del bilanciamento dei valori costituzionali in materia.
Il licenziamento per motivo economico, alla luce del diritto
vivente, e' notevolmente mutato dal 2016, allorquando esso e' stato
sdoganato dalle necessita' sopravvenute e non temporanee di crisi di
impresa, che in precedenza erano necessarie, secondo la
giurisprudenza prevalente, per un valido licenziamento per G.M.O.
(Cass. n. 25201/2016: «Ai fini della legittimita' del licenziamento
individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi
dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, l'andamento economico
negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il
datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice
accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attivita'
produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non e'
possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza
gestionale ovvero ad un incremento della redditivita' dell'impresa,
determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo
attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa;
ove per il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di
fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese
notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la
ragione indicata non sussiste, il recesso puo' risultare
ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di
veridicita' e sulla pretestuosita' della causale addotta
dall'imprenditore»).
Ora il recesso economico e' essenzialmente fondato su un fatto
autodichiarato, ossia la necessita' dell'espulsione - anche
semplicemente per avere un maggiore profitto di impresa -del
lavoratore interessato all'esito di una modifica organizzativa.
Non siamo evidentemente al livello del recesso ad nutum, perche'
una causale va comunque indicata, ma essa puo' essere ora
giustificata in liberta', essendo sufficiente che la stessa
effettivamente esista e sia connessa con la soppressione del posto
proprio di quel lavoratore.
In sostanza, a parte le ipotesi di mancanza di nesso di
causalita' tra modifica e soppressione, deve semplicemente sussistere
una reale soppressione del posto di lavoro e non gia' una mera
sostituzione (cosi' gia' la stessa Cass. n. 25201/2016) di un
lavoratore con un altro neoassunto (o stabilizzato) o per le stesse
mansioni svolte o per le diverse mansioni (repechage) che il primo
potrebbe svolgere (e, secondo la piu' moderna giurisprudenza, per
l'assolvimento dell'obbligo di ripescaggio semplicemente ed
«usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al
recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni
oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una
professionalita' non posseduta dal prestatore (v., adex., Cass. n.
22417 del 2009; ma pure: Cass. n. 9369 del 1996; Cass. n. 13134 del
2000; Cass. n. 3040 del 2010)»: Cass. n. 6497/2021).
Questo evidentemente incide in maniera ancora piu' profonda sul
bilanciamento degli interessi tra le parti contrapposte del rapporto
di lavoro, rendendo molto piu' facile il licenziamento e molto piu'
residue le ipotesi di illegittimita' dello stesso, limitate a questo
punto - oltre ai casi appena esaminati di gravissime patologie
strutturali - al tema della scelta del lavoratore tra piu' posizioni
fungibili (ipotesi che la Consulta, con la sentenza n. 125/2022 ha
escluso dal concetto di «fatto» di cui al 7° comma dell'art. 18, per
essere invece ricondotta alle «altre ipotesi» di illegittimita' del
licenziamento, con conseguente preclusione della tutela
reintegratoria, secondo uno schema che e' perfettamente replicabile
anche in ambito di art. 3 del decreto n. 23, al fine di limitare la
reintegra alle ipotesi di vizi maggiori).
La posizione del lavoratore diviene quindi molto piu' precaria in
seno all'impresa, con la conseguenza che per lo stesso vi e'
indubbiamente un rischio molto maggiore di licenziamento per motivi
economici rispetto a prima.
Dal punto di vista datoriale, viene meno la necessita' di
convincere il giudice dell'esistenza di una situazione di crisi non
temporanea di impresa, venendo ormai patologicamente in rilievo solo
casi-limite in cui manca un elemento costitutivo del fatto di
licenziamento e, rispetto ad essi, sussiste pertanto un elemento
soggettivo datoriale volontario di particolare intensita', che
difficilmente puo' essere collegato (e tutelato) all'art. 41, 1°
comma Costituzione, se non in una versione confliggente con il 2°
comma della disposizione stessa.
Ne consegue, da tale punto di vista, dato un indennizzo limitato
nel massimo (come detto, convincente secondo Corte costituzionale n.
194/2018), che l'esclusione del rimedio in forma specifica non appare
giustificato dalla reale necessita' di fare impresa, perlomeno nel
senso di cui al 2° comma dell'art. 41 della Costituzione.
Circa l'aspetto del tetto massimo all'indennizzo, esso come
esposto non rientra nell'oggetto delle censure.
Va qui invece osservato come l'argomento della legittimita'
costituzionale di tale scelta, all'esito di un bilanciamento di
interessi, nulla impinga sulla questione qui avanzata in tema di
necessita' che tale strumento sia abbinato alla reintegrazione nel
rapporto di lavoro.
E' vero anzi il contrario.
Sempre ragionando in tema di uso della discrezionalita' del
legislatore, che deve essere valutata complessivamente (tenuto conto
di tutti gli strumenti disponibili), si osserva che nell'ambito del
diritto civile generale, le ipotesi di limitazione legale del quantum
risarcitorio per equivalente sono di regola connesse a casistiche in
cui il risarcimento del danno in forma specifica e' impossibile (p.e.
nel trasporto, perdita o avaria di cose: Corte costituzionale n.
199/2005 e n. 420/1991; lesioni micropermanenti: v. Corte
costituzionale n. 235/2014).
Questa evidenza permette di gettare un'ulteriore ombra sul
perche', essendo possibile un risarcimento in forma specifica, non
solo lo stesso non venga disposto, ma venga al contempo impedito il
pieno risarcimento monetario.
Trattandosi di contemperare i vari diritti in gioco, alla luce di
tutto quanto qui visto in tema di dimensioni dell'impresa e di vizi
maggiori del licenziamento, l'equilibrio raggiunto dal legislatore
del 2015 appare, anche sotto tale punto di vista, poco rispettoso di
tutti i diritti rinvenibili nella Costituzione in favore del
lavoratore.
Inoltre e come gia' esposto in relazione all'esame del 1° vizio,
qui anche la funzione di deterrenza della sanzione (complessivamente
intesa) nei confronti del datore di lavoro risulta alquanto
deficitaria.
La possibilita' di porre per sempre fine ad un rapporto di lavoro
supportando un costo predeterminato nel massimo, mediante un
licenziamento fondato su un fatto inesistente, ma che perche'
qualificato in un certo modo dal datore di lavoro, diviene sotto
questo punto di vista idoneo a provocare comunque l'estinzione
definitiva del rapporto, tutto questo realizza un meccanismo che si
ritiene collocarsi agli antipodi di quella che puo' essere la
necessaria funzione di deterrenza di una sanzione per un atto
illecito di natura negoziale.
Funzione di deterrenza al contrario rispettata pienamente sul
punto solo valorizzando (in ossequio qui anche all'art. 24
Costituzione) i risultati dell'istruttoria processuale ed assegnando
al lavoratore la tutela spettante in base ad essi - per cui al fatto
inesistente comunque qualificato va assegnata una tutela maggiormente
compensativa - senza tenere in alcun conto la motivazione formale (ma
empiricamente inesistente) del licenziamento.
Vi e' un penultimo passaggio da esaminare e si tratta delle
giustificazioni utilizzate per l'arretramento delle tutele del
lavoratore da parte del legislatore del 2015.
Tale profilo e' stato ritenuto elemento astrattamente sufficiente
dalla sentenza n. 194/2018 al fine di escludere un problema di
disparita' di trattamento in relazione al criterio adottato dal
legislatore del 2015 per disciplinare temporalmente gli effetti della
propria riforma (applicazione pro futuro, non in relazione alla data
di intimazione del licenziamento, ma in relazione alla data di
assunzione del lavoratore, creandosi cosi' due tipologie di
lavoratori, i cui rapporti di lavoro coesistono nel sistema, alcuni
piu' garantiti di altri in base alla data di assunzione).
In quella sede secondo la Corte «La modulazione temporale
dell'applicazione del decreto legislativo n. 23 del 2015, censurata
dal rimettente, non contrasta con il "canone di ragionevolezza" e,
quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla
luce della ragione giustificatrice - del tutto trascurata dal giudice
rimettente - costituita dallo "scopo", dichiaratamente perseguito dal
legislatore, "di rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del
lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione" (alinea
dell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014). Lo scopo
dell'intervento, cosi' esplicitato, mostra come la predeterminazione
e l'alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo
dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette
a favorire l'instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro
fosse privo, e, in particolare, a favorire l'instaurazione di
rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato ... Tanto
chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime
temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui
risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore
puo' aver conseguito».
Al contrario, la censura nel merito formulata dalla difesa della
lavoratrice (che intervenuta in quel giudizio aveva «dedotto
l'irragionevolezza delle disposizioni censurate sotto il profilo,
ulteriore rispetto a quelli indicati nell'ordinanza di rimessione,
che esse sarebbero inidonee a conseguire lo scopo dichiarato di
«rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte
di coloro che sono in cerca di occupazione»), veniva dichiarata
inammissibile, in quanto «questione non sollevata dal giudice
rimettente».
Le giustificazioni a sostegno della scelta di politica del
diritto di ridurre la tutela ai lavoratori tramite l'esclusione della
reintegra in ogni caso di G.M.O. economico appare inidonea a
supportare una tale regolamentazione.
Trattandosi di una disciplina che incide su diritti di notevole
rilevanza costituzionale, quali i diritti riconosciuti al lavoro e
alla persona del lavoratore, non e' evidentemente la mera
«intuizione» del legislatore contingente a potere appagare
l'interprete della Costituzione, essendo invece necessario che tali
finalita' sussistano non solo nell'immaginazione del legislatore, ma
che possiedano realmente la capacita' di importare una sostanziale e
rilevante modifica in senso positivo della situazione lavorativa
italiana (e tale dato appare piu' che contestato da buona parte degli
interpreti).
In secondo luogo, il fine nemmeno puo' giustificare ogni mezzo,
aprendosi altrimenti le porte ad ogni possibile forma di deregulation
in ogni ambito possibile, soprattutto in quello sociale (restando al
tema del lavoro, si sa che anche l'abbassamento delle retribuzioni,
anche in deroga all'art. 36 Costituzione, puo' favorire lo sviluppo
dell'impresa e di conseguenza anche l'assunzione di nuovi lavoratori,
ma la cosa e' ritenuta impraticabile per violazione di un diritto
ormai emerso dalla Carta e considerato irretrattabile).
Non e' nemmeno estranea alla giurisprudenza costituzionale in
materia la necessita' che sia comunque assicurato un equilibrio «tra
i fini enunciati ed i mezzi in concreto prescelti», potendosi al
contrario ravvisare uno squilibrio tra gli stessi a fronte di una
«irragionevolezza intrinseca» della normativa (Corte costituzionale
n. 125/2022).
Irragionevolezza intrinseca che si ritiene di avere
sufficientemente argomentato nelle pagine che precedono.
Per concludere, va ora verificata la potenzialita' sostitutiva di
una eventuale decisione di incostituzionalita' in ambito di scorretto
uso della discrezionalita' legislativa.
In tali ipotesi e' di regola necessario, considerata la liberta'
di cui gode il legislatore in materia, nel caso in cui si invochi una
precisa scelta sostitutiva ad opera della Corte costituzionale, che
un chiaro riferimento a quest'ultima sia gia' presente
nell'ordinamento.
Nel caso di specie, puo' farsi riferimento:
al meccanismo risarcitorio misto di cui all'art. 3, comma 2,
decreto n. 23/2015 per i licenziamenti disciplinari per il caso di
fatto insussistente, ossia reintegra e indennizzo con il limite di
dodici mensilita' (oltre alle conseguenze previdenziali);
al meccanismo risarcitorio misto di cui all'art. 18, commi 7
- 4, legge n. 300/1970 per il caso di fatto insussistente, ossia
reintegra e indennizzo con il limite di dodici mensilita' (oltre alle
conseguenze previdenziali).
Si tratta di meccanismi dal funzionamento analogo.
In conclusione, si chiede che venga esteso all'ipotesi di
licenziamento per motivo economico, relativamente al caso in cui sia
accertata in giudizio l'insussistenza del fatto posto a fondamento
dello stesso, il meccanismo di tutela di cui all'art. 3, comma 2,
decreto n. 23/2015 (o l'analogo meccanismo di cui all'art. 18, commi
7 - 4, legge n. 300/1970).
3° vizio: contrasto con gli articoli 76 e 117, 1° comma della
Costituzione, in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.
Ai sensi dell'art. 24 della Carta sociale europea:
«Per assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad una
tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere:
a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido
motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato
sulle necessita' di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o
del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido
motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».
Tutto quanto appena argomentato in relazione al 2° motivo deve
ritenersi relativo anche a tale vizio e, quindi, per esigenze di
spazio, va qui richiamato.
Si tratta, d'altra parte, di maneggiare gli stessi concetti,
ossia i danni subiti dal lavoratore e le modalita' risarcitorie
adottate dal legislatore, in ordine agli elementi della idoneita'
compensativa e dissuasiva: un risarcimento solo per equivalente con
un tetto massimo, svincolato dalla reintegra (collegata ad un
processo celere), non e' idoneo ne' a dissuadere il datore, ne'
sicuramente a compensare il lavoratore per tutto quanto puo' avere
perso con il licenziamento illegittimo, per come sopra ricostruito.
A dare ulteriore valore persuasivo rispetto a quanto qui gia'
evidenziato si considerino, inoltre, le valutazioni del Comitato
sociale europeo, le cui decisioni - secondo la stessa Consulta - sono
autorevoli ma non vincolanti - secondo il quale un «sistema adeguato
di compensazione in presenza di: "- rimborso delle perdite
patrimoniali subite tra la data del licenziamento e la decisione
dell'organo di ricorso; -possibilita' di reintegrazione e/o -
compenso ad un livello sufficientemente alto da dissuadere il datore
di lavoro e risarcire il danno subito dal lavoratore» (Comitato
sociale europeo n. 106/2014 Finnish society of Social Rights).
Non a caso con decisione dell'11 settembre 2019 del Comitato resa
pubblica l'11 febbraio 2000 su ricorso della CGIL (n. 158/2017), e'
stato ritenuto violato l'art. 24 della Carta sociale europea ad opera
proprio del decreto legislativo n. 23/2015.
Anche a tali pronunciamenti, da considerarsi qui integralmente
richiamati, deve pertanto farsi riferimento in relazione a tale
vizio.
4° vizio: contrasto con art. 3, 1° comma della Costituzione in
rapporto all'art. 18, 7° comma della Costituzione.
Tertium comparationis:
art. 18, comma 7, legge n. 300/1970:
«Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto
comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di
giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli
articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68,
per motivo oggettivo consistente nell'inidoneita' fisica o psichica
del lavoratore, ovvero che il licenziamento e' stato intimato in
violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile.
Applica altresi' la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti
la insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che
non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il
giudice applica la disciplina di cui al quinto comma».
Sotto questo profilo, emerge una rilevante differenza di
trattamento (che non si giustifica) rispetto alla tutela offerta, in
relazione agli stessi identici vizi, ex art. 18 Statuto dei
lavoratori.
Il trattamento di cui all'art. 3, comma 1, decreto n. 23 si
ritiene essere costituzionalmente illegittimo per illogicita' e
scorretto uso della discrezionalita' di cui gode il legislatore.
Questo lo si apprezza anche in riferimento ad una ipotesi di
corretto esercizio di tale discrezionalita' quale appare quella sul
punto svolta nell'art. 18, 7° comma dello Statuto (anche in quanto
riproduttivo del meccanismo in tema di danno da precariato).
In assenza di un motivo ragionevole (comparazione interessi in
gioco: rinvio al 2° vizio), risulta ingiustificatamente
discriminatorio applicare ai lavoratori assunti dal 6 marzo 2015 il
trattamento deteriore dell'art. 3, comma 1 decreto n. 23 in luogo di
quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale data ai sensi
dell'art. 18, comma 7, Statuto.
Si chiede conseguentemente applicarsi la tutela prevista
dall'art. 18, comma 7, Statuto che sul punto richiama quella del
comma 4, che e' del tutto analoga a quella prevista dal comma 2
dell'art. 3 del decreto n. 23.
5° vizio: contrasto con art. 3, 1° e 2° comma della Costituzione:
ingiustificato trattamento deteriore del creditore-lavoratore
licenziato rispetto alla situazione giuridica del creditore civile in
generale
Tertium comparationis:
Art. 1453 del codice civile.
«Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei
contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro puo' sua scelta
chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni
caso, il risarcimento del danno».
Art. 2058 del codice civile.:
«Il danneggiato puo' chiedere la reintegrazione in forma
specifica(1), qualora sia in tutto o in parte possibile.
Tuttavia il giudice puo' disporre che il risarcimento avvenga
solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta
eccessivamente onerosa per il debitore».
Da questo punto di vista non si comprenderebbe gia' (anche se non
vi fossero gli articoli 1, 2, 4, 35 e 41, 2° comma della
Costituzione) come le tutele in tema di licenziamento illegittimo
potrebbero essere cosi' diverse (e meno satisfattive) da quelle
spettanti nel diritto civile generale.
Se poi consideriamo l'impressionante e non casuale serie di
riferimenti, richiami e tutele che la Costituzione assegna
espressamente al lavoro e al lavoratore, allora emerge con ancora
piu' evidenza che il bilanciamento attuato dall'art. 3 del decreto n.
23 a discapito del lavoratore si pone in contrasto con la
Costituzione repubblicana.
Ma non e' finita.
Perche' il legislatore non ha solo il dovere di attenersi alle
regole di uguaglianza formale (art. 3, comma 1) ma ha addirittura
l'obbligo di procedere in senso attuativo di una uguaglianza
sostanziale rimuovendo (e non introducendo) «gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta' e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Principio che il legislatore aveva attuato proprio (tra l'altro)
con l'art. 18, Statuto e prevedendo il rimedio della reintegra.
In materia di lavoro vi e' come detto la necessita' di
controbilanciare il diritto del lavoratore con la liberta'
dell'impresa.
Questa giustificazione potrebbe sicuramente portare ad una
qualche diversita' di trattamento rispetto al diritto civile generale
(p.e. esclusione della reintegra in imprese di minori dimensioni,
p.e. limitazione al quantum risarcitorio).
Ma non con le modalita' di cui all'art. 3 del decreto n. 23, che
penalizzano eccessivamente una parte, il lavoratore, senza che di
contro sussista una meritevolezza nell'avvantaggiamento dell'altra.
Come gia' detto - ma si tratta indubbiamente di un leit motiv -
vengono in rilievo i datori di lavoro di maggiori dimensioni,
storicamente bene in grado di reggere il peso della reintegra causata
dal proprio illecito.
Vengono inoltre in rilievo i casi di vizi di fattispecie piu'
eclatanti, quali la mancanza degli elementi costitutivi che
legittimano il recesso per motivo economico.
In relazione ad essi, quindi, lo stato soggettivo del datore di
lavoro inadempiente e' volontario e, quindi, difficilmente e'
possibile ravvisare una qualche meritevolezzaex art. 41, 2° comma
della Costituzione nello slancio di tutela che gli assegna il
legislatore del 2015.
L'esclusione della tutela reintegratoria in uno con il tetto
massimo all'indennizzo, importa un duplice beneficio al datore di
lavoro, che va esente dalla prima e si vede un limite nella seconda.
Si tratta di una limitazione di responsabilita'.
Essa puo' essere introdotta dal legislatore (ma non dalle parti
ex art. 1229 del codice civile), anche in caso di dolo o colpa grave,
al fine di contemperare i diritti del creditore con altri diritti e
necessita' del sistema o del mercato.
Ma tale bilanciamento deve essere ragionevole.
Di regola, laddove previsto, si tratta di ipotesi in cui il
ripristino e' impossibile, perche' il bene o l'utilita' e' ormai
venuta meno (come visto: p.e. perdita o avaria nel trasporto;
micropermamenti di cui all'art. 139 codice delle assicurazioni
private; ancora, in ipotesi di occupazione appropriativa, Corte
costituzionale n. 148/1999 dava rilievo alla «natura e al carattere
eccezionale e temporaneo della disposizione denunciata» - che
prevedeva una liquidazione al ribasso del danno subito - al fine di
ritenerne la costituzionalita').
L'esatto adempimento non e' mai conculcato (salvo ex art. 2058
c.c. non «risult[i] eccessivamente oneros[o]» e qui, come detto,
storicamente non lo e').
In questo caso invece, non solo l'esatto adempimento sarebbe
possibile, tramite la reintegra, ma si introduce al contempo una
limitazione al risarcimento per equivalente, nelle ipotesi peggiori,
in cui vi e' addirittura una piena volonta' di inadempimento.
Inoltre e da ultimo va pure tenuto conto della liberalizzazione
delle motivazioni a fondamento della modifica organizzativa che ha
depurato il G.M.O. da ogni necessita' di crisi economica, ragione per
la quale esso puo' essere irrogato semplicemente per nella ricerca
del maggiore profitto, cio' che ormai rappresenta diritto vivente.
Cio' conduce indubbiamente ad una notevole inclinazione del
bilanciamento dei valori in favore del datore di lavoro e a discapito
del lavoratore, posto che non si tiene in alcuna considerazione tutto
quanto il lavoratore ha programmato e progettato, a livello personale
e familiare (acquisto di una casa, nascita di figli, etc.), basandosi
sull'esistenza del rapporto di lavoro e sul fatto che esso non possa
essere risolto dalla controparte senza una oggettiva giustificazione.
Quel che resta al lavoratore, sul piano sostanziale e dei
presupposti, nelle ipotesi piu' eclatanti e gravi, e' solamente la
possibilita' di dire che il dimagrito motivo oggettivo residuo non
esiste, perche' in realta' - essenzialmente -il posto di lavoro e'
stato occupato da un altro o perche' qualcun altro (assunto o
stabilizzato dopo il licenziamento) e' stato occupato in mansioni che
egli avrebbe potuto svolgere.
In tale ipotesi, che possono a tutti gli effetti considerarsi di
inadempimento doloso al contratto di lavoro da parte del datore, alla
luce di tutti i principi costituzionali in materia (persona, lavoro,
ma spesso anche famiglia, pur non evocandosi direttamente il relativo
parametro), nemmeno in presenza di un datore di lavoro sopra-soglia,
al lavoratore spetta piu' di un indennizzo delimitato nel massimo,
senza che possa rilevare un eventuale maggior danno (patrimoniale) e
precludendo ad uno strumento che permette di alleviare adeguatamente
buona parte dei danni verificatisi all'esito del licenziamento
(patrimoniale, morale, esistenziale, alla professionalita',
previdenziale).
Ebbene, in tali casi si ritiene illegittimo non assicurare anche
la scelta della reintegra in capo al lavoratore, strumento che
permetterebbe di soddisfare in misura ragionevole e piu' adeguata
tutti i ordinariamente connessi all'illecito licenziamento.
Se ne desume, che la scelta di penalizzare il
creditore-lavoratore - che in base alla costituzione dovrebbe semmai
essere favorito rispetto ad altre figure di creditori non accreditate
nella Costituzione - rispetto ad un qualunque altro creditore civile
risulta ingiustificatamente discriminatoria e quindi lesiva sia del
comma 1 dell'art. 3, sia del comma 2 dell'art. 3 (e qui per
inattuazione dello stesso, posta in essere mediante il processo di
de-attuazione - rispetto alla normativa pregressa - realizzato dal
decreto n. 23).
Si chiede applicarsi la tutela di cui all'art. 3, comma 2,
decreto legislativo n. 23/2015 (anche quale «rima obbligata») anche
all'ipotesi di licenziamento per motivo economico, in presenza degli
stessi presupposti e con le stesse tutele.
8. - Effetti
L'eventuale introduzione del rimedio ripristinatorio nel caso di
G.M.O. economico illegittimo per insussistenza del fatto condurrebbe
al seguente contesto di tutele in ambito di decreto n. 23:
a) agendo ex art. 3, comma 1: spetterebbero sino a trentasei
mensilita';
b) agendo ex art. 3, comma 2: spetterebbero la reintegra +
dodici mensilita';
c) agendo ex art. 3, comma 2 con opzione: spetterebbero
ventisette mensilita'.
Tale quadro non puo' certamente dirsi irrazionale, tutt'altro.
Solo nell'ipotesi in cui il lavoratore volesse optare (per propri
motivi, quali p.e. l'avere gia' trovata una nuova occupazione) per il
mero indennizzo, egli potrebbe farlo e in questo caso il quantum
risarcitorio potrebbe essere il maggiore ottenibile (astrattamente:
in realta' dipende dalla liquidazione giudiziale).
Nulla questio nell'ipotesi sub b), gia' collaudata ampiamente
tanto nell'art. 18 quanto nel 3, 2° comma relativamente a
licenziamenti per ragioni soggettive: la tutela reintegratoria e'
suscettibile di generare indubbiamente molte piu' utilita'
risarcitorie per il lavoratore rispetto al mero indennizzo monetario.
L'ipotesi sub c) potrebbe apparire in contrasto logico con
l'ipotesi sub a), ma cio' non e'.
Intanto il limite di trentasei mensilita' e' previsto
astrattamente come massimo ed e' mediato dalla liquidazione
giudiziale.
Inoltre e soprattutto, l'ipotesi sub c) consente al lavoratore di
ottenere la reintegra e riservarsi l'opzione per la monetizzazione
dell'estinzione del rapporto (quindici mensilita') all'esito della
causa, potendo attendere gli sviluppi del processo e della propria
vita, anche lavorativa; si tratta di una applicazione di quel
meccanismo giuridico che risponde al nome di opzione e che nei
rapporti interprivatistici - concedendo un vantaggio economico - e'
considerato un negozio a titolo oneroso, cio' che per l'appunto vale
anche nel caso di specie (domandando la tutela reintegratoria e non
quella indennitaria del comma 1 dell'art. 3, il lavoratore
astrattamente «rinuncerebbe» ad un delta di nove mensilita' rispetto
a quanto potrebbe ottenere, nel massimo, agendo da subito per il solo
indennizzo ex primo comma).
Inoltre concedendo la scelta se agire o meno per la reintegra, si
va come detto a dare copertura anche a tutti i danni discendenti dal
licenziamento e gia' ampiamente esaminati in precedenza.
9. - Conclusioni.
Alla luce di tutto quanto esposto, si chiede alla Corte
costituzionale la declaratoria di illegittimita' costituzionale
dell'art. 3 del decreto legislativo n. 23 del 2015 nella parte in cui
non prevede l'applicabilita' del comma 2 anche in relazione al
licenziamento determinato da «ragioni inerenti all'attivita'
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento
di essa» (art. 3, legge n. 604/1966).
P.Q.M.
Il Tribunale di Ravenna, ritenuta la questione rilevante e non
manifestamente infondata dispone, ai sensi e per gli effetti di cui
all'art. 23 della legge n. 87/1953, la trasmissione degli atti
(comprese le comunicazioni e le notificazioni di cui alla presente
ordinanza) del presente procedimento alla Corte costituzionale
affinche' valuti se sia costituzionalmente legittimo, con riferimento
agli articoli 1, 2, 3, 1° e 2° comma, 4, 1° comma, 24, 1° comma, 35,
1° comma, 41, 1° e 2° comma, Costituzione, l'art. 3, commi 1 e 2,
decreto legislativo n. 23/2015, nella parte in cui non prevede
l'applicazione del comma 2 anche alle ipotesi di licenziamento
determinato da «ragioni inerenti all'attivita' produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»;
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio
dei ministri;
Dispone, altresi', che la presente ordinanza sia comunicata con
immediatezza ai Presidenti delle due camere del Parlamento;
Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla decisione
della Corte costituzionale.
Ravenna, 27 settembre 2023
Il Giudice: Bernardi