Reg. ord. n. 140 del 2023 pubbl. su G.U. del 25/10/2023 n. 43

Ordinanza del Tribunale di Ravenna  del 27/09/2023

Tra: Soltani Hamza C/ GI GROUP S.P.A.



Oggetto:

Lavoro – Licenziamento individuale – Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – Licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico) - Ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento – Applicazione della tutela reintegratoria e dei relativi effetti sul piano risarcitorio - Omessa previsione – Denunciata disparità di trattamento del licenziamento per motivo oggettivo rispetto al licenziamento disciplinare, nel caso in cui, per entrambe le fattispecie, sia stata accertata in giudizio la mancanza di giustificazione per insussistenza del fatto – Violazione del diritto del lavoratore ad agire in giudizio per fare valere i propri diritti – Denunciata inidoneità della tutela a compensare adeguatamente il lavoratore e a dissuadere il datore di lavoro in presenza dei più gravi vizi sostanziali possibili (inesistenza del fatto posto a base del licenziamento) – Violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza – Irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa per erroneo bilanciamento della tutela del lavoro e dei diritti della persona rispetto alla libertà di impresa – Contrasto con il diritto al lavoro, con la tutela del lavoro e della personalità – Assenza di un adeguato sistema di compensazione del lavoratore in contrasto con i principi della Carta sociale europea – Disparità di trattamento rispetto alla tutela riconosciuta, in relazione agli stessi vizi, dall’art. 18, comma settimo, della legge n. 300 del 1970 ai lavoratori assunti anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 – Disparità di trattamento del lavoratore rispetto alla tutela riconosciuta al creditore dal codice civile.




Norme impugnate:

decreto legislativo  del 04/03/2015  Num. 23  Art.  Co.

decreto legislativo  del 04/03/2015  Num. 23  Art.  Co.



Parametri costituzionali:

Costituzione  Art.

Costituzione  Art.

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art.  Co.

Costituzione  Art. 24   Co.

Costituzione  Art. 35   Co.

Costituzione  Art. 41   Co.

Costituzione  Art. 41   Co.

Costituzione  Art. 117   Co.

Carta sociale europea  Art. 24   ratificata e resa esecutiva

legge  del 09/02/1999  Num. 30



Udienza Pubblica del 7 maggio 2024 rel. AMOROSO


Testo dell'ordinanza

N. 140 ORDINANZA (Atto di promovimento) 04 agosto 2023

Ordinanza  del  27  settembre  2023  del  Tribunale  di  Ravenna  nel
procedimento civile promosso da Soltani Hamza contro Gi Group S.p.a.. 
 
Lavoro - Licenziamento individuale  -  Disciplina  del  contratto  di
  lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti  -  Licenziamento
  determinato   da   ragioni   inerenti   all'attivita'   produttiva,
  all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento  di  essa
  (licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico)
  - Ipotesi in cui il giudice accerti l'insussistenza del fatto posto
  a  fondamento  del  licenziamento  -  Applicazione   della   tutela
  reintegratoria - Omessa previsione. 
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
  contratto di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in
  attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 3, commi 1 e
  2. 


(GU n. 43 del 25-10-2023)

 
                   TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA 
                    Sezione civile settore lavoro 
 
    Il giudice del lavoro Dario Bernardi a scioglimento della riserva
precedentemente  assunta,  pronuncia   la   seguente   ordinanza   di
rimessione  della   questione   della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 3, commi 1 e 2, decreto legislativo n. 23/2015. 
 
                               Motivi 
 
1. - Fatto e processo a quo. 
    Con ricorso depositato in data 23  febbraio  2022  Soltani  Hamza
domandava, per quanto qui rileva: 
    «In via principale: 
        accertare,  ex  art.  3,  comma  2,  decreto  legislativo  n.
23/2015, l'insussistenza dei motivi  fondanti  il  licenziamento  per
giusta motivo oggettivo intimato da GI Group S.p.a., in  persona  del
legale rappresentante pro tempore, nei  confronti  del  sig.  Soltani
Hamza con lettera dell'11 novembre 2021, annullare  il  licenziamento
dell'11 novembre 2021, per i fatti di cui al presente ricorso; 
        e conseguentemente condannare la societa' GI Group S.p.a., in
persona del legale rappresentante pro tempore, a reintegrare il  sig.
Soltani Hamza nel posto di lavoro oltre  pagamento  in  favore  dello
stesso,  di  una  indennita'  risarcitoria   commisurata   all'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto dal giorno del  licenziamento  all'effettiva  reintegrazione
...» (in subordine domandava liquidarsi l'indennizzo di cui  al comma
1 dell'art. 3, decreto legislativo n. 23/2015). 
    GI Group SPA resisteva al ricorso domandandone il rigetto. 
    In punto di fatto si osserva quanto segue. 
    Il ricorrente era lavoratore  dipendente  a  tempo  indeterminato
(dal  1°  dicembre  2018)  della  resistente,  che  e'   impresa   di
somministrazione di lavoro. 
    Dopo avere svolto un paio di incarichi (o missioni) per la durata
complessiva di meno di due anni, cessato l'ultimo di essi, il  datore
di lavoro - in asserita assenza di ulteriori prospettive di reimpiego
-  in  data  18  luglio  2020  attivava  la  procedura  di  messa  in
disponibilita' per mancanza di occasioni di lavoro (M.O.L.),  di  cui
all'art. 25 del C.C.N.L. per le agenzie di somministrazione di lavoro
del 15 ottobre  2019,  all'esito  del  cui  infruttuoso  esperimento,
sostenendo di non avere reperito ulteriori occasioni di lavoro per il
Soltani,  ai  sensi  del  comma  24   («qualora   le   attivita'   di
riqualificazione ... non  abbiano  portato  alla  ricollocazione  del
lavoratore  ...  permanendo  la  mancanza  di  occasioni  di  lavoro,
l'Agenzia al termine del periodo di  procedura  puo'  procedere  alla
risoluzione dei rapporti di lavoro per giustificato motivo  oggettivo
...») lo licenziava per G.M.O., con missiva dell'11 novembre 2021. 
    Non e' contestata l'esistenza di dimensioni dell'impresa tali  da
legittimare  la  invocata  tutela  reintegratoria   (dovendo   essere
dimostrata l'insussistenza  delle  stesse  ad  opera  del  datore  di
lavoro: Cass. SS.UU.  n.  141/2006;  dalla  visura  camerale  risulta
peraltro una media di quasi 40.000 dipendenti nel 2020). 
    Il lavoratore ha contestato la circostanza  che  non  vi  fossero
offerte   disponibili   per   posizioni   richiedenti   la    propria
professionalita' («operaio specializzato in  attivita'  di  montaggio
meccanico,  equilibratore  di  rotori,  logistica  e   gestione   del
magazzino,  verniciatore,  addetto  alla  conduzione  di  macchine  a
controllo   numerico   (piegatura   lamiere),    e'    titolare    di
specializzazione   tecnica   superiore   per   la   manutenzione    e
programmazione  di  PLC?»,  confermato   a   livello   testimoniale),
sostenendo che esse furono destinate ad altri lavoratori. 
    Il datore di lavoro ha inizialmente sostenuto di avere variamente
segnalato per alcuni mesi il ricorrente a  potenziali  clienti  senza
che queste segnalazioni avessero riscontro positivo. 
    Tuttavia, in seguito ad un ordine di esibizione  documentale  dei
contratti di somministrazione stipulati  dal  datore  di  lavoro  nel
periodo di interesse (durante lo svolgimento della procedura ex  art.
25 e prima  del  licenziamento),  e'  emersa  una  notevole  mole  di
contratti di somministrazione (una cinquantina  in  totale),  proprio
per le professionalita' del ricorrente e proprio nella  provincia  di
Ravenna; di essi molti si riferiscono  ad  unita'  operative  site  a
distanza inferiore a 50  km  dalla  residenza  o  dal  domicilio  del
lavoratore o comunque raggiungibili in meno di 60  minuti  con  mezzi
pubblici (cosi' come previsto dall'art. 50 del CCNL applicabile,  che
qualifica in tali termini l'offerta congrua). 
    Cio' e' risultato dalla produzione, a cura della difesa  attorea,
dei percorsi stradali necessari per raggiungere le aziende de  quibus
(un'azienda e' sita a distanza di 8 km  ed  e'  raggiungibile  in  39
minuti coi mezzi pubblici; ancora piu' vicina un'altra azienda,  sita
a 6,2 km e raggiungibile con mezzi pubblici in 22 minuti;  una  terza
azienda dista invece 26,1 km ed e' raggiungibile con  mezzi  pubblici
in 53 minuti e cosi' via). 
    Tali offerte di lavoro non furono mai presentate  al  lavoratore,
che quindi non ebbe mai modo ne' di accettarle, ne' a sua discrezione
di contestarne la congruita' (in base allo schema di cui al 2°  comma
dell'art. 50 del CCNL cit. si desume chiaramente che non sono i 15  o
i 20 minuti di  sforamento  rispetto  ai  60  necessari  al  tragitto
casa-lavoro ad impedire che l'offerta di cui al 1° comma venga  fatta
al lavoratore, essendo piuttosto quest'ultimo a poterla  accettare  o
contestare in base alla opzioni  disponibili:  cosi',  evidentemente,
andava rivolta al lavoratore anche l'offerta presso p.e.  una  quarta
azienda sita a soli 9,3 km ma raggiungibile coi mezzi pubblici  in  1
ora e 6 minuti; od altra  ancora  raggiungibile  entro  1  ora  e  16
minuti). 
    Pacificamente - cio' che piu' conta - il lavoratore non e'  stato
proposto a nessuna di tali imprese terze utilizzatrici (diverse dalle
imprese sulle quali la resistente ha costruito la sua difesa ed  alle
quali ha segnalato il ricorrente durante  la  procedura  ex  art.  25
CCNL). 
    Il datore di lavoro sostiene (senza spiegarne il motivo) che  per
quasi tutti questi  contratti  (ben  47)  si  trattasse  di  «profili
assunti  a  tempo  determinato  e  somministrati,  sempre   a   tempo
determinato», dal che deriverebbe l'impossibilita' di  ivi  assegnare
il  ricorrente,  che  era  contrattualizzato  con  GI-Group  a  tempo
indeterminato (ma si consideri che  lo  stesso  ricorrente,  a  tempo
indeterminato con la resistente dal 1° dicembre  2018,  svolgeva  nel
2019 un incarico a tempo determinato presso un utilizzatore finale). 
    In  ogni  modo,  ammessa  e  non  concessa  l'esistenza  di  tali
indimostrate ragioni ostative, residuano sicuramente 3 contratti  per
un'azienda  sita  a  17,2  km  dalla  residenza  del   ricorrente   e
raggiungibile in 1 ora e  16  con  mezzi  di  trasporto  pubblici  in
relazione ai quali,  per  stessa  ammissione  della  resistente,  era
possibile impiegare un lavoratore a tempo indeterminato (v. contratti
del 29 ottobre 2020, 2 novembre 2020, 9 novembre 2020, tutti per  una
figura di montatore meccanico  da  collocare  a  tempo  indeterminato
presso   l'utilizzatore:   si   tratta   di    rapporti    instaurati
successivamente al 18 luglio 2020, data  a  partire  dalla  quale  il
ricorrente risulta inoccupato). 
    Per   tali   contratti   il   ricorrente   non    fu    segnalato
all'utilizzatore, ne' al lavoratore venne segnalata tale possibilita'
di  impiego  e   questo   esclude   l'extrema   ratio   propria   del
licenziamento. 
    Il datore sostiene di avere svolto la sua ricerca sulla base  del
solo indirizzo del domicilio  del  ricorrente  (in  un  comune  della
Provincia di Ravenna) e non anche  dell'indirizzo  di  residenza  (in
periferia  di  Ravenna,  a  circa  7  km  dal  domicilio),  ma  nella
documentazione  aziendale  interna  (si  veda   in   particolare   la
liberatoria ai fini del  contatto  con  le  organizzazioni  sindacali
proprio al fine dello svolgimento della procedura di cui all'art.  25
del CCNL, nel quale sono indicati sia  il  domicilio  che  residenza,
documento accluso ad una e-mail di GI Group del luglio del 2020) sono
indicati entrambi (perche' il lavoratore aveva la  disponibilita'  di
entrambi, come confermato ad abundantiam in  sede  di  interrogatorio
libero) ed e' piu' che ragionevole ritenere che su  entrambi  andasse
effettuata la ricerca. 
    Le parti disquisiscono, inoltre,  sul  fatto  che  il  lavoratore
fosse (auto)munito o meno al fine di raggiungere i  possibili  luoghi
di lavoro (secondo il datore, parte degli utilizzatori aveva  preteso
solo lavoratori automuniti). 
    La questione e' stata chiarita dal lavoratore sentito in sede  di
interrogatorio libero: egli aveva la macchina fino al  licenziamento,
dopo non poteva piu' permettersela; i conti tornano  perche'  in  una
e-mail del 21 luglio 2020 nella quale l'agenzia  di  somministrazione
proponeva il ricorrente ad una azienda del territorio  (che  non  era
alla ricerca di personale in ambito  produttivo  in  quel  momento  e
quindi declino'), GI Group definisce il lavoratore come  «automunito»
(e la cosa si ripete in varie e-mail dal contenuto analogo successivo
all'avvio della procedura ex art. 25:  v.  e-mail  del  23  settembre
2021). 
    Dunque, difficilmente un datore di lavoro potra'  avere  scartato
il ricorrente perche' non automunito quando nelle stesse segnalazioni
di GI Group lo stesso veniva definito «automunito». 
    In ogni modo, trattandosi in diversi  casi  di  luoghi  veramente
prossimi alla propria residenza o anche al  domicilio,  ne  risultano
dei tempi di percorrenza con mezzi pubblici ben al di sotto  dell'ora
di tempo o comunque la raggiungibilita' anche con altri mezzi diversi
dall'autovettura (come visto una delle aziende si trova  a  soli  6,2
km, distanza quest'ultima percorribile con ogni mezzo, anche privo di
motore). 
    Il discorso dell'autovettura, comunque, non riguarda  il  cliente
che fece tre contratti tra l'ottobre e il novembre del 2020  ed  anzi
quelle tre offerte a tempo indeterminato di cui  si  e'  detto  prima
sarebbero state perfettamente idonee  per  il  ricorrente,  viste  le
mansioni dallo stesso rivestite  in  passato  (montatore  meccanico),
vista la distanza dalla residenza del lavoratore (17,2 km)  e  attesa
comunque la raggiungibilita' del luogo di lavoro in 1 ora e 16 minuti
con mezzi pubblici. 
    Ma piu' in generale,  come  visto,  furono  una  cinquantina  nel
periodo in esame le offerte di potenziale e concreto  interesse  (che
si trasformarono tutte in contratti di somministrazione, alcuni anche
a tempo indeterminato) in relazione alle  quali  mai  fu  tentato  il
collocamento   del   ricorrente,   senza   alcuna    reale    ragione
giustificatrice  (se  non  l'idea   -   come   si   vedra'   tuttavia
incompatibile con il  diritto  oggettivo  -  che  l'esecuzione  della
procedura  di  cui  all'art.  25  del  CCNL   esenti   l'agenzia   di
somministrazione dall'obbligo di eseguire un vero e proprio, anche se
peculiare, ripescaggio; nemmeno  la  circostanza  che  l'utilizzatore
possa respingere il profilo del lavoratore appare pertinente, perche'
in mancanza di segnalazione - e questo per 50 oltre casi pertinenti -
il dato e' francamente irrilevante). 
    Tali  elementi  rendono  sussistente  allo  stato  un  fumus   di
fondatezza della domanda attorea necessario per sollevare la presente
questione,  apparendo  insussistente  l'adempimento  dell'obbligo  di
repechage che si configura anche per le imprese  di  somministrazione
di lavoro (v. oltre nello specifico). 
    Preme infine osservare come il  lavoratore  abbia  medio  tempore
trovato una nuova occupazione, cio' che come e' noto non e'  ostativo
dell'ordine di reintegrazione nel precedente  posto  di  lavoro  (ne'
dell'alternativa opzione). 
2. - L'oggetto del giudizio di costituzionalita': la norma. 
    L'oggetto dell'ordinanza di rimessione e' l'art.  3  del  decreto
legislativo n. 23/2015,  rubricato  «Licenziamento  per  giustificato
motivo e giusta causa» ed  ai  sensi  del  quale:  «1.  Salvo  quanto
disposto dal comma 2, nei casi  in  cui  risulta  accertato  che  non
ricorrono gli  estremi  del  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo o per giustificato motivo soggettivo  o  giusta  causa,  il
giudice  dichiara  estinto  il  rapporto  di  lavoro  alla  data  del
licenziamento  e  condanna  il  datore  di  lavoro  al  pagamento  di
un'indennita' non  assoggettata  a  contribuzione  previdenziale,  in
misura comunque non inferiore a  sei  e  non  superiore  a  trentasei
mensilita'. 
    2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato
motivo  soggettivo  o  per  giusta  causa  in  cui  sia  direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato
al lavoratore, rispetto alla quale resta  estranea  ogni  valutazione
circa la  sproporzione  del  licenziamento,  il  giudice  annulla  il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione  del
lavoratore nel posto  di  lavoro  e  al  pagamento  di  un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di  riferimento  per
il calcolo  del  trattamento  di  fine  rapporto,  corrispondente  al
periodo dal giorno del licenziamento  fino  a  quello  dell'effettiva
reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito  per  lo
svolgimento di altre attivita'  lavorative,  nonche'  quanto  avrebbe
potuto percepire accettando una congrua offerta di  lavoro  ai  sensi
dell'art. 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo  21  aprile
2000, n. 181, e successive modificazioni.  In  ogni  caso  la  misura
dell'indennita' risarcitoria relativa  al  periodo  antecedente  alla
pronuncia di  reintegrazione  non  puo'  essere  superiore  a  dodici
mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto. Il  datore  di  lavoro  e'  condannato,
altresi', al versamento dei contributi previdenziali e  assistenziali
dal  giorno  del   licenziamento   fino   a   quello   dell'effettiva
reintegrazione,  senza  applicazione  di   sanzioni   per   omissione
contributiva. Al lavoratore e' attribuita la facolta' di cui all'art.
2, comma 3». 
    Queste le disposizioni, la norma che si censura  e'  l'esclusione
della tutela reintegratoria (con tutte le conseguenze) di cui  al  2°
comma dell'art. 3, in caso di licenziamento per  giustificato  motivo
oggettivo economico nelle ipotesi («insussistenza del fatto») in  cui
la stessa  e'  prevista  per  i  licenziamenti  per  giusta  causa  e
giustificato motivo soggettivo. 
    Si impugnano qui entrambi i commi  dell'art.  3  del  decreto  n.
23/2015, posto che il  vulnus  costituzionale  deriva  dal  combinato
operare  delle  due  disposizioni  (una  prevede   la   sola   tutela
indennitaria;  l'altra  limita  la  tutela  reale  ai  soli  casi  di
licenziamento disciplinare) e che le modalita' tecniche di  possibile
intervento sulla disposizione, al fine  di  eventualmente  aggiungere
quanto qui invocato, sono piu' di una. 
3. - I parametri. 
    Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in  contrasto  con
alcuni parametri costituzionali. 
    In particolare si tratta delle seguenti disposizioni: 
        art. 1 della Costituzione; 
        art. 2 della Costituzione; 
        art. 3, 1° e 2° comma della Costituzione; 
        art. 4, 1° comma della Costituzione; 
        art. 24 della Costituzione; 
        art. 35, 1° comma della Costituzione; 
        art. 41, 1° e 2° comma della Costituzione; 
        117, 1° comma, della Costituzione, in relazione  all'art.  24
della Carta sociale europea. 
4. - Le questioni. 
    Si dubita  della  legittimita'  costituzionale  dell'art.  3  del
decreto legislativo n. 23/2015 (nel prosieguo, per semplicita', anche
solo «decreto n. 23») laddove ne risulta che in caso di licenziamento
per  giustificato  motivo  oggettivo   di   tipo   economico   (ossia
determinato   da   «ragioni   inerenti   all'attivita'    produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento  di  essa»:
art. 3, legge n. 604/1966), in ipotesi  in  cui  il  giudice  accerti
l'insussistenza del fatto (nell'accezione di Corte costituzionale  n.
125/2022) posto a fondamento del licenziamento stesso, il legislatore
abbia escluso - anche in ipotesi di impresa sopra soglia  ex  art.  9
(che sul punto  rinvia  alle  soglie  numeriche  dell'art.  18  dello
statuto dei lavoratori), la tutela reintegratoria. 
    Una prima questione e' egualitaria  e  si  pone  con  riferimento
all'art. 3, 1° comma della  Costituzione  con  riguardo  alla  tutela
reintegratoria prevista dall'art. 3, 2° comma del decreto n. 23 per i
licenziamenti  disciplinari,  posto   che   si   trattano   in   modo
ingiustificatamente differenziato (a livello  di  tutele)  situazioni
del tutto identiche (o almeno omogenee), ossia il  licenziamento  per
motivi  disciplinari  e  il  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo dei quali si sia  accertata  in  giudizio  la  mancanza  di
giustificazione per  insussistenza  del  fatto;  tale  differenza  di
tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera  scelta
del datore di lavoro di qualificare in un modo  o  nell'altro  l'atto
espulsivo  dallo  stesso  adottato  e  rivelatosi   poi   del   tutto
pretestuoso (art. 3, 1° comma della  Costituzione);  qui  si  ritiene
presente anche un concomitante vulnus all'art. 24 della Costituzione,
posto che  al  lavoratore,  nella  sostanza,  non  viene  concesso  -
all'esito della dimostrazione processuale che un fatto non  esiste  -
di avere le conseguenze che razionalmente spetterebbero  in  mancanza
di  valorizzazione  dell'etichetta  assegnata  dalla  controparte  al
licenziamento; egli invece e' tenuto a subire conseguenze sostanziali
e ultrattive di fatti pur processualmente accertati come inesistenti;
secondo un meccanismo che  e'  l'esatto  contrario  del  concetto  di
deterrenza. 
    Una  seconda  questione  si  pone  in  forza  del  principio   di
ragionevolezza per un qui ritenuto scorretto bilanciamento dei valori
costituzionali   (irragionevolezza:   art.   3,   1°   comma    della
Costituzione) in  causa,  essendo  conculcati  ingiustificatamente  i
valori  del  lavoro  (art.  1,  4,1°  comma,  35,  1°   comma   della
Costituzione) e della persona (art. 2  della  Costituzione),  piegati
questi alle necessita' dell'impresa (invertendo la dinamica  prevista
dall'art. 41, 2° comma della  Costituzione)  e  non  viceversa,  come
dovrebbe aversi anche in applicazione dell'art.  3,  2°  comma  della
Costituzione,  escludendosi  la  reintegra,  strumento  in  grado  di
assicurare l'adeguatezza  del  risarcimento  subito  dal  lavoratore,
rispetto ad una tutela complessiva altrimenti  duplicemente  limitata
(no reintegra; tetto all'indennizzo); ma anche  la  deterrenza  della
sanzione, qui fortemente sminuita. 
    Analoga questione si pone ai sensi dell'art.117, 1° comma,  della
Costituzione, in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea. 
    Altra questione riguarda ex art. 3, 1° comma  della  Costituzione
la notevole ed ingiustificata diversita' di  trattamento  sostanziale
(disuguaglianza ...) tra i lavoratori ai quali si applica l'art.  18,
legge n. 300/1970, ai quali in determinati casi spetta  la  reintegra
per G.M.O. (valorizzandosi la gravita' del vizio - insussistenza  del
fatto - e le dimensioni dell'impresa in base alla soglia numerica per
l'applicazione della tutela reale) e i lavoratori soggetti al decreto
n. 23, ai quali non spetta mai  la  reintegra  e  che  vedono  quindi
eccessivamente penalizzati i propri diritti  (...  in  rapporto  alla
irragionevolezza). 
    Altra   questione    riguarda    il    trattamento    sostanziale
ingiustificatamente deteriore ex art. 3, 1° comma della  Costituzione
(disuguaglianza ...)  riservato  al  lavoratore  subordinato  che  ha
subito l'inadempimento (al mantenimento del rapporto di lavoro,  allo
svolgimento della propria prestazione e alla retribuzione) del datore
di lavoro che lo ha licenziato, rispetto ad ogni altro creditore  del
diritto civile, posto che quest'ultimo - al  contrario  del  primo  -
gode della scelta generale tra risarcimento in forma specifica e  per
equivalenti  risultando   la   duplice   limitazione   eccessivamente
penalizzante  i  diritti  dei  lavoratori  (...  in   rapporto   alla
irragionevolezza). 
    Va subito evidenziato che il secondo vizio (ma  anche  il  terzo)
riguarda il ritenuto cattivo uso della discrezionalita' legislativa. 
    La trattazione dello stesso viene anticipata rispetto a due delle
questioni di uguaglianza (4° e 5°  vizio)  in  quanto  queste  ultime
risultano  in  realta'  una  combinazione  di  disuguaglianza  e   di
irragionevolezza (in quanto il quid trattamentale di differenziazione
rispetto al tertium comparationis si ritiene essere il  frutto  anche
di un cattivo uso  della  discrezionalita'  legislativa,  venendo  in
rilievo   sempre   bilanciamenti   di   beni   aventi   tutti   rango
costituzionale). 
    Per questa ragione gli elementi fondanti  il  cattivo  uso  della
ragionevolezza in  punto  a  bilanciamento  degli  interessi  vengono
inseriti nel  2°  vizio,  ma  devono  (per  esigenze  di  continenza)
considerarsi richiamati in punto ad irrazionale  bilanciamento  anche
in relazione al 3°, 4° e 5° vizio. 
5. - Rilevanza della questione. 
    Il lavoratore, assunto a tempo indeterminato nel  2018  e  quindi
dopo l'entrata in vigore del decreto n. 23, che gli  e'  applicabile,
aziona una pretesa reintegratoria, fondandola sull'insussistenza  del
fatto posto a fondamento del G.M.O. 
    Come visto il decreto n. 23, all'art. 3, 1° e 2°  comma,  esclude
tale possibilita'. 
    Ai fini della valutazione della rilevanza della questione, si da'
atto che il tribunale ha  istruito  la  controversia  acquisendo  una
serie di elementi (v. punto 1 in fatto) che in questa sede si ritiene
sufficienti integrare un rilevante fumus di fondatezza del ricorso. 
    Fumus rappresentato dal mancato reimpiego del  lavoratore  presso
numerosi altri clienti del somministrante (al quale il ricorrente non
fu nemmeno indicato), per posizioni richiedenti mansioni proprie  del
bagaglio professionale del primo. 
    Secondo la giurisprudenza ormai consolidata  in  tema  di  G.M.O.
economico: 
    «3. In via generale, ai fini del  licenziamento  individuale  per
giustificato motivo oggettivo, giova  ribadire  che  l'art.  3  della
legge n. 604 del 1966 richiede: 
        a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del
posto cui era addetto il dipendente,  senza  che  sia  necessaria  la
soppressione di tutte  le  mansioni  in  precedenza  attribuite  allo
stesso; 
        b) la riferibilita' della soppressione a  progetti  o  scelte
datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruita'
e opportunita',  purche'  effettivi  e  non  simulati  -  diretti  ad
incidere sulla struttura e sull'organizzazione  dell'impresa,  ovvero
sui suoi processi produttivi,  compresi  quelli  finalizzati  ad  una
migliore efficienza ovvero ad incremento di redditivita'; 
        c) l'impossibilita' di reimpiego del lavoratore  in  mansioni
diverse,  elemento  che,  inespresso  a  livello   normativo,   trova
giustificazione  nel  carattere  necessariamente  effettivo   e   non
pretestuoso della scelta datoriale, che non puo' essere  condizionata
da finalita' espulsive legate alla persona del lavoratore. 
    L'onere  probatorio  in  ordine  alla   sussistenza   di   questi
presupposti e' a carico del datore di  lavoro,  che  puo'  assolverlo
anche mediante  ricorso  a  presunzioni,  restando  escluso  che  sul
lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili  (v.
per tutte Cassazione n. 24882 del 2018)» (Cassazione n. 752/2023). 
    Tale onere di repechage si ritiene - in ossequio alla  natura  di
extrema ratio del licenziamento - ormai essere stabilmente parte  del
fatto (Cassazione n. 29102/2019; Corte costituzionale  n.  125/2022),
mentre a livello probatorio lo stesso incombe, al pari di  tutti  gli
altri presupposti legittimanti il  potere  di  recesso,  in  capo  al
datore di lavoro (art. 5, legge n. 604/1966) ed opera in modo  pieno,
senza possibilita' di aggravare  surrettiziamente  la  posizione  del
lavoratore  attraverso  l'imposizione  allo  stesso  di  obblighi  di
allegazione   di   posizioni   vacanti   (Cassazione   6497/2021   in
motivazione). 
    Tale disciplina di ordine generale, risulta applicabile anche  al
rapporto di lavoro in somministrazione a  tempo  indeterminato  (art.
34, 1° comma decreto legislativo n. 81/2015 «In caso di assunzione  a
tempo indeterminato il  rapporto  di  lavoro  tra  somministratore  e
lavoratore e' soggetto alla disciplina prevista per  il  rapporto  di
lavoro a tempo indeterminato»; in  giurisprudenza,  sotto  il  vigore
della precedente analoga normativa v. Cassazione n. 26607/2019). 
    Anche in  tale  tipologia  di  rapporto  e'  stato  correttamente
sostenuto sussistere il capo al datore di lavoro un pieno obbligo  di
repechage, posto che  la  normativa  collettiva  (art.  25  del  CCNL
agenzie di somministrazione di lavoro, cit.), che prevede un percorso
di riqualificazione professionale in caso di  mancanza  di  missioni,
«... non esonera il  datore  di  lavoro  dall'onere  di  prova  degli
elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso e,
nel caso di licenziamento per motivo  oggettivo,  dell'impossibilita'
di repechage (Cassazione n. 10435 del 2018; n. 32159  del  2018)  che
per  il  dipendente  a  tempo  indeterminato  di   una   agenzia   di
somministrazione consiste  nella  impossibilita'  di  reperimento  di
altre occasioni di lavoro in un arco di tempo  congruo  ...,  potendo
l'esito  della  procedura  suddetta  costituire  elemento  indiziario
valutabile dal giudice unitamente al restante  materiale  probatorio»
(Cassazione n. 26607/2019). 
    Come visto, nel caso di specie, a  fronte  dell'esecuzione  della
procedura di cui all'art. 25 del CCNL (con segnalazioni piu'  o  meno
casuali del lavoratore ad aziende del territorio), oltre 50 contratti
di somministrazione relativi  alle  professionalita'  del  ricorrente
venivano stipulati con aziende del territorio  realmente  interessate
ad  utilizzare  un  lavoratore,  senza  che  ad  alcuna  di  esse  il
nominativo del ricorrente venisse fatto. 
    Ne discenderebbe una  situazione  di  «insussistenza  del  fatto»
dimostrata direttamente in giudizio (art. 3,  2°  comma,  decreto  n.
23). 
    Tali elementi di fumus in fatto rendono, in diritto, rilevante la
questione di costituzionalita'  qui  proposta,  posto  che  lo  stato
attuale della normativa conduce direttamente al rigetto della domanda
di reintegra (che e' la domanda formulata  in  via  principale  e  va
quindi esaminata per prima) diparte ricorrente. 
    In cio' si esaurisce la rilevanza  della  questione,  posto  che,
alla luce della domanda formulata in via principale  dal  ricorrente,
e'   necessario   superare   il   dato   legislativo   per   arrivare
all'accoglimento della stessa. 
    Al contrario, le questioni sulla dosimetria  della  tutela  (vizi
nn. 2-3-4-5), afferendo a valutazioni di ordine generale  e  astratto
(errato bilanciamento da parte di  una  norma  di  legge  dei  valori
costituzionali che vengono  in  rilievo),  non  sono  influite  dalle
circostanze del caso di specie ed  in  particolare  dell'entita'  del
danno patrimoniale subito  nell'occasione  dal  lavoratore  (p.e.  la
circostanza che il lavoratore abbia nel frattempo trovato  un  lavoro
e' irrilevante nella valutazione astratta della  correttezza  o  meno
del bilanciamento dei valori costituzionali, anche in punto a quantum
risarcibile,  nell'art.  3,1°  comma  decreto  n.  23:  tali  aspetti
attengono a norme e vanno verificati a livello generale  e  astratto;
la rilevanza e'  semplicemente  rappresentata  dall'ostacolo  che  la
norma positiva frappone alla tutela invocata dalla parte). 
6. - L'impossibilita' di una interpretazione adeguatrice. 
    La norma e' chiarissima nella sua formulazione (il raffronto  tra
1° e 2° comma)  sul  punto  e  l'assenza  di  reintegra  in  caso  di
licenziamento pur gravemente ingiustificato (ma non nullo) per G.M.O.
nel  decreto  n.  23  appare  un  dato  pacifico  in  dottrina  e  in
giurisprudenza, rappresentando essa proprio  il  tratto  maggiormente
«qualificante»  (unitamente   alla   forfettizzazione   proporzionale
dell'indennita' risarcitoria, quest'ultima  espunta  dall'ordinamento
grazie alle sentenze n. 194/2018 in tema di  vizi  sostanziali  e  n.
150/2020 in tema di vizi formali, della Consulta) della  riforma  dei
licenziamenti del 2015. 
7. - La non manifesta infondatezza della questione. 
1° vizio: contrasto con art. 3, 1° comma della Costituzione. 
    Tertium comparationis: 
        art. 3, 2° comma decreto legislativo n. 23/2015: 
          «2.  Esclusivamente  nelle  ipotesi  di  licenziamento  per
giustificato  motivo  soggettivo  o  per  giusta  causa  in  cui  sia
direttamente  dimostrata  in  giudizio  l'insussistenza   del   fatto
materiale  contestato  al  lavoratore,  rispetto  alla  quale   resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il
giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro  alla
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al  pagamento  di
un'indennita' risarcitoria  commisurata  all'ultima  retribuzione  di
riferimento  per  il  calcolo  del  trattamento  di  fine   rapporto,
corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a  quello
dell'effettiva reintegrazione, dedotto  quanto  il  lavoratore  abbia
percepito per lo svolgimento di altre attivita'  lavorative,  nonche'
quanto avrebbe potuto percepire accettando  una  congrua  offerta  di
lavoro ai sensi  dell'art.  4,  comma  1,  lettera  c),  del  decreto
legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e  successive  modificazioni.  In
ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria relativa al  periodo
antecedente  alla  pronuncia  di  reintegrazione  non   puo'   essere
superiore a dodici mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di  lavoro
e' condannato, altresi', al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali  dal   giorno   del   licenziamento   fino   a   quello
dell'effettiva reintegrazione, senza  applicazione  di  sanzioni  per
omissione contributiva. Al lavoratore e' attribuita  la  facolta'  di
cui all'art. 2, comma 3». 
    Il primo comma  dell'art.  3  prevede  esclusivamente  la  tutela
indennitaria. 
    Il secondo comma dell'art. 3 - laddove si prevede una finestra di
tutela reale - non e' applicabile ai licenziamenti economici. 
    Qui il vulnus costituzionale si  ritiene  essere  radicato  nella
mancata previsione che per il GMO, nel caso «in cui sia  direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto»  (ossia  la  stessa
formula impiegata per il  licenziamento  disciplinare  nel  2°  comma
dell'art.  3),  non  e'  prevista  la  reintegra   (unitamente   alle
conseguenze risarcitorie di cui al 2° comma). 
    Al contrario,  il  riferimento  sempre  nel  2°  comma  al  fatto
«materiale  contestato  al  lavoratore,  rispetto  alla  quale  resta
estranea ogni valutazione circa la  sproporzione  del  licenziamento»
risulta del tutto estraneo alla tematica del GMO attenendo alla  sola
fattispecie del licenziamento disciplinare. 
    Le modalita' di intervento tecnico (mediante aggiunta  o  ritagli
di una o piu' parole) sulla norma sono piu' di una e non ci si  mette
a cercare di sostituirsi alla Corte in un ambito tecnico  applicativo
che le e' proprio. 
    Qui semplicemente si indica il  petitum  in  modo  inequivocabile
nella richiesta che la norma sia  dichiarata  incostituzionale  nella
parte in cui non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro  e  le
conseguenze risarcitorie previste dal 2° comma dell'art.  3  in  tema
licenziamento disciplinare, anche  nell'ipotesi  in  cui  il  giudice
accerti che il licenziamento per G.M.O. si e'  fondato  su  un  fatto
insussistente. 
    La distinzione di disciplina tra il caso  del  licenziamento  per
motivo soggettivo e per motivo oggettivo, in relazione all'ipotesi in
cui entrambi risultino accertati dal  giudice  come  giustificati  su
fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria, essendo al
contrario i due fenomeni identici  o,  se  non  altro,  assolutamente
omogenei. Non si discute ovviamente della diversita' strutturale  tra
le fattispecie del licenziamento disciplinare e per motivo  oggettivo
(cio' che, a livello retorico, potrebbe essere individuato come falso
bersaglio al fine di escludere l'esistenza della discriminazione). 
    Si discute al  contrario  e  solamente  dell'ipotesi  in  cui  il
licenziamento sia accertato non solo come illegittimo,  per  mancanza
di uno o piu' presupposti, ma addirittura per  insussistenza  di  uno
degli elementi che ne  compongono  il  fatto  costitutivo  (e  questo
nell'accezione  di  cui  alla  sentenza  costituzionale  n.  125/2022
relativa ad analoga questione, ma in ambito applicativo  di  art.  18
statuto dei lavoratori). 
    Come e' noto a partire dalla riforma del 2012  la  strada  scelta
dal legislatore in tema di tutele avverso i licenziamenti illegittimi
e' stata nel senso della graduazione delle tutele. 
    E' stata data una gerarchia valoriale, con vizi piu' gravi e vizi
meno gravi. 
    Si e' trattata di una scelta discrezionale. 
    Tuttavia,  una  volta  poste  le  fondamenta  del   sistema,   il
legislatore e' vincolato al rispetto dei principi di ragionevolezza e
uguaglianza,  entrambi  rinvenibili  nell'art.  3,  1°  comma   della
Costituzione. 
    Dunque, a parita' di  gravita'  del  vizio  deve  necessariamente
corrispondere un uguale trattamento sanzionatorio. 
    E questo vieppiu' in presenza  di  una  identita'  di  vizi,  che
corrisponde all'ipotesi in  cui  il  giudice  accerti  che  il  fatto
(soggettivo o oggettivo) posto alla base del recesso non esiste. 
    La scelta contraria effettuata  dal  legislatore  nel  2012  (che
aveva reso discrezionale la scelta di reintegra da parte del  giudice
solo in caso di motivo economico, mentre per i disciplinari permaneva
l'obbligo) e' gia' stata  sanzionata  con  l'abrogazione  per  questo
motivo dalla sentenza costituzionale n. 59/2021. 
    In quella sede si trattava di una normativa che prevedeva gia' la
(possibilita' di) reintegra anche nel caso di G.M.O.,  subordinandola
tuttavia ad elementi casuali  ed  accidentali  (oltre  alla  facolta'
discrezionale di reintegra, occorreva anche  una  sorta  di  aggravio
probatorio sintetizzato nella qualifica  di  «manifesta»  che  doveva
avere l'insussistenza dei presupposti fondanti il licenziamento)  che
avevano  l'effetto  di  limitarne   stocasticamente   l'applicazione,
elementi rimossi  oltre  che  ad  opera  della  sentenza  n.  59/2021
(«puo'»), dalla successiva n. 125/2022 («manifestamente»). 
    Rispetto alla fattispecie in esame (in cui non c'e' traccia della
reintegra per il G.M.O.), in quei casi vi era un passaggio  in  parte
diverso nel ragionamento. 
    Nell'art. 18, 7° comma era gia' previsto che la reintegra potesse
operare anche nel G.M.O. e questo rendeva chiara la disarmonia che il
legislatore del 2012 aveva inserito mediante la discrezionalizzazione
dell'applicazione del rimedio in forma specifica. 
    Nel caso di specie, al contrario, vi e' una  scelta  a  monte  di
preclusione della reintegra per il caso di licenziamento per G.M.O. 
    Anche qui il ragionamento, pero', non puo' che essere il medesimo
ed anzi, trattandosi di una radicale differenza di tutela sostanziale
(totale preclusione per il G.M.O.), la  linea  argomentativa  di  cui
alla sentenza n. 59/2021 ne esce addirittura rafforzata. 
    Perche' non e' piu' una mera facolta' (in luogo di un obbligo) di
reintegra che viene collegata alla qualifica (disciplinare o  G.M.O.)
data dal datore di lavoro  al  licenziamento,  bensi'  dall'etichetta
utilizzata dal datore discende la  radicale  esclusione  del  rimedio
restitutorio del rapporto di lavoro. 
    Dunque, sicuramente vale  anche  in  questo  caso  l'assunto  che
«L'esercizio arbitrario  del  potere  di  licenziamento,  sia  quando
adduce a pretesto un fatto disciplinare  inesistente  sia  quando  si
appella a una  ragione  produttiva  priva  di  ogni  riscontro,  lede
l'interesse del lavoratore alla continuita' del vincolo  negoziale  e
si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata
la persona del lavoratore. L'insussistenza  del  fatto,  pur  con  le
diverse  gradazioni  che  presenta  nelle  singole   fattispecie   di
licenziamento, denota il contrasto piu' stridente con il principio di
necessaria giustificazione del recesso  del  datore  di  lavoro,  che
questa Corte ha enucleato sulla base degli  articoli  4  e  35  della
Costituzione (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato  in
diritto)» (Corte costituzionale n. 59/2021). 
    Senza che possa rilevare  in  senso  contrario,  come  visto,  la
circostanza che il punto di partenza per il G.M.O. nel decreto n.  23
e' differente perche' la reintegra e'  ab  origine  esclusa  in  ogni
caso. 
    Esattamente  come  in  presenza  degli  elementi  naturali  della
tipologia del rapporto di lavoro, laddove ne derivi un contrasto  con
le norme inderogabili a tutela del lavoratore,  non  e'  concessa  al
legislatore disporre della qualifica che piu' gli  (contingentemente)
conviene (Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994) allo stesso
modo chi  fa  le  leggi  non  puo'  disporre  delle  tutele  fondando
distinzioni su quid  inesistenti,  ed  anzi  rimettendo  tale  scelta
essenzialmente al debitore (il  datore  di  lavoro,  in  ordine  alla
giustificazione del recesso, ex art. 1218 del codice civile). 
    Un esempio potra' essere chiarificatore. 
    Se invece di essere licenziato perche' sosteneva di  non  avergli
trovato un lavoro nel  congruo  periodo  successivo  alla  cessazione
della precedente missione, il datore di lavoro avesse  licenziato  il
ricorrente per averlo insultato gravemente o per avere sottratto beni
aziendali e tali circostanze fossero inesistenti, cosa cambierebbe? 
    Nulla, ne' a livello fenomenologico (la giustificazione manca  in
entrambi i casi),  ne'  tantomeno  di  logica  giuridica  (dal  nulla
difficilmente puo' farsi derivare qualcosa:  non  da  ieri  si  suole
ripetere ex nihilo nihil fit). 
    Tutto cambia, invece, secondo la legge, perche' nel secondo  caso
il lavoratore potrebbe vedersi reintegrato nel  proprio  rapporto  di
lavoro, mentre nel primo caso tale scelta gli sarebbe  preclusa,  per
volonta' del legislatore, essendo la stessa,  al  contrario,  rimessa
insindacabilmente al datore di  lavoro  al  momento  della  redazione
della lettera di licenziamento,  tra  l'altro  mettendo  quest'ultimo
davanti ad un enorme azzardo morale (per sbarazzarsi  definitivamente
di un lavoratore senza che sussista radicalmente un motivo legittimo,
sara' sufficiente utilizzare un motivo oggettivo, pur inesistente). 
    Eppure l'ordinamento giuridico nel suo complesso ha bene presente
che una cosa e' l'affermazione di una circostanza e un'altra cosa  e'
il fatto che la circostanza esista. 
    E' infatti chiarissimo in giurisprudenza di legittimita' che  non
e' il titolo astratto di licenziamento a dovere essere oggetto  della
valutazione  giudiziale  in  punto  alle  conseguenze   sanzionatorie
dell'illecito, bensi' e' solo il motivo  in  concreto  accertato  dal
giudice nel  corso  del  processo  a  potere  determinare  la  tutela
spettante: «Ne' si dica che  il  fatto  giustificativo  debba  essere
valutato non in concreto, bensi' in astratto ed ex ante,  secondo  la
prospettiva del datore  di  lavoro  al  momento  di  intimazione  del
licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovra' poi essere
accertato in sede giudiziaria: ove pure il  datore  di  lavoro  fosse
convinto,  nel  momento  in  cui  ha  comunicato  il   licenziamento,
dell'avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il
licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in  base
all'erroneo  calcolo  effettuato  dal  dichiarante.  Infatti,  mentre
l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale va calibrato  in  ragione
del   motivo    di    licenziamento    enunciato,    l'individuazione
dell'eventuale   sanzione   applicabile    (nullita',    inefficacia,
annullamento etc.)  va  pur  sempre  parametrata  al  fatto  come  in
concreto emerso all'esito del giudizio, a prescindere dall'originaria
prospettiva di parte datoriale. Ad esempio,  un  licenziamento  nullo
(v. art. 18, comma 1, legge n. 300 del 1970, nel testo  novellato  ex
lege n. 92 del 2012) perche'  discriminatorio  o  viziato  da  motivo
illecito  e  determinante  non  si  sottrarra'  alla  sanzione  della
nullita'  sol  perche'  nella  lettera  di  licenziamento  sia  stata
enunciata  un'inesistente   infrazione   disciplinare   astrattamente
integrante giusta causa di recesso»: (Cassazione civile,  SS.UU.,  n.
12568/2018). 
    Cio' e' talmente ovvio che e' lo stesso legislatore  che  precisa
(ad abuntantiam) tale principio  laddove  stabilisce,  nel  1°  comma
dell'art. 18, che la tutela reintegratoria forte  spetti  laddove  ne
siano accertati i relativi presupposti  e  questo  «indipendentemente
dal motivo formalmente addotto», essendo evidente che  l'accertamento
giudiziale - in un sistema democratico costituzionale  fondato  sulla
tripartizione  dei  poteri  -supera  sempre   l'eventuale   etichetta
formale. 
    Nel decreto n. 23 questo non avviene  e  quindi  l'individuazione
della tutela applicabile rispetto ad una ipotesi  di  vizio  identica
(licenziamento, sia esso fondato su motivo soggettivo che  oggettivo,
completamente ingiustificato  per  insussistenza  di  un  presupposto
costitutivo della relativa fattispecie), o se si preferisce altamente
omogenea, spetta non al giudice, bensi' ad una delle parti. 
    Cio' che contrasta frontalmente con ogni logica, anche giuridica. 
    Quindi il vizio riguarda l'art. 3, 1°  comma  della  Costituzione
sotto il profilo della disuguaglianza ingiustificata  di  trattamento
tra il motivo soggettivo e il motivo  oggettivo,  in  presenza  degli
stessi presupposti di vizio. 
    Ne risulta inoltre l'irrazionalita' assoluta di far dipendere  le
conseguenze sanzionatorie e di tutela per  un  fatto  illegittimo  ed
illecito dalla mera qualificazione giuridica utilizzata da una  delle
due parti del rapporto, senza al contrario dare rilievo alla  realta'
quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal giudice. 
    L'azzardo morale concesso al datore importa anche un problema  di
ragionevolezza della disciplina (v. anche 2° vizio prospettato),  che
pero' puo' essere speso  utilmente  anche  in  relazione  all'aspetto
egualitario, essendo evidente che l'esclusione della  reintegra  solo
per il G.M.O. produce non solo un minore effetto  deterrente  per  il
datore di lavoro, bensi' un effetto addirittura ammiccante l'illecito
nel momento in cui gli si concede  la  possibilita'  di  impedire  la
reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando  in  un
certo modo piuttosto che in un altro un motivo - comunque inesistente
- di licenziamento. 
    Nulla rileva che nel 1° comma dell'art.  3,  decreto  n.  23  sia
previsto un indennizzo monetario  che  nel  massimo  (36  mesi)  puo'
essere superiore all'importo di una  eventuale  monetizzazione  della
reintegra (12+15 mesi), in quanto,  in  disparte  il  fatto  che  non
l'indennizzo di cui al 1° comma va liquidato  dal  giudice  nel  caso
concreto (tenendo innanzi tutto conto dell'anzianita'  di  servizio),
la  reintegra  -  ricostituendo  il  rapporto  di  lavoro   -   offre
possibilita' ed utilita' compensative (produzione di reddito  futuro;
mantenimento della professionalita',  ristabilimento  della  dignita'
del lavoratore e ritorno in azienda, con alleviamento dei  pregiudizi
non   patrimoniali   ordinariamente   subiti    dal    licenziamento;
risarcimento integrale del  danno  previdenziale)  incomparabili  con
quelle del solo indennizzo monetario. 
    Tale sistemazione giuridica si ritiene essere in contrasto  anche
con l'art. 24, 1° comma della Costituzione, in quanto  al  lavoratore
viene preclusa una tutela che gli  spetterebbe  (in  quanto  prevista
dall'ordinamento giuridico per l'ipotesi di licenziamento per  motivi
soggettivi), sulla base della  insindacabile  qualificazione  formale
data al recesso dal datore di lavoro. 
    Se, come si ritiene, tra il dire «hai rubato» senza dimostrarlo e
il dire «non c'erano occasioni di lavoro» (ma p.e. in questo casi  si
e' visto esservi stati ben 51 contratti nel periodo per  le  mansioni
del ricorrente), non vi e' differenza fenomenologicamente percepibile
(zero e' sempre zero ed ogni numero moltiplicato per zero,  anche  un
numero enorme, da' sempre zero), fondare un diverso  trattamento  tra
le due ipotesi (disciplinare/G.M.O.) sulla  base  di  un  presupposto
inesistente, viola il diritto del lavoratore di agire in giudizio per
fare valere i propri diritti (come detto, il diritto  alla  reintegra
non e' estraneo al sistema del decreto n. 23). 
    In   conclusione,   le   conseguenze   in    tema    di    tutela
dell'accertamento  giudiziale  che  un  fatto  di  licenziamento   e'
inesistente  (nei  suoi  elementi  costitutivi,   strutturali)   sono
indisponibili per  il  legislatore,  nel  senso  che  egli  non  puo'
diversificarle prendendo a giustificazione la motivazione (soggettiva
o oggettiva) adottata dal datore di lavoro  e  risultata  come  detto
inesistente. 
    Per questi motivi si chiede la  parificazione  delle  tutele  tra
licenziamento disciplinare e per  giustificato  motivo  oggettivo  di
tipo economico, con previsione che  in  entrambi  i  casi  spetta  la
reintegra e con le stesse conseguenze  sanzionatorie  di  cui  al  2°
comma dell'art. 3. 
    Sul punto, al fine di appurare quale norma debba espandersi  e  a
discapito di quale, va evidenziato che  ordinariamente  il  vizio  di
discriminatorieta' circa due forme  di  tutela  importa  l'estensione
della maggior tutela (come reazione all'altrui illecito)  anche  alle
ipotesi per le quali cio' e' incostituzionalmente escluso  (cosi'  e'
avvenuto, per restare in tema,  con  le  sentenze  costituzionali  n.
59/2021 e n. 125/2022). 
2° vizio: contrasto con gli articoli 3, 1° e 2° comma, 1,  2,  4,  1°
comma, 35, 1° comma, 41, 1° e 2° comma della Costituzione. 
    Il vizio in questione e' complesso e poliedrico. 
    Esso  deriva  dal  ritenuto  errato  bilanciamento   dei   valori
costituzionali in tema di lavoro e impresa, nonche' dalla  violazione
del principio di uguaglianza, formale e sostanziale. 
    Si tratta di un uso che si ritiene costituzionalmente illegittimo
della discrezionalita' che il legislatore possiede in questa materia. 
    Si ritiene illegittima l'esclusione della reintegra in ipotesi di
vizi  della  gravita'   di   quello   qui   in   potenziale   rilievo
(insussistenza  del  fatto  per  mancato  repechage),  che  ridondano
nell'inesistenza del motivo di licenziamento e  questo  per  le  sole
imprese «oltre soglia» statutaria. 
    Sul punto si e' consapevoli che la Consulta,  anche  recentemente
(sentenza n. 194/2018), ha fatto riferimento  all'inesistenza  di  un
principio di costituzionalizzazione  della  reintegrazione,  che  non
sarebbe un rimedio sempre obbligato in ambito lavoristico. 
    In particolare nella fondamentale sentenza n. 194 del 2018 si  e'
ritenuto che «Il  legislatore  ben  puo',  nell'esercizio  della  sua
discrezionalita',  prevedere  un  meccanismo  di  tutela  anche  solo
risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011),  purche'  un  tale
meccanismo si articoli nel rispetto del principio di  ragionevolezza.
Il diritto alla stabilita' del posto, infatti, «non  ha  una  propria
autonomia  concettuale,   ma   e'   nient'altro   che   una   sintesi
terminologica dei  limiti  del  potere  di  licenziamento  sanzionati
dall'invalidita' dell'atto non conforme» (sentenza n. 268  del  1994,
punto 5. del Considerato in diritto)». 
    Sotto  altro  profilo,  la  stessa  sentenza  costituzionale   ha
ritenuto ossequioso della Suprema Carta  l'apposizione  di  un  tetto
massimo al  risarcimento  del  danno  spettante  al  lavoratore  («In
occasione dell'esame di disposizioni introduttive di  forfetizzazioni
legali limitative del risarcimento del danno, questa  Corte  ha  piu'
volte  affermato  che  la  regola  generale  di  integralita'   della
riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al
danneggiato non ha copertura costituzionale»  (sentenza  n.  148  del
1999), purche' sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze
n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011,  punto
3.3.1.  del  Considerato  in  diritto).  Il   risarcimento,   dunque,
ancorche' non  necessariamente  riparatorio  dell'intero  pregiudizio
subito dal  danneggiato,  deve  essere  necessariamente  equilibrato.
Dalle  stesse  pronunce  emerge  altresi'   che   l'adeguatezza   del
risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un
adeguato contemperamento degli interessi in  conflitto  (sentenze  n.
235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985). Non
contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite  di  ventiquattro
(ora trentasei) mensilita',  fissato  dal  legislatore  quale  soglia
massima del risarcimento»: Corte costituzionale n. 184/2018). 
    I  principi  in  se'  e   per   se',   presi   singolarmente   ed
astrattamente, difficilmente sono contestabili e non lo si fara'. 
    Ma una cosa e' dire che la reintegra non e' sempre  obbligatoria,
un'altra cosa e' dire che in presenza  di  ipotesi  in  cui  il  solo
rimedio risarcitorio  sarebbe  non  satisfattivo  delle  ragioni  del
lavoratore, nel caso in  cui  non  vi  siano  interessi  dell'impresa
meritevoli di essere tutelati  per  quella  via  (fatto  inesistente,
ossia dolo, imprese di maggiori dimensioni),  sia  costituzionalmente
corretto non affiancare ad un rimedio indennitario, anche il  rimedio
restitutorio, in quanto necessario a compensare danni che il  rimedio
monetario - fornito di un tetto massimo - non riesce a soddisfare. 
    Infatti, cio' che e' mancato  nei  precedenti  costituzionali  in
materia -  in  quanto  profilo  che  non  risulta  mai  essere  stato
sottoposto all'attenzione della Corte - e'  un  esame  complessivo  e
sinergico dei rimedi (indennizzo monetario e reintegra) spettanti  al
lavoratore cosi' come delineato dal decreto  n.  23,  in  rapporto  a
tutti i valori costituzionali in gioco ed in particolare dei principi
personalistico e lavoristico, nell'ipotesi  di  imprese  di  maggiori
dimensioni ed in relazione  a  vizi  dell'atto  risolutorio  talmente
gravi da fare dubitare della meritevolezza dell'interesse del  datore
di lavoro ad avere un  trattamento  risarcitorio  ingiustificatamente
favorevole  (cattivo  uso  della  discrezionalita':   si   pregiudica
eccessivamente  uno  dei   diritti   in   bilanciamento   senza   una
apprezzabile ragione a favore del contro-diritto). 
    Tale trattamento, che si ritiene ingiustificato in se' e per se',
risulta inoltre molto piu'  sfavorevole  rispetto  a  quello  proprio
delle altre obbligazioni civili (articoli  1453  e  2058  del  codice
civile), ma anche rispetto a quello riservato dall'art. 18, 7° comma,
legge n. 300/1970 in ipotesi identiche, questioni queste ultime  che,
pur essendo parte di un esame logico complessivo (in quanto tutto  e'
connesso), vedranno spiegarsi  (anche  a  fini  di  razionalizzazione
delle questioni)  due  ulteriori  vizi  (discriminatori)  rispetto  a
quello qui in esame. 
    Tentando di esplicare quanto premesso circa la censura in  esame,
si osserva quanto segue. 
    Innanzi tutto il principio della disponibilita' di «tempi e modi»
di  tutela  dei   lavoratori   dai   licenziamenti   illegittimi   va
contestualizzato. 
    Esso  e'  stato  enunciato  nel  1965  in  un  sistema  normativo
lavoristico primario ancora di libera recedibilita'. 
    Tale principio, riaffermato  piu'  volte  al  fine  di  escludere
l'estensione della reintegra oltre l'ipotesi statutaria, solo  in  un
caso (a quanto consta) e' stato affermato in relazione all'ipotesi di
imprese «sopra soglia». 
    Si tratta della sentenza n. 46/2000, in  tema  di  ammissibilita'
del referendum abrogativo dell'art. 18. 
    L'ammissibilita' veniva al riguardo pronunciata, considerato come
«...  va  osservato  che  la  disposizione  oggetto  di  quesito   e'
indubbiamente  manifestazione  di  quell'indirizzo   di   progressiva
garanzia del diritto al lavoro previsto dagli articoli 4 e  35  della
Costituzione, che ha portato, nel tempo, ad  introdurre  temperamenti
al potere di recesso del datore di lavoro, secondo garanzie  affidate
alla discrezionalita' del legislatore, non solo  quanto  alla  scelta
dei tempi, ma anche dei modi d'attuazione (sentenze n. 194 del  1970,
n.  129  del  1976  e  n.  189  del  1980).  In  riferimento  a  tale
discrezionalita', e' da escludere, tuttavia, che la disposizione  che
si intende sottoporre  a  consultazione,  per  quanto  espressiva  di
esigenze  ricollegabili  ai   menzionati   principi   costituzionali,
concreti l'unico possibile paradigma attuativo dei principi medesimi.
Pertanto, l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe  il
solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del
diritto al lavoro,  che  risulta  ricondotta,  nelle  discipline  che
attualmente  vigono  sia  per  la  tutela  reale   che   per   quella
obbligatoria, al criterio di fondo della  necessaria  giustificazione
del licenziamento. Ne', una volta rimosso l'art. 18  della  legge  n.
300 del 1970, verrebbe meno ogni tutela in materia  di  licenziamenti
illegittimi,    in    quanto    resterebbe,    comunque,     operante
nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili dalla Carta
sociale europea, ratificata e resa esecutiva  con  legge  9  febbraio
1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla  legge  15  luglio
1966, n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108,  la
cui tendenziale generalita' deve essere qui sottolineata». 
    L'osservazione (del 2000) che la tutela obbligatoria di cui  alla
legge n. 604/1966 fosse (nell'ipotesi in cui  fosse  venuta  meno  la
tutela ex art. 18) sufficiente a garantire i diritti  dei  lavoratori
ingiustamente licenziati, si  rivelerebbe  oggi  anacronistica,  alla
luce delle considerazioni di  cui  alla  sentenza  n.  194/2018  (non
prevedendo tale disciplina un adeguato risarcimento del danno ed  una
funzione sufficientemente  dissuasiva,  come  peraltro  espressamente
osservato - in relazione all'analogo meccanismo contenuto nel decreto
n.  23  per  le  «piccole»  imprese  -  dalla   successiva   sentenza
costituzionale n. 183/2022, contenente un monito al legislatore). 
    Questo rende evidente che non e' il  mero  richiamo  alla  regola
della discrezionalita' legislativa in  materia  («tempi  e  modi»)  a
poter giustificare una qualunque disciplina in un  qualunque  momento
storico, ma e' invece  il  grado  di  attuazione  della  Carta,  come
registrato dall'evoluzione giuridica e  sociale,  ad  influire  sulla
discrezionalita' del legislatore del momento in cui deve valutarsi la
costituzionalita' di una norma. 
    Cio' che poteva essere costituzionale secondo una interpretazione
del 1965 (o del 2000) puo' non esserlo nel 2024 se la societa' si  e'
nel frattempo evoluta e se i principi costituzionali sono  stati  nel
frattempo attuati, divenendo sul punto anche problematico  immaginare
un percorso di de-attuazione della Costituzione. 
    Questa  evoluzione,  esemplificativamente   e   tralasciando   le
questioni non attinenti alla tutela dei rapporti obbligatori e  della
persona, vede l'emersione di diritti un tempo impensabili, a  partire
innanzi tutto dalla tutela dei diritti di  credito  (il  caso  Meroni
data 1971), per poi scendere (giocando qui un ruolo  da  protagonista
proprio il diritto del lavoro e dunque la figura del lavoratore) sino
alla tutela dei danni biologico, esistenziale, morale,  divenuti  poi
danno «non patrimoniale» in senso ampio, e cio' anche al di fuori dei
casi espressamente previsti dalla legge  (art.  2058  c.c.),  purche'
venga  innanzi  tutto  in  rilievo  la  lesione  di  beni  di   rango
costituzionale. 
    A  livello  lavorativo  sono  inoltre  sorti   i   diritti   alla
professionalita' (con danni patrimoniali ma anche non patrimoniali) e
il diritto a lavorare in ambienti non ostili  e  a  non  subire  atti
vessatori (mobbing e straining), pena il risarcimento del danno. 
    Si e' configurato anche il  danno  alla  posizione  previdenziale
(esemplificativamente tutelato a livello normativo proprio  nell'art.
3, 2° comma decreto n. 23, ma anche nell'art.  18,  1°  e  4°  comma,
ossia nelle ipotesi in cui spetta la reintegra). 
    Potrebbe proseguirsi oltre ma si  ritiene  che  si  sia  compreso
quanto si voleva evidenziare. 
    L'evidenza empirica dell'evoluzione e dei portati  del  principio
personalista contenuto nella  Costituzione,  al  quale  si  salda  in
questo contesto  specifico  il  principio  lavorista  (posto  che  il
lavoratore e' anche una persona), fa  si'  che  la  tutela  che  deve
essere assegnata dalla legge alla persona-lavoratore  in  ipotesi  di
licenziamento  illegittimo  non  possa  essere  quella   che   poteva
immaginarsi nel 1965 (ma neanche quella del 2000). 
    Di questa evoluzione e' un perfetto  esempio  l'applicazione  dei
principi  risarcitori  piu'  evoluti  in  tema  di  dissuasivita'   e
compensativita' da parte della sentenza  costituzionale  n.  194/2018
(che pero', come detto, non entra nel merito  di  questioni  relative
alla tutela  complessivamente  spettante  al  lavoratore),  mentre  a
livello generale si e' ormai preso atto della  natura  polifunzionale
del danno, in quanto, «Nel vigente ordinamento, alla  responsabilita'
civile non e' assegnato  solo  il  compito  di  restaurare  la  sfera
patrimoniale del soggetto che ha  subito  la  lesione,  poiche'  sono
interne al sistema la funzione di deterrenza e  quella  sanzionatoria
del responsabile civile»  (Cass.  SS.  UU.  n.  16601/2017),  con  la
precisazione che - in ambito lavoristico ed in particolare in tema di
tutela contro i licenziamenti illegittimi - la polifunzionalita'  del
danno non e' una opzione legislativa, ma una imposizione a livello di
valori costituzionali e sovranazionali. 
    E'  alla  persona-lavoratore  che  deve  quindi  farsi  immediato
riferimento  al  fine  di  comprendere  il  danno   che   lo   stesso
ordinariamente subisce da un licenziamento illegittimo, che e'  anche
da qualificarsi quale illecito (Corte costituzionale n. 194/2018). 
    Il lavoratore riceve dal licenziamento un danno ingiusto, che  e'
sia di tipo patrimoniale (la mancate  retribuzioni  future),  sia  di
tipo previdenziale (mancato pagamento dei  contributi,  con  risvolti
sia economici che esistenziali futuri), che di tipo non patrimoniale,
categoria quest'ultima che ricomprende  quelli  che  descrittivamente
sono chiamati danno morale (il  turbamento  nell'animo,  la  dignita'
lesa, la  vergogna,  il  dolore,  la  disistima  di  se',  la  paura,
l'incertezza verso il  futuro,  talvolta  la  disperazione)  e  danno
esistenziale (o  relazionale,  in  rapporto  con  soggetti  terzi  e,
dunque,  innanzi  tutto  il  rapporto  con  i  colleghi,  poi  con  i
familiari, gli amici, etc). 
    A tali danni non  patrimoniali  si  possono  poi  aggiungerne  di
ulteriori,  quali  quelli  (morali)  all'onore  e  alla   reputazione
(licenziamento  ingiurioso)  o  quelli   alla   salute   (soprattutto
psichica: danno biologico) che - attenendo a beni  giuridici  diversi
ed ulteriori dai primi e  suscettibili  di  lesione  autonoma  -  per
giurisprudenza consolidata, sono liquidabili separatamente dai primi,
laddove si verifichino. 
    Si rientra pienamente in ambito della lesione di  una  situazione
giuridica costituzionalmente protetta (partendo dalla «Repubblica ...
fondata sul lavoro» in giu') e,  quindi,  tutti  tali  danni  possono
sicuramente sussistere  in  capo  alla  persona-lavoratore  leso  dal
licenziamento  illegittimo  e  illecito  (cfr.  Cass.  n.  25191/2023
secondo la quale - in ambito di violazione dell'art. 2087 del  codice
civile - « ... il danno morale, all'interno della categoria  unitaria
del danno non patrimoniale, da' rilievo ai pregiudizi del danno  alla
persona che attengono alla dignita' ed al dolore soggettivo ovvero  a
quei pregiudizi interiori rilevanti  sotto  il  profilo  del  dolore,
della  vergogna,  della  disistima  di  se',   della   paura,   della
disperazione, che sono differenti ed autonomamente  apprezzabili  sul
piano risarcitorio rispetto agli effetti dell'illecito incidenti  sul
piano dinamico-relazionale (che si dipanano cioe'  nell'ambito  delle
relazioni di vita esterne; cfr. sez. 3, ordinanza  n.  23469  del  28
settembre 2018)»). 
    L'analisi in questa sede parte dal presupposto  che  l'indennizzo
meramente monetario di cui al 1° comma dell'art. 3, del decreto n. 23
sia riferito e limitato ai  danni  patrimoniali  (nonostante  vi  sia
incertezza sulla «onnicomprensivita'» dell'indennita' risarcitoria in
questione e, dunque, sull'attitudine della stessa  a  «coprire»  ogni
tipo di danno, anche non patrimoniale; come p.e. in  ambito  di  art.
18, 5° comma e' stato ritenuto, sulla base del  dato  letterale,  che
«L'indennita' risarcitoria, non  associata  alla  reintegra,  di  cui
all'art. 18, comma 5, st. lav. riformulato, e', in relazione alla sua
funzione di riparazione per equivalente, onnicomprensiva,  assorbendo
qualunque  voce  di  danno,  patrimoniale  e  non  patrimoniale,  ivi
compreso quello previdenziale,  fatta  eccezione  solo  per  i  danni
derivanti dal licenziamento ingiurioso o dal fatto costituente  reato
(Cass. n. 1507/2021). 
    Quindi  va  verificata  la  adeguatezza  dell'indennita'  di  cui
all'art. 3, 1°  comma  del  decreto  n.  23  considerando  la  stessa
relativa al solo pregiudizio patrimoniale (ma se  cosi'  per  ipotesi
non fosse, ovviamente, tutto il  ragionamento  ne  sarebbe  oltremodo
rafforzato). 
    Si  dara'  tuttavia  conto  del  fatto  che  lo  strumento  della
reintegrazione va a compensare anche danni afferenti alla  sfera  non
patrimoniale del lavoratore, in cio' attuandosi sul punto il disposto
dell'art. 2 della Costituzione e risultandone quindi un  risarcimento
anche per tale aspetto gia' di per se' maggiormente adeguato  per  il
lavoratore. 
    Si osserva che  legislatore  del  lavoro  ha  essenzialmente  due
rimedi a tutela del danno  patrimoniale  prodotto  dal  licenziamento
illecito: la ricostituzione del rapporto di lavoro e il  risarcimento
monetario. 
    In  presenza  di  un  inadempimento  datoriale  che  causasse  un
licenziamento in assenza  dei  presupposti,  se  mancasse  una  norma
specifica in ambito lavoristico  che  si  occupasse  di  limitare  le
azioni esercitabili e  il  risarcimento  del  danno  risarcibile,  la
conseguenza  ordinaria  sarebbe  il  possibile  (laddove   richiesto)
ripristino del rapporto (azione  di  esatto  adempimento),  oltre  al
risarcimento del danno subito, laddove il danno patrimoniale  sarebbe
evidentemente rappresentato dalle retribuzioni omesse tra la data del
licenziamento e quello della ripresa del  rapporto  di  lavoro  (come
risulta anche dalla giurisprudenza di legittimita' in tema di recesso
ante tempus da un rapporto di lavoro a termine: Cass. n. 11692/2005),
oltre evidentemente ai danni non patrimoniali  di  cui  si  e'  detto
prima (alcuni provati secondo l'id quod plerumque accidit,  altri  da
dimostrare), oltre agli eventuali danni biologico e all'onore. 
    Si tratta proprio  delle  ipotesi  (residue)  che  vengono  dalla
dottrina e dalla giurisprudenza ricondotte alla  c.d.  «reintegra  di
diritto comune» (nei limitati spazi in cui - tempo per  tempo  -  non
vigono   le   limitazioni   previste   dalle   tutele    strettamente
lavoristiche). 
    Tuttavia,    fin    dall'introduzione    della    regola    della
giustificazione del recesso datoriale, il legislatore ha limitato  le
azioni a tutela delle situazioni giuridiche  del  lavoratore.  Si  e'
innanzi  tutto  parlato  di  stabilita'  obbligatoria  (un   ossimoro
evidentemente) nel momento in cui era il datore a poter scegliere  se
reintegrare o se pagare una modesta indennita' (legge n. 604/1966). 
    Si  e'  poi  sviluppata  una  tutela  piu'  penetrante,  chiamata
stabilita' reale, nel momento in cui il legislatore ha  previsto  che
il lavoratore tornasse al suo posto in azienda e ricevesse  a  titolo
di danno una somma pari alle mensilita' omesse nel periodo intermedio
(art. 18, legge n. 300/1970 versione precedente al 2012). 
    Tale tutela  ripristinatoria-risarcitoria  (piena)  operava  solo
nelle  imprese  di  maggiori  dimensioni,  secondo  una   valutazione
numerica dei lavoratori ad esse addetti. 
    Da  tale  regime  sappiamo  essersi  discostato  inizialmente  il
legislatore del 2012 che ha previsto la graduazione delle  tutele  in
base alla gravita' dei vizi e  ha  limitato  la  reintegra,  sia  nei
licenziamenti  disciplinari  che  in  quelli  per  motivo   oggettivo
(considerando     la     versione     attuale,     depurata     delle
incostituzionalita') ai vizi  maggiori,  graduando  a  sua  volta  la
tutela reale in «forte», per i casi di  ritenuto  maggiore  contrasto
con l'ordinamento (nullita':  spetta  il  risarcimento  nella  misura
delle retribuzioni perdute dal licenziamento al ritorno in azienda  e
la reintegra opera anche nelle imprese di  minori  dimensioni)  e  in
«debole», nel caso di vizio comunque talmente grave da  portare  alla
reintegra, ma  di  minore  contrasto  con  l'ordinamento  (si  tratta
essenzialmente dell'inesistenza del fatto,  soggettivo  o  oggettivo,
posto alla base del licenziamento, oltre  che  nei  soggettivi  della
stabilita'  reale   accordata   direttamente   dalla   contrattazione
collettiva) e che dunque giustifica una  limitazione  forfettaria  in
massimo dodici mensilita' (anche perche', sul punto saggiamente, quel
legislatore introdusse contestualmente un rito che - potendo afferire
solo alle questioni legate al licenziamento  -  se  bene  maneggiato,
aveva in effetti una durata  fulminante  e  cosi'  facendo  il  danno
monetario subito dal lavoratore non superava i dodici  mesi;  per  il
residuo, se la tutela specifica gli  spettava,  riprendevano  con  la
reintegra anche le retribuzioni). 
    Tale  ultimo  modello  risarcitorio  complessivo   (reintegra   +
indennizzo  con  tetto)  ricalca  (forse  non  a  caso)  quello   del
risarcimento  del  danno  da  «abuso  del  precariato»,   fattispecie
esaminata e  confermata  a  livello  di  costituzionalita'  da  Corte
costituzionale n. 303/2011, che si e'  occupata  delle  questioni  di
costituzionalita' all'art. 35, commi 5, 6 e  7,  legge  n.  183/2010,
ritenendo infondata la censura di irragionevolezza del limite imposto
al risarcimento del danno nell'importo previsto dalla  norme,  atteso
tra l'altro che la fattispecie in scrutinio assegnava il fondamentale
risarcimento in forma specifica rappresentato dalla  conversione  del
contratto a termine e, dunque,  garantiva  una  sorta  di  stabilita'
reale («In termini generali, la norma  scrutinata  non  si  limita  a
forfetizzare  il  risarcimento  del  danno   dovuto   al   lavoratore
illegittimamente assunto a  termine,  ma,  innanzitutto,  assicura  a
quest'ultimo  l'instaurazione  di  un  rapporto  di  lavoro  a  tempo
indeterminato. Difatti, l'indennita' prevista dall'art. 32, commi 5 e
6, della legge n.  183  del  2010  va  chiaramente  ad  integrare  la
garanzia della conversione del contratto di lavoro a  termine  in  un
contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la  stabilizzazione  del
rapporto e' la protezione piu' intensa che possa essere  riconosciuta
ad un lavoratore precario»). 
    Nei casi di vizi sostanziali meno gravi  (fatto  disciplinarmente
rilevante ma di entita' non  tale  da  determinare  il  recesso;  nel
G.M.O. violazione obblighi buona fede quali p.e. nella fase di scelta
dei lavoratori - aventi posizioni fungibili -  da  licenziare:  Corte
costituzionale n. 125/2022) il legislatore  ha  introdotto  un  unico
rimedio  monetario  calmierato,  ossia  con  un  tesso   massimo   in
ventiquattro mensilita'. 
    Si tratta di una ipotesi, quest'ultima, che  qui  non  interessa,
posto che il ragionamento che si  sta  sviluppando  concerne  i  vizi
maggiori. 
    Va osservato che il sistema sanzionatorio adottato dalla legge n.
92/2012 (al netto delle necessarie declaratorie di costituzionalita')
permette, se non il risarcimento del danno integrale, un risarcimento
che  come  visto  e'  stato  ritenuto  costituzionalmente   adeguato,
sussistendo  la  reintegrazione  che  permette   al   lavoratore   di
continuare a fare fronte (mediante le retribuzioni future) ai  propri
impegni economici, individuali e familiari e, dunque, a proseguire la
propria vita, analogamente a quanto (dal punto  di  vista  economico)
faceva prima del licenziamento. 
    Le retribuzioni intermedie coprono il danno economico  prodottosi
medio-tempore. 
    La reintegra, con conseguente ristabilimento della dignita' della
persona-lavoratore e del suo statuto  dentro  e  fuori  dall'azienda,
appare inoltre idonea a rimediare a parte dei danni non  patrimoniali
subiti  dal  lavoratore  (sull'idoneita'  -  in  generale   -   della
stabilizzazione del rapporto a sanare in generale i danni precedenti,
in quel caso da abuso dei contratti a termine nel settore scolastico,
v. Corte costituzionale n. 187/2016 secondo la quale «Per i  docenti,
si e' scelta la  strada  della  loro  stabilizzazione  con  il  piano
straordinario destinato alla «copertura di tutti i posti comuni e  di
sostegno dell'organico di diritto» ... La scelta e' piu' lungimirante
rispetto a quella del risarcimento, che avrebbe lasciato  il  sistema
scolastico nell'attuale incertezza organizzativa e  il  personale  in
uno stato di provvisorieta' perenne ... »). 
    La prosecuzione del rapporto esclude il (protrarsi di  un)  danno
alla  professionalita'  (con  risvolti  patrimoniali   e   non)   del
lavoratore. 
    Il danno previdenziale viene integralmente sanato, con versamento
dei contributi  relativi  al  periodo  di  illegittima  estromissione
dall'azienda. 
    In definitiva, il concorso sinergico dei due rimedi -  unitamente
ad  un  modello  processuale  estremamente  rapido  -   permette   di
«contenere» i danni (sia patrimoniali  che  non  patrimoniali)  e  di
risarcire la perdita complessiva del lavoratore in modo adeguato. 
    Con la riforma del decreto n.  23/2015  il  sistema  e'  cambiato
completamente per i licenziamenti economici. 
    La reintegra e' completamente preclusa. 
    L'indennita' - inizialmente fissa e in  misura  macroscopicamente
insufficiente - ora e' graduabile (Corte costituzionale n.  194/2018)
e puo' arrivare sino a 36 mensilita'. Occorre domandarsi, quindi,  se
il  sistema  che  ne  deriva  (tetto  massimo  in   interazione   con
l'esclusione della reintegra) e' idoneo a compensare adeguatamente il
lavoratore e a dissuadere il datore di lavoro. 
    A parere di chi scrive la risposta e' negativa. 
    L'indennizzo prefissato per legge, si sa, ha un lato positivo  ed
uno negativo per il creditore: il positivo e' che non occorre dare la
prova di avere subito concretamente alcun danno (ma qui, come  detto,
in caso di inoccupazione, il danno e' facilmente  dimostrabile  nelle
retribuzioni perdute, detratto l'aliunde perceptum); il  negativo  e'
che se si ha subito un danno maggiore, la quota  oltre  il  tetto  di
legge non viene ristorata e rimane allocata sul danneggiato. 
    Circa il primo aspetto vi e' la possibilita' (posto che nell'art.
3, 1° comma non vi e' detrazione dell'aliunde perceptum), per chi  ha
gia' trovato un lavoro, di lucrare una parte dell'indennita', che  in
questo caso si affianca alla retribuzione  ricavata  per  il  tramite
della nuova. 
    Ma se invece tale nuovo  lavoro  non  venisse  trovato  in  tempi
rapidi ed anzi non venisse trovato affatto? 
    Il danno economico puo' essere ben piu' elevato delle  mensilita'
ricevute a titolo di indennizzo, posto che l'eta' del lavoratore puo'
essere  significativa  ma  non  ancora   tale   da   concedergli   il
pensionamento (che anzi si allontana nella normativa positiva  sempre
di piu'), creando una  condizione  di  prematuro  esodo  forzoso  dal
mercato del lavoro. 
    Si tratta questa, peraltro, di una ipotesi  assai  frequente  nei
casi (patologici) di  sostituzione  di  lavoratore  piu'  anziano  (e
talvolta logorato fisicamente) e costoso  con  uno  piu'  giovane  ed
economico. 
    Inoltre, non in ogni area geografica e'  possibile  reperire  con
facilita' (o con difficolta') un nuovo lavoro. 
    Cio', in correlazione  magari  con  una  congiuntura  sfavorevole
dell'economia e del mercato del lavoro, puo' portare facilmente -  in
certe aree geografiche e come detto per lavoratori di una certa  eta'
-  a  condizioni  di  prolungata  (se  non  addirittura   definitiva)
disoccupazione lavorativa. 
    Si tratta di casi  -  purtroppo  non  certamente  «di  scuola»  o
infrequenti: cfr. Cass., ord. n. 26693/2023: «11.2. Non vi e'  dubbio
che, nel caso in esame,  le  conseguenze  derivanti  dalla  rimozione
automatica sono inevitabilmente  incidenti  sulla  vita  privata  del
ricorrente, rimasto senza lavoro quando  non  aveva  ancora  compiuto
sessanta anni (e, dunque, un'eta' che, da un lato,  non  consente  di
accedere al trattamento pensionistico e, dall'altro, rende del  tutto
illusoria la possibilita' di intraprendere altra professione, diversa
da quella  oggetto  della  rimozione»)  -  nei  quali  le  mensilita'
ricevute  come  indennizzo  non  sono   sicuramente   sufficienti   a
compensare il danno economico subito dal lavoratore (ed astrattamente
risarcibile in assenza di limitazioni nel massimo dell'indennizzo). 
    Vi e' poi il danno previdenziale (ingravescente, alla luce  delle
piu' recenti modalita' di calcolo della pensione). 
    Vi e' poi il danno (sia patrimoniale che non  patrimoniale)  alla
professionalita' del lavoratore. 
    Orbene,  queste  valutazioni   dimostrano   l'inattitudine   (non
certamente teorica) dell'indennizzo con tetto  massimo  (ossia  senza
possibilita' di agire per il danno ulteriore), in  una  molteplicita'
del tutto ordinaria di casi, ad essere sufficiente - se disgiunto dal
rimedio dalla reintegra - a compensare  adeguatamente  il  lavoratore
per tutti i danni sofferti ad opera del fatto  illecito  contrattuale
perpetrato ai suoi danni dal datore di lavoro. 
    Una  situazione  singolare,  considerato  non  solo  il   rilievo
primario che il diritto al lavoro riveste nella  nostra  Costituzione
(articoli  1,  4,  35),  ma  anche  il  dovere  della  Repubblica  di
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei  cittadini,  impediscono  il
pieno sviluppo della persona umana e  l'effettiva  partecipazione  di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica  e  sociale
del Paese» (art. 3, 2° comma, Costituzione). 
    Al  contrario,  in  questi  casi,   la   reintegra   andrebbe   a
rappresentare una ulteriore forma di compensazione sia di  pregiudizi
patrimoniali  (venendo  assicurata  la   capacita'   reddituale   del
lavoratore anche pro  futuro)  sia  di  pregiudizi  non  patrimoniali
(morali ed esistenziali: ristabilimento della dignita' del lavoratore
dentro e fuori l'azienda, ritorno nella formazione  sociale-azienda),
sia misti (riduzione o eliminazione  del  danno  patrimoniale  e  non
patrimoniale  alla  professionalita';  eliminazione  del  danno  alla
posizione previdenziale) e, operando sinergicamente con  l'indennizzo
limitato  nel  quantum,   assicurerebbe   non   solo   le   finalita'
risarcitorie generali, ma anche quelle specifiche (e rafforzate)  del
lavoratore (ex art. 3, 2° comma Costituzione). 
    Ora vanno analizzati gli  interessi  contrapposti  a  quelli  del
lavoratore che in questo caso sono rappresentati  dalla  liberta'  di
iniziativa economica (art. 41, Costituzione). 
    Essa  innanzi  tutto  «Non  puo'  svolgersi  in   contrasto   con
l'utilita'  sociale  o  in  modo  da  recare   danno   alla   salute,
all'ambiente, alla sicurezza, alla  liberta',  alla  dignita'  umana»
(art. 41, 2° comma, Costituzione). 
    In secondo luogo, a  fronte  della  chiara  situazione  giuridica
vantata  dal  lavoratore,  che  invoca  un  risarcimento  dei   danni
globalmente   conseguenti   al   licenziamento,   occorre   che    il
contemperamento degli interessi sia effettuato al fine  di  garantire
il regolare funzionamento delle imprese  dovendosi,  inoltre,  tenere
conto   delle   variabili   rappresentate   dalle   condizioni    del
licenziamento e delle dimensioni della prima. 
    Circa il primo aspetto, e' evidente dal punto di vista  generale,
come non possa che darsi rilievo ad interessi  meritevoli  di  tutela
del datore di  lavoro,  mentre  in  presenza  di  liberta'  (rectius:
arbitrii) non connesse con reali necessita' di gestione dell'impresa,
venga a mancare un aspetto di meritevolezza nei desiderata  datoriali
e, quindi, la bilancia debba pendere dalla parte del lavoratore. 
    A  questo  punto  si  osserva  come  risulti   sicuramente   poco
comprensibile  il  motivo  per  il  quale,  tra  gli  interessi   del
lavoratore e quelli del datore di  lavoro,  dovrebbero  prevalere  in
misura cosi' enfatizzata questi ultimi, nel caso in cui  si  discute,
ossia  in  presenza  dei  piu'  gravi  vizi   sostanziali   possibili
(inesistenza del fatto). 
    Favorire sul piano risarcitorio un datore di lavoro che  pone  in
essere un licenziamento del tutto privo di motivo (oggettivo) risulta
squilibrato in favore  di  questo,  senza  che  vi  siano  motivi  di
meritevolezza di tale approccio: l'impresa  si  puo'  fare  benissimo
anche senza licenziare personale in patente mancanza  di  un  motivo,
tante imprese si comportano correttamente da questo punto di vista  e
sono anche leaders nei rispettivi settori di appartenenza. 
    Tale meritevolezza gia' claudicante si allontana poi ancora  piu'
decisamente, sempre  analizzando  gli  interessi  datoriali,  laddove
vengano in rilievo imprese sopra soglia  statutaria  (richiamata  dal
decreto n. 23, all'art. 9 proprio quale presupposto per la  reintegra
nei casi di  licenziamento  per  motivi  soggettivi).  Si  tratta  di
aziende di dimensioni tali che, per esperienza ormai di  oltre  mezzo
secolo di applicazione dell'art. 18, sono in grado di  sopportare  le
conseguenze (economiche, organizzative, umane) di una reintegrazione. 
    Ne consegue che, nemmeno da tale punto di vista, l'esclusione del
rimedio  in  forma  specifica  appare  realmente  giustificato  dalla
necessita' di fare impresa. 
    Gia'  questo,  a   parere   di   chi   scrive,   giustifica   una
considerazione   negativa   circa   l'operato    discrezionale    del
legislatore. 
    Ma non e' tutto. 
    C'e' poi un ulteriore importante argomento (ad abundantiam)  che,
si ritiene, dovrebbe fare apparire ancora piu' scorretto il risultato
del bilanciamento dei valori costituzionali in materia. 
    Il licenziamento per motivo  economico,  alla  luce  del  diritto
vivente, e' notevolmente mutato dal 2016, allorquando esso  e'  stato
sdoganato dalle necessita' sopravvenute e non temporanee di crisi  di
impresa,   che   in   precedenza   erano   necessarie,   secondo   la
giurisprudenza prevalente, per un  valido  licenziamento  per  G.M.O.
(Cass. n. 25201/2016: «Ai fini della legittimita'  del  licenziamento
individuale intimato  per  giustificato  motivo  oggettivo  ai  sensi
dell'art. 3 della  legge  n.  604  del  1966,  l'andamento  economico
negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che  il
datore  di  lavoro  debba  necessariamente  provare  ed  il   giudice
accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti  all'attivita'
produttiva ed all'organizzazione del lavoro,  tra  le  quali  non  e'
possibile  escludere  quelle  dirette  ad  una  migliore   efficienza
gestionale ovvero ad un incremento della  redditivita'  dell'impresa,
determinino  un  effettivo   mutamento   dell'assetto   organizzativo
attraverso la soppressione di una individuata  posizione  lavorativa;
ove per il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di
fare fronte  a  situazioni  economiche  sfavorevoli  ovvero  a  spese
notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che  la
ragione  indicata   non   sussiste,   il   recesso   puo'   risultare
ingiustificato per una valutazione  in  concreto  sulla  mancanza  di
veridicita'   e   sulla   pretestuosita'   della   causale    addotta
dall'imprenditore»). 
    Ora il recesso economico e' essenzialmente fondato  su  un  fatto
autodichiarato,  ossia  la   necessita'   dell'espulsione   -   anche
semplicemente  per  avere  un  maggiore  profitto  di  impresa   -del
lavoratore interessato all'esito di una modifica organizzativa. 
    Non siamo evidentemente al livello del recesso ad nutum,  perche'
una  causale  va  comunque  indicata,  ma  essa   puo'   essere   ora
giustificata  in  liberta',  essendo  sufficiente   che   la   stessa
effettivamente esista e sia connessa con la  soppressione  del  posto
proprio di quel lavoratore. 
    In  sostanza,  a  parte  le  ipotesi  di  mancanza  di  nesso  di
causalita' tra modifica e soppressione, deve semplicemente sussistere
una reale soppressione del posto  di  lavoro  e  non  gia'  una  mera
sostituzione (cosi'  gia'  la  stessa  Cass.  n.  25201/2016)  di  un
lavoratore con un altro neoassunto (o stabilizzato) o per  le  stesse
mansioni svolte o per le diverse mansioni (repechage)  che  il  primo
potrebbe svolgere (e, secondo la  piu'  moderna  giurisprudenza,  per
l'assolvimento   dell'obbligo   di   ripescaggio   semplicemente   ed
«usualmente si prova che nella  fase  concomitante  e  successiva  al
recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute  nuove  assunzioni
oppure  sono  state   effettuate   per   mansioni   richiedenti   una
professionalita' non posseduta dal prestatore (v.,  adex.,  Cass.  n.
22417 del 2009; ma pure: Cass. n. 9369 del 1996; Cass. n.  13134  del
2000; Cass. n. 3040 del 2010)»: Cass. n. 6497/2021). 
    Questo evidentemente incide in maniera ancora piu'  profonda  sul
bilanciamento degli interessi tra le parti contrapposte del  rapporto
di lavoro, rendendo molto piu' facile il licenziamento e  molto  piu'
residue le ipotesi di illegittimita' dello stesso, limitate a  questo
punto - oltre  ai  casi  appena  esaminati  di  gravissime  patologie
strutturali - al tema della scelta del lavoratore tra piu'  posizioni
fungibili (ipotesi che la Consulta, con la sentenza  n.  125/2022  ha
escluso dal concetto di «fatto» di cui al 7° comma dell'art. 18,  per
essere invece ricondotta alle «altre ipotesi» di  illegittimita'  del
licenziamento,   con    conseguente    preclusione    della    tutela
reintegratoria, secondo uno schema che e'  perfettamente  replicabile
anche in ambito di art. 3 del decreto n. 23, al fine di  limitare  la
reintegra alle ipotesi di vizi maggiori). 
    La posizione del lavoratore diviene quindi molto piu' precaria in
seno all'impresa,  con  la  conseguenza  che  per  lo  stesso  vi  e'
indubbiamente un rischio molto maggiore di licenziamento  per  motivi
economici rispetto a prima. 
    Dal punto  di  vista  datoriale,  viene  meno  la  necessita'  di
convincere il giudice dell'esistenza di una situazione di  crisi  non
temporanea di impresa, venendo ormai patologicamente in rilievo  solo
casi-limite in  cui  manca  un  elemento  costitutivo  del  fatto  di
licenziamento e, rispetto ad  essi,  sussiste  pertanto  un  elemento
soggettivo  datoriale  volontario  di  particolare  intensita',   che
difficilmente puo' essere collegato  (e  tutelato)  all'art.  41,  1°
comma Costituzione, se non in una versione  confliggente  con  il  2°
comma della disposizione stessa. 
    Ne consegue, da tale punto di vista, dato un indennizzo  limitato
nel massimo (come detto, convincente secondo Corte costituzionale  n.
194/2018), che l'esclusione del rimedio in forma specifica non appare
giustificato dalla reale necessita' di fare  impresa,  perlomeno  nel
senso di cui al 2° comma dell'art. 41 della Costituzione. 
    Circa l'aspetto  del  tetto  massimo  all'indennizzo,  esso  come
esposto non rientra nell'oggetto delle censure. 
    Va qui  invece  osservato  come  l'argomento  della  legittimita'
costituzionale di tale  scelta,  all'esito  di  un  bilanciamento  di
interessi, nulla impinga sulla questione  qui  avanzata  in  tema  di
necessita' che tale strumento sia abbinato  alla  reintegrazione  nel
rapporto di lavoro. 
    E' vero anzi il contrario. 
    Sempre ragionando in  tema  di  uso  della  discrezionalita'  del
legislatore, che deve essere valutata complessivamente (tenuto  conto
di tutti gli strumenti disponibili), si osserva che  nell'ambito  del
diritto civile generale, le ipotesi di limitazione legale del quantum
risarcitorio per equivalente sono di regola connesse a casistiche  in
cui il risarcimento del danno in forma specifica e' impossibile (p.e.
nel trasporto, perdita o avaria  di  cose:  Corte  costituzionale  n.
199/2005  e  n.   420/1991;   lesioni   micropermanenti:   v.   Corte
costituzionale n. 235/2014). 
    Questa  evidenza  permette  di  gettare  un'ulteriore  ombra  sul
perche', essendo possibile un risarcimento in  forma  specifica,  non
solo lo stesso non venga disposto, ma venga al contempo  impedito  il
pieno risarcimento monetario. 
    Trattandosi di contemperare i vari diritti in gioco, alla luce di
tutto quanto qui visto in tema di dimensioni dell'impresa e  di  vizi
maggiori del licenziamento, l'equilibrio  raggiunto  dal  legislatore
del 2015 appare, anche sotto tale punto di vista, poco rispettoso  di
tutti  i  diritti  rinvenibili  nella  Costituzione  in  favore   del
lavoratore. 
    Inoltre e come gia' esposto in relazione all'esame del 1°  vizio,
qui anche la funzione di deterrenza della sanzione  (complessivamente
intesa)  nei  confronti  del  datore  di  lavoro   risulta   alquanto
deficitaria. 
    La possibilita' di porre per sempre fine ad un rapporto di lavoro
supportando  un  costo  predeterminato  nel  massimo,   mediante   un
licenziamento  fondato  su  un  fatto  inesistente,  ma  che  perche'
qualificato in un certo modo dal  datore  di  lavoro,  diviene  sotto
questo punto  di  vista  idoneo  a  provocare  comunque  l'estinzione
definitiva del rapporto, tutto questo realizza un meccanismo  che  si
ritiene collocarsi  agli  antipodi  di  quella  che  puo'  essere  la
necessaria funzione  di  deterrenza  di  una  sanzione  per  un  atto
illecito di natura negoziale. 
    Funzione di deterrenza al  contrario  rispettata  pienamente  sul
punto  solo  valorizzando  (in  ossequio  qui   anche   all'art.   24
Costituzione) i risultati dell'istruttoria processuale ed  assegnando
al lavoratore la tutela spettante in base ad essi - per cui al  fatto
inesistente comunque qualificato va assegnata una tutela maggiormente
compensativa - senza tenere in alcun conto la motivazione formale (ma
empiricamente inesistente) del licenziamento. 
    Vi e' un penultimo passaggio  da  esaminare  e  si  tratta  delle
giustificazioni  utilizzate  per  l'arretramento  delle  tutele   del
lavoratore da parte del legislatore del 2015. 
    Tale profilo e' stato ritenuto elemento astrattamente sufficiente
dalla sentenza n. 194/2018  al  fine  di  escludere  un  problema  di
disparita' di trattamento  in  relazione  al  criterio  adottato  dal
legislatore del 2015 per disciplinare temporalmente gli effetti della
propria riforma (applicazione pro futuro, non in relazione alla  data
di intimazione del  licenziamento,  ma  in  relazione  alla  data  di
assunzione  del  lavoratore,  creandosi  cosi'   due   tipologie   di
lavoratori, i cui rapporti di lavoro coesistono nel  sistema,  alcuni
piu' garantiti di altri in base alla data di assunzione). 
    In  quella  sede  secondo  la  Corte  «La  modulazione  temporale
dell'applicazione del decreto legislativo n. 23 del  2015,  censurata
dal rimettente, non contrasta con il "canone  di  ragionevolezza"  e,
quindi, con il principio di eguaglianza, se a  essa  si  guarda  alla
luce della ragione giustificatrice - del tutto trascurata dal giudice
rimettente - costituita dallo "scopo", dichiaratamente perseguito dal
legislatore, "di rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del
lavoro da parte di coloro che sono in cerca di  occupazione"  (alinea
dell'art. 1, comma  7,  della  legge  n.  183  del  2014).  Lo  scopo
dell'intervento, cosi' esplicitato, mostra come la  predeterminazione
e l'alleggerimento delle conseguenze  del  licenziamento  illegittimo
dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette
a favorire l'instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro
fosse  privo,  e,  in  particolare,  a  favorire  l'instaurazione  di
rapporti di  lavoro  subordinato  a  tempo  indeterminato  ...  Tanto
chiarito  circa  la  non  irragionevolezza  del   contestato   regime
temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in  valutazioni  sui
risultati che la politica occupazionale  perseguita  dal  legislatore
puo' aver conseguito». 
    Al contrario, la censura nel merito formulata dalla difesa  della
lavoratrice  (che  intervenuta  in  quel  giudizio   aveva   «dedotto
l'irragionevolezza delle disposizioni  censurate  sotto  il  profilo,
ulteriore rispetto a quelli indicati  nell'ordinanza  di  rimessione,
che esse sarebbero inidonee  a  conseguire  lo  scopo  dichiarato  di
«rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte
di coloro che sono  in  cerca  di  occupazione»),  veniva  dichiarata
inammissibile,  in  quanto  «questione  non  sollevata  dal   giudice
rimettente». 
    Le giustificazioni  a  sostegno  della  scelta  di  politica  del
diritto di ridurre la tutela ai lavoratori tramite l'esclusione della
reintegra  in  ogni  caso  di  G.M.O.  economico  appare  inidonea  a
supportare una tale regolamentazione. 
    Trattandosi di una disciplina che incide su diritti  di  notevole
rilevanza costituzionale, quali i diritti riconosciuti  al  lavoro  e
alla  persona  del  lavoratore,  non   e'   evidentemente   la   mera
«intuizione»  del   legislatore   contingente   a   potere   appagare
l'interprete della Costituzione, essendo invece necessario  che  tali
finalita' sussistano non solo nell'immaginazione del legislatore,  ma
che possiedano realmente la capacita' di importare una sostanziale  e
rilevante modifica in  senso  positivo  della  situazione  lavorativa
italiana (e tale dato appare piu' che contestato da buona parte degli
interpreti). 
    In secondo luogo, il fine nemmeno puo' giustificare  ogni  mezzo,
aprendosi altrimenti le porte ad ogni possibile forma di deregulation
in ogni ambito possibile, soprattutto in quello sociale (restando  al
tema del lavoro, si sa che anche l'abbassamento  delle  retribuzioni,
anche in deroga all'art. 36 Costituzione, puo' favorire  lo  sviluppo
dell'impresa e di conseguenza anche l'assunzione di nuovi lavoratori,
ma la cosa e' ritenuta impraticabile per  violazione  di  un  diritto
ormai emerso dalla Carta e considerato irretrattabile). 
    Non e' nemmeno estranea  alla  giurisprudenza  costituzionale  in
materia la necessita' che sia comunque assicurato un equilibrio  «tra
i fini enunciati ed i mezzi  in  concreto  prescelti»,  potendosi  al
contrario ravvisare uno squilibrio tra gli stessi  a  fronte  di  una
«irragionevolezza intrinseca» della normativa  (Corte  costituzionale
n. 125/2022). 
    Irragionevolezza   intrinseca   che   si   ritiene    di    avere
sufficientemente argomentato nelle pagine che precedono. 
    Per concludere, va ora verificata la potenzialita' sostitutiva di
una eventuale decisione di incostituzionalita' in ambito di scorretto
uso della discrezionalita' legislativa. 
    In tali ipotesi e' di regola necessario, considerata la  liberta'
di cui gode il legislatore in materia, nel caso in cui si invochi una
precisa scelta sostitutiva ad opera della Corte  costituzionale,  che
un   chiaro   riferimento   a   quest'ultima   sia   gia'    presente
nell'ordinamento. 
    Nel caso di specie, puo' farsi riferimento: 
        al meccanismo risarcitorio misto di cui all'art. 3, comma  2,
decreto n. 23/2015 per i licenziamenti disciplinari per  il  caso  di
fatto insussistente, ossia reintegra e indennizzo con  il  limite  di
dodici mensilita' (oltre alle conseguenze previdenziali); 
        al meccanismo risarcitorio misto di cui all'art. 18, commi  7
- 4, legge n. 300/1970 per il  caso  di  fatto  insussistente,  ossia
reintegra e indennizzo con il limite di dodici mensilita' (oltre alle
conseguenze previdenziali). 
    Si tratta di meccanismi dal funzionamento analogo. 
    In  conclusione,  si  chiede  che  venga  esteso  all'ipotesi  di
licenziamento per motivo economico, relativamente al caso in cui  sia
accertata in giudizio l'insussistenza del fatto  posto  a  fondamento
dello stesso, il meccanismo di tutela di cui  all'art.  3,  comma  2,
decreto n. 23/2015 (o l'analogo meccanismo di cui all'art. 18,  commi
7 - 4, legge n. 300/1970). 
3° vizio: contrasto con  gli  articoli  76  e  117,  1°  comma  della
Costituzione, in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea. 
    Ai sensi dell'art. 24 della Carta sociale europea: 
        «Per assicurare l'effettivo  esercizio  del  diritto  ad  una
tutela in caso di licenziamento, le Parti s'impegnano a  riconoscere:
a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido
motivo legato alle loro attitudini o  alla  loro  condotta  o  basato
sulle necessita' di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento  o
del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido
motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». 
    Tutto quanto appena argomentato in relazione al  2°  motivo  deve
ritenersi relativo anche a tale vizio  e,  quindi,  per  esigenze  di
spazio, va qui richiamato. 
    Si tratta, d'altra parte,  di  maneggiare  gli  stessi  concetti,
ossia i danni subiti  dal  lavoratore  e  le  modalita'  risarcitorie
adottate dal legislatore, in ordine  agli  elementi  della  idoneita'
compensativa e dissuasiva: un risarcimento solo per  equivalente  con
un  tetto  massimo,  svincolato  dalla  reintegra  (collegata  ad  un
processo celere), non e' idoneo  ne'  a  dissuadere  il  datore,  ne'
sicuramente a compensare il lavoratore per tutto  quanto  puo'  avere
perso con il licenziamento illegittimo, per come sopra ricostruito. 
    A dare ulteriore valore persuasivo rispetto  a  quanto  qui  gia'
evidenziato si considerino,  inoltre,  le  valutazioni  del  Comitato
sociale europeo, le cui decisioni - secondo la stessa Consulta - sono
autorevoli ma non vincolanti - secondo il quale un «sistema  adeguato
di  compensazione  in  presenza  di:  "-   rimborso   delle   perdite
patrimoniali subite tra la data  del  licenziamento  e  la  decisione
dell'organo  di  ricorso;  -possibilita'  di  reintegrazione  e/o   -
compenso ad un livello sufficientemente alto da dissuadere il  datore
di lavoro e risarcire  il  danno  subito  dal  lavoratore»  (Comitato
sociale europeo n. 106/2014 Finnish society of Social Rights). 
    Non a caso con decisione dell'11 settembre 2019 del Comitato resa
pubblica l'11 febbraio 2000 su ricorso della CGIL (n.  158/2017),  e'
stato ritenuto violato l'art. 24 della Carta sociale europea ad opera
proprio del decreto legislativo n. 23/2015. 
    Anche a tali pronunciamenti, da  considerarsi  qui  integralmente
richiamati, deve pertanto  farsi  riferimento  in  relazione  a  tale
vizio. 
4° vizio: contrasto con  art.  3,  1°  comma  della  Costituzione  in
rapporto all'art. 18, 7° comma della Costituzione. 
    Tertium comparationis: 
        art. 18, comma 7, legge n. 300/1970: 
          «Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto
comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di
giustificazione del licenziamento  intimato,  anche  ai  sensi  degli
articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68,
per motivo oggettivo consistente nell'inidoneita' fisica  o  psichica
del lavoratore, ovvero che il  licenziamento  e'  stato  intimato  in
violazione dell'articolo 2110,  secondo  comma,  del  codice  civile.
Applica altresi' la predetta disciplina nell'ipotesi in  cui  accerti
la insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del  licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che
non ricorrono  gli  estremi  del  predetto  giustificato  motivo,  il
giudice applica la disciplina di cui al quinto comma». 
    Sotto  questo  profilo,  emerge  una  rilevante   differenza   di
trattamento (che non si giustifica) rispetto alla tutela offerta,  in
relazione  agli  stessi  identici  vizi,  ex  art.  18  Statuto   dei
lavoratori. 
    Il trattamento di cui all'art. 3,  comma  1,  decreto  n.  23  si
ritiene  essere  costituzionalmente  illegittimo  per  illogicita'  e
scorretto uso della discrezionalita' di cui gode il legislatore. 
    Questo lo si apprezza anche in  riferimento  ad  una  ipotesi  di
corretto esercizio di tale discrezionalita' quale appare  quella  sul
punto svolta nell'art. 18, 7° comma dello Statuto  (anche  in  quanto
riproduttivo del meccanismo in tema di danno da precariato). 
    In assenza di un motivo ragionevole  (comparazione  interessi  in
gioco:   rinvio   al   2°   vizio),    risulta    ingiustificatamente
discriminatorio applicare ai lavoratori assunti dal 6 marzo  2015  il
trattamento deteriore dell'art. 3, comma 1 decreto n. 23 in luogo  di
quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale  data  ai  sensi
dell'art. 18, comma 7, Statuto. 
    Si  chiede  conseguentemente  applicarsi   la   tutela   prevista
dall'art. 18, comma 7, Statuto che  sul  punto  richiama  quella  del
comma 4, che e' del tutto analoga  a  quella  prevista  dal  comma  2
dell'art. 3 del decreto n. 23. 
5° vizio: contrasto con art. 3, 1° e  2°  comma  della  Costituzione:
ingiustificato   trattamento   deteriore   del   creditore-lavoratore
licenziato rispetto alla situazione giuridica del creditore civile in
generale 
    Tertium comparationis: 
        Art. 1453 del codice civile. 
    «Nei contratti con  prestazioni  corrispettive,  quando  uno  dei
contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro puo'  sua  scelta
chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni
caso, il risarcimento del danno». 
    Art. 2058 del codice civile.: 
        «Il danneggiato puo'  chiedere  la  reintegrazione  in  forma
specifica(1), qualora sia in tutto o in parte possibile. 
    Tuttavia il giudice puo' disporre  che  il  risarcimento  avvenga
solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta
eccessivamente onerosa per il debitore». 
    Da questo punto di vista non si comprenderebbe gia' (anche se non
vi  fossero  gli  articoli  1,  2,  4,  35  e  41,  2°  comma   della
Costituzione) come le tutele in  tema  di  licenziamento  illegittimo
potrebbero essere cosi'  diverse  (e  meno  satisfattive)  da  quelle
spettanti nel diritto civile generale. 
    Se poi consideriamo  l'impressionante  e  non  casuale  serie  di
riferimenti,  richiami  e  tutele   che   la   Costituzione   assegna
espressamente al lavoro e al lavoratore,  allora  emerge  con  ancora
piu' evidenza che il bilanciamento attuato dall'art. 3 del decreto n.
23  a  discapito  del  lavoratore  si  pone  in  contrasto   con   la
Costituzione repubblicana. 
    Ma non e' finita. 
    Perche' il legislatore non ha solo il dovere  di  attenersi  alle
regole di uguaglianza formale (art. 3, comma  1)  ma  ha  addirittura
l'obbligo  di  procedere  in  senso  attuativo  di  una   uguaglianza
sostanziale rimuovendo (e non introducendo) «gli ostacoli  di  ordine
economico  e  sociale,  che,  limitando  di  fatto  la   liberta'   e
l'eguaglianza dei cittadini,  impediscono  il  pieno  sviluppo  della
persona umana e l'effettiva  partecipazione  di  tutti  i  lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 
    Principio che il legislatore aveva attuato proprio (tra  l'altro)
con l'art. 18, Statuto e prevedendo il rimedio della reintegra. 
    In  materia  di  lavoro  vi  e'  come  detto  la  necessita'   di
controbilanciare  il  diritto  del   lavoratore   con   la   liberta'
dell'impresa. 
    Questa  giustificazione  potrebbe  sicuramente  portare  ad   una
qualche diversita' di trattamento rispetto al diritto civile generale
(p.e. esclusione della reintegra in  imprese  di  minori  dimensioni,
p.e. limitazione al quantum risarcitorio). 
    Ma non con le modalita' di cui all'art. 3 del decreto n. 23,  che
penalizzano eccessivamente una parte, il  lavoratore,  senza  che  di
contro sussista una meritevolezza nell'avvantaggiamento dell'altra. 
    Come gia' detto - ma si tratta indubbiamente di un leit  motiv  -
vengono in  rilievo  i  datori  di  lavoro  di  maggiori  dimensioni,
storicamente bene in grado di reggere il peso della reintegra causata
dal proprio illecito. 
    Vengono inoltre in rilievo i casi di  vizi  di  fattispecie  piu'
eclatanti,  quali  la  mancanza  degli   elementi   costitutivi   che
legittimano il recesso per motivo economico. 
    In relazione ad essi, quindi, lo stato soggettivo del  datore  di
lavoro  inadempiente  e'  volontario  e,  quindi,  difficilmente   e'
possibile ravvisare una qualche meritevolezzaex  art.  41,  2°  comma
della Costituzione  nello  slancio  di  tutela  che  gli  assegna  il
legislatore del 2015. 
    L'esclusione della tutela reintegratoria  in  uno  con  il  tetto
massimo all'indennizzo, importa un duplice  beneficio  al  datore  di
lavoro, che va esente dalla prima e si vede un limite nella seconda. 
    Si tratta di una limitazione di responsabilita'. 
    Essa puo' essere introdotta dal legislatore (ma non  dalle  parti
ex art. 1229 del codice civile), anche in caso di dolo o colpa grave,
al fine di contemperare i diritti del creditore con altri  diritti  e
necessita' del sistema o del mercato. 
    Ma tale bilanciamento deve essere ragionevole. 
    Di regola, laddove previsto, si  tratta  di  ipotesi  in  cui  il
ripristino e' impossibile, perche' il  bene  o  l'utilita'  e'  ormai
venuta meno  (come  visto:  p.e.  perdita  o  avaria  nel  trasporto;
micropermamenti  di  cui  all'art.  139  codice  delle  assicurazioni
private; ancora,  in  ipotesi  di  occupazione  appropriativa,  Corte
costituzionale n. 148/1999 dava rilievo alla «natura e  al  carattere
eccezionale  e  temporaneo  della  disposizione  denunciata»  -   che
prevedeva una liquidazione al ribasso del danno subito - al  fine  di
ritenerne la costituzionalita'). 
    L'esatto adempimento non e' mai conculcato (salvo  ex  art.  2058
c.c. non «risult[i] eccessivamente  oneros[o]»  e  qui,  come  detto,
storicamente non lo e'). 
    In questo caso invece,  non  solo  l'esatto  adempimento  sarebbe
possibile, tramite la reintegra, ma  si  introduce  al  contempo  una
limitazione al risarcimento per equivalente, nelle ipotesi  peggiori,
in cui vi e' addirittura una piena volonta' di inadempimento. 
    Inoltre e da ultimo va pure tenuto conto  della  liberalizzazione
delle motivazioni a fondamento della modifica  organizzativa  che  ha
depurato il G.M.O. da ogni necessita' di crisi economica, ragione per
la quale esso puo' essere irrogato semplicemente  per  nella  ricerca
del maggiore profitto, cio' che ormai rappresenta diritto vivente. 
    Cio' conduce  indubbiamente  ad  una  notevole  inclinazione  del
bilanciamento dei valori in favore del datore di lavoro e a discapito
del lavoratore, posto che non si tiene in alcuna considerazione tutto
quanto il lavoratore ha programmato e progettato, a livello personale
e familiare (acquisto di una casa, nascita di figli, etc.), basandosi
sull'esistenza del rapporto di lavoro e sul fatto che esso non  possa
essere risolto dalla controparte senza una oggettiva giustificazione. 
    Quel che  resta  al  lavoratore,  sul  piano  sostanziale  e  dei
presupposti, nelle ipotesi piu' eclatanti e gravi,  e'  solamente  la
possibilita' di dire che il dimagrito motivo  oggettivo  residuo  non
esiste, perche' in realta' - essenzialmente -il posto  di  lavoro  e'
stato occupato da  un  altro  o  perche'  qualcun  altro  (assunto  o
stabilizzato dopo il licenziamento) e' stato occupato in mansioni che
egli avrebbe potuto svolgere. 
    In tale ipotesi, che possono a tutti gli effetti considerarsi  di
inadempimento doloso al contratto di lavoro da parte del datore, alla
luce di tutti i principi costituzionali in materia (persona,  lavoro,
ma spesso anche famiglia, pur non evocandosi direttamente il relativo
parametro), nemmeno in presenza di un datore di lavoro  sopra-soglia,
al lavoratore spetta piu' di un indennizzo  delimitato  nel  massimo,
senza che possa rilevare un eventuale maggior danno (patrimoniale)  e
precludendo ad uno strumento che permette di alleviare  adeguatamente
buona  parte  dei  danni  verificatisi  all'esito  del  licenziamento
(patrimoniale,   morale,   esistenziale,    alla    professionalita',
previdenziale). 
    Ebbene, in tali casi si ritiene illegittimo non assicurare  anche
la scelta della  reintegra  in  capo  al  lavoratore,  strumento  che
permetterebbe di soddisfare in misura  ragionevole  e  piu'  adeguata
tutti i ordinariamente connessi all'illecito licenziamento. 
    Se   ne   desume,   che   la    scelta    di    penalizzare    il
creditore-lavoratore - che in base alla costituzione dovrebbe  semmai
essere favorito rispetto ad altre figure di creditori non accreditate
nella Costituzione - rispetto ad un qualunque altro creditore  civile
risulta ingiustificatamente discriminatoria e quindi lesiva  sia  del
comma 1 dell'art.  3,  sia  del  comma  2  dell'art.  3  (e  qui  per
inattuazione dello stesso, posta in essere mediante  il  processo  di
de-attuazione - rispetto alla normativa pregressa  -  realizzato  dal
decreto n. 23). 
    Si chiede applicarsi la  tutela  di  cui  all'art.  3,  comma  2,
decreto legislativo n. 23/2015 (anche quale «rima  obbligata»)  anche
all'ipotesi di licenziamento per motivo economico, in presenza  degli
stessi presupposti e con le stesse tutele. 
8. - Effetti 
    L'eventuale introduzione del rimedio ripristinatorio nel caso  di
G.M.O. economico illegittimo per insussistenza del fatto  condurrebbe
al seguente contesto di tutele in ambito di decreto n. 23: 
        a) agendo ex art. 3, comma 1: spetterebbero sino a  trentasei
mensilita'; 
        b) agendo ex art. 3, comma 2: spetterebbero  la  reintegra  +
dodici mensilita'; 
        c) agendo ex art.  3,  comma  2  con  opzione:  spetterebbero
ventisette mensilita'. 
    Tale quadro non puo' certamente dirsi irrazionale, tutt'altro. 
    Solo nell'ipotesi in cui il lavoratore volesse optare (per propri
motivi, quali p.e. l'avere gia' trovata una nuova occupazione) per il
mero indennizzo, egli potrebbe farlo e  in  questo  caso  il  quantum
risarcitorio potrebbe essere il maggiore  ottenibile  (astrattamente:
in realta' dipende dalla liquidazione giudiziale). 
    Nulla questio nell'ipotesi sub  b),  gia'  collaudata  ampiamente
tanto  nell'art.  18  quanto  nel  3,  2°   comma   relativamente   a
licenziamenti per ragioni soggettive:  la  tutela  reintegratoria  e'
suscettibile  di   generare   indubbiamente   molte   piu'   utilita'
risarcitorie per il lavoratore rispetto al mero indennizzo monetario. 
    L'ipotesi sub  c)  potrebbe  apparire  in  contrasto  logico  con
l'ipotesi sub a), ma cio' non e'. 
    Intanto  il  limite   di   trentasei   mensilita'   e'   previsto
astrattamente  come  massimo  ed  e'   mediato   dalla   liquidazione
giudiziale. 
    Inoltre e soprattutto, l'ipotesi sub c) consente al lavoratore di
ottenere la reintegra e riservarsi l'opzione  per  la  monetizzazione
dell'estinzione del rapporto (quindici  mensilita')  all'esito  della
causa, potendo attendere gli sviluppi del processo  e  della  propria
vita, anche  lavorativa;  si  tratta  di  una  applicazione  di  quel
meccanismo giuridico che risponde  al  nome  di  opzione  e  che  nei
rapporti interprivatistici - concedendo un vantaggio economico  -  e'
considerato un negozio a titolo oneroso, cio' che per l'appunto  vale
anche nel caso di specie (domandando la tutela reintegratoria  e  non
quella  indennitaria  del  comma  1  dell'art.   3,   il   lavoratore
astrattamente «rinuncerebbe» ad un delta di nove mensilita'  rispetto
a quanto potrebbe ottenere, nel massimo, agendo da subito per il solo
indennizzo ex primo comma). 
    Inoltre concedendo la scelta se agire o meno per la reintegra, si
va come detto a dare copertura anche a tutti i danni discendenti  dal
licenziamento e gia' ampiamente esaminati in precedenza. 
9. - Conclusioni. 
    Alla  luce  di  tutto  quanto  esposto,  si  chiede  alla   Corte
costituzionale  la  declaratoria  di  illegittimita'   costituzionale
dell'art. 3 del decreto legislativo n. 23 del 2015 nella parte in cui
non prevede l'applicabilita'  del  comma  2  anche  in  relazione  al
licenziamento  determinato   da   «ragioni   inerenti   all'attivita'
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento
di essa» (art. 3, legge n. 604/1966). 

 
                                P.Q.M. 
 
    Il Tribunale di Ravenna, ritenuta la questione  rilevante  e  non
manifestamente infondata dispone, ai sensi e per gli effetti  di  cui
all'art. 23 della  legge  n.  87/1953,  la  trasmissione  degli  atti
(comprese le comunicazioni e le notificazioni di  cui  alla  presente
ordinanza)  del  presente  procedimento  alla  Corte   costituzionale
affinche' valuti se sia costituzionalmente legittimo, con riferimento
agli articoli 1, 2, 3, 1° e 2° comma, 4, 1° comma, 24, 1° comma,  35,
1° comma, 41, 1° e 2° comma, Costituzione, l'art. 3,  commi  1  e  2,
decreto legislativo n.  23/2015,  nella  parte  in  cui  non  prevede
l'applicazione del  comma  2  anche  alle  ipotesi  di  licenziamento
determinato   da   «ragioni   inerenti   all'attivita'    produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    Dispone, altresi', che la presente ordinanza sia  comunicata  con
immediatezza ai Presidenti delle due camere del Parlamento; 
    Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla  decisione
della Corte costituzionale. 
        Ravenna, 27 settembre 2023 
 
                        Il Giudice: Bernardi