Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso notificato il 29 gennaio 1998 e depositato il
6 febbraio 1998 (r. ric. n. 12 del 1998), la Regione Piemonte ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 9, 77, terzo comma, 117 e 118 della Costituzione,
dell'art. 49, comma 18, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure
per la stabilizzazione della finanza pubblica).
La disposizione impugnata dispone che siano "considerati validi
gli strumenti urbanistici già intesi approvati a seguito
dell'applicazione, da parte degli enti che li hanno adottati, delle
procedure del silenzio-assenso previste dai decreti legge
27 settembre 1994, n. 551, 25 novembre 1994, n. 649, 26 gennaio 1995,
n. 24, 27 marzo 1995, n. 88, 26 maggio 1995, n. 193, 26 luglio 1995,
n. 310, 20 settembre 1995, n. 400, 25 novembre 1995, n. 498,
24 gennaio 1996, n. 30, 25 marzo 1996, n. 154, 25 maggio 1996,
n. 285, 22 luglio 1996, n. 388, 24 settembre 1996, n. 495, i cui
effetti sono stati fatti salvi ai sensi dell'art. 2, comma 61, della
legge 23 dicembre 1996, n. 662"; ed aggiunge che, a tal fine, "il
termine di centottanta giorni previsto per la formazione del
silenzio-assenso, non maturato nel periodo di vigenza del singolo
decreto legge, si intende raggiunto nel periodo di vigenza dei
successivi decreti legge".
La Regione dapprima ricorda di avere già impugnato davanti alla
Corte costituzionale due dei decreti legge i cui effetti sono stati
fatti salvi dalla legge n. 662 del 1996; e che la Corte si è
pronunciata sui due ricorsi con la sentenza n. 429 del 1997. Con tale
pronuncia la Corte avrebbe escluso, richiamando la precedente
sentenza n. 244 del 1997, che la sanatoria comportasse violazione
della sfera regionale, in quanto la legge ex art. 77, terzo comma,
della Costituzione potrebbe avere ad oggetto solo le situazioni
verificatesi durante il periodo di vigenza dei decreti legge non
convertiti, mentre la formazione del silenzio-assenso nel termine di
centottanta giorni avrebbe potuto verificarsi soltanto dopo i
sessanta giorni di vigenza di ognuno dei decreti legge.
Secondo la ricorrente, la norma oggi impugnata sarebbe
incostituzionale per violazione appunto dell'art. 77, terzo comma,
della Costituzione, in quanto corollario delle affermazioni delle
sentenze costituzionali nn. 244 e 429 del 1997 sarebbe
l'incostituzionalità di una norma che faccia salvi effetti che non
si erano ancora prodotti al momento della decadenza per mancata
conversione dei decreti legge.
Sarebbero violati anche l'art. 9 della Costituzione, le
competenze in materia di tutela dei beni ambientali e protezione
della natura attribuite alle Regioni dagli artt. 82 e 83 del d.P.R.
24 luglio 1977, n. 616 e, in generale, le competenze regionali
legislative e amministrative in materia di urbanistica di cui agli
artt. 117 e 118 della Costituzione. Sarebbe infatti incostituzionale,
secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, il ricorso al
silenzio-assenso per le attività amministrative ad alta
discrezionalità, quali le attività di pianificazione territoriale,
che finiscono per incidere sull'essenza stessa della competenza
regionale: e, in un ambito di competenza normativa della Regione, non
potrebbe che essere una legge regionale ad attribuire al silenzio
della Pubblica Amministrazione, in ipotesi specifiche, un significato
concludente, come l'approvazione o il rifiuto. La Corte
costituzionale, ricorda la Regione, ha già dichiarato
incostituzionale la previsione dell'art. 12, comma 3, del decreto
legge 12 gennaio 1988, n. 2, in riferimento alla disciplina posta
dall'art. 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in quanto essa,
spostando la decorrenza del termine stabilito per il parere delle
autorità preposte alla tutela del paesaggio, avrebbe inciso sulle
competenze normative ed amministrative delle Regioni a statuto
ordinario, fino a svuotarle in pratica di ogni contenuto (sentenza
n. 302 del 1988).
2. - Non si è costituito il Presidente del Consiglio dei
Ministri, mentre ha depositato atto di intervento fuori termine il
comune di Lonato, svolgendo diverse considerazioni, depositando
alcuni documenti e conclusivamente chiedendo che la Corte rigetti il
ricorso della Regione Piemonte, considerando "la gravità della
situazione in cui versano i comuni italiani che, in piena buona fede,
hanno "inteso approvati i propri strumenti urbanistici generali dando
ad essi attuazione".
3. - Con ricorso notificato il 28 gennaio 1998 e depositato il
7 febbraio 1998 (r. ric. n. 13 del 1998), la Regione Lombardia ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3, 5, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione,
degli artt. 32, commi 2, 4, 5; 34, comma 1; 37; 39, comma 19; 41,
comma 1; 43; 44, comma 4; 47, comma 1; 48, commi 1, 4 e 5 della legge
n. 449 del 1997.
La Regione ricorrente sostiene che tutte le disposizioni
impugnate comprimono l'autonomia legislativa, amministrativa e
finanziaria regionale.
Con riguardo all'art. 32, commi 2, 4 e 5, la Regione denuncia la
violazione degli artt. 2, 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione. In particolare, quanto al comma 2, che disciplina le
conseguenze dell'eventuale inadempimento in relazione agli obiettivi
di risparmio sulla spesa per la acquisizione di beni e servizi di cui
al comma 1 dello stesso articolo, essa lamenta che tale comma
equipari, sul piano delle fattispecie da sanzionare da parte dello
Stato, l'inadempienza delle Regioni e quella delle "relative aziende
unità sanitarie locali e aziende ospedaliere"; conseguentemente
consenta una sanzione a carico della Regione e del suo sistema
sanitario complessivo in relazione ad un eventuale inadempimento
localizzato anche in una sola azienda, fattispecie che dovrebbe
competere alla Regione sanzionare, sul piano istituzionale,
finanziario e disciplinare, e non allo Stato; faccia
irragionevolmente gravare, senza necessità di tutela di alcun
interesse costituzionalmente meritevole, conseguenze sanzionatorie su
soggetti pubblici ed utenti che non avrebbero in alcun modo concorso
al fatto ritenuto lesivo; consenta l'intervento statale sul sistema
sanitario regionale, in funzione sanzionatoria e, nel caso di
omissione di singole aziende, sostitutiva dell'intervento regionale,
senza che sia contemplata alcuna procedimentalizzazione (non
sarebbero previsti preavvisi, diffide, termini per provvedere e non
sussisterebbe alcuno scrupolo di rispetto delle esigenze del metodo
della leale collaborazione); demandi allo Stato, e per esso al
Ministro della sanità, una discrezionalità illimitata, salva la
soglia massima del 3%, e salvo il parere della Conferenza unificata
Stato-Regioni-Città, nel dosare la sanzione finanziaria, in assenza
di parametri che consentano di proporzionare la sanzione
all'inadempimento.
Il comma 4 dello stesso art. 32, poi, applica alle Regioni che
entro il 31 marzo 1998 non abbiano dato attuazione agli strumenti di
pianificazione riguardanti la tutela della salute mentale di cui
all'art. 1, comma 20, della legge n. 662 del 1996, e che non abbiano
provveduto alla completa istituzione delle residenze territoriali e
alla chiusura degli ospedali psichiatrici, le sanzioni previste dal
comma 23 dello stesso articolo. Secondo la ricorrente, il termine
sarebbe di irragionevole brevità, a motivo degli investimenti
immobiliari e degli interventi edilizi, di grande complessità e di
significativa lunghezza, da porre in atto; e l'inosservanza eventuale
del termine sarebbe sanzionata in forma irragionevolmente grave e
priva di proporzionalità rispetto all'entità dell'eventuale
inadempimento, oltre che rimessa nell'an e nel quomodo ad una
eccessiva discrezionalità dell'autorità statale.
Il comma 5 dello stesso articolo, infine, disciplina il
riutilizzo delle disponibilità finanziarie derivanti dalle riduzioni
di cui al comma 2, devolvendole al finanziamento di azioni di
sostegno volte alla rimozione degli ostacoli che hanno dato luogo
all'inadempienza o a progetti speciali a favore di fasce sociali
deboli; e destina le risorse derivanti dalle riduzioni di cui al
comma 23 dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996 e al comma 4 dello
stesso art. 32 alla realizzazione di un progetto-obiettivo "Tutela
della salute mentale", nonché, a titolo incentivante, a favore di
aziende unità sanitarie locali e aziende ospedaliere che abbiano
attuato i programmi di chiusura dei residui ospedali psichiatrici.
Tale disciplina, secondo la ricorrente, prevederebbe la possibilità
di assegnazione di risorse non direttamente alle Regioni, ma alle
singole aziende, da parte del Ministro, con aggiramento non solo del
sistema di finanziamento del Servizio sanitario regionale come
disciplinato dalla legge n. 833 del 1978 e successive modificazioni,
e dunque della autonomia finanziaria regionale, ma anche della
capacità di governo della sanità da parte della Regione;
rimetterebbe al Ministro della sanità la determinazione della quota
di fondi da assegnare alle Regioni con il solo vincolo del parere
della Conferenza Stato-Regioni, salvo l'avvalimento dell'Osservatorio
nazionale sulla salute mentale e dell'Istituto superiore della
sanità, che sarebbero peraltro meri organi statali centrali;
concederebbe al Ministro una irragionevole discrezionalità nella
riassegnazione dei fondi, non significativamente correlata a
parametri legislativamente disciplinati e caratterizzati dalla
necessaria correlazione con finalità di interesse pubblico, a
rilevanza costituzionale, nella cui individuazione e nel cui
perseguimento le Regioni abbiano parte; contemplerebbe la
attivazione, pur limitatamente alla psichiatria, di un potere
sostituivo ibrido, comportante la nomina di commissari ad acta
definiti "regionali", ma nominati dal Consiglio dei Ministri su
proposta del Ministro della sanità, d'intesa con la Regione
interessata.
Con riguardo all'art. 34, comma 1, che prescrive l'inquadramento
progressivo in ruolo come dirigenti di primo livello degli
specialistici ambulatoriali in regime convenzionale, medici e non, in
aree di attività specialistica individuate dalla Regione, la
ricorrente denuncia la violazione degli artt. 3, 32, 81, 97, 117, 118
e 119 della Costituzione. L'inquadramento ingenererebbe, rispetto al
rapporto convenzionale, un significativo aggravio di spesa a carico
del SSN, a cui non farebbe riscontro alcuna messa a disposizione
delle risorse necessarie, con conseguente pregiudizio sia per
l'autonomia finanziaria regionale, sia per la capacità regionale di
governo del sistema sanitario, e ciò nello stesso momento in cui si
impone un'ulteriore riduzione della spesa complessiva, nelle forme
del già impugnato art. 32, ed in violazione del principio del
parallelismo tra responsabilità di disciplina e di controllo e
responsabilità finanziaria.
Con riguardo all'art. 37 della legge, che consente la fornitura
gratuita a carico del SSN della protesi mammaria alle assistite che
abbiano subito un intervento di mastectomia, senza mettere a
disposizione delle Regioni nessuna risorsa sanitaria aggiuntiva, la
Regione denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 32, 81, 97, 117, 118
e 119 della Costituzione. Secondo la ricorrente, l'articolo impugnato
pregiudicherebbe l'autonomia finanziaria e il governo della spesa,
oltre che il diritto alla salute, a causa della scarsità delle
risorse disponibili.
Con riguardo all'art. 39, comma 19, che estende alle Regioni ed
alle Province autonome la disciplina relativa alla riduzione delle
spese di personale, la Regione denuncia la violazione degli artt. 3,
32, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione. La disposizione, secondo
la ricorrente, protraendo un'artificiosa emergenza, equiparerebbe
indebitamente le Regioni ad enti quali le camere di commercio, gli
enti del SSN e gli enti locali, aventi diversa posizione
costituzionale; e reitererebbe, prolungherebbe nel tempo e
generalizzerebbe misure di contenimento dell'utilizzo di personale
che la Corte costituzionale ha già statuito dover essere temporanee
e preordinate ad instaurare un regime transitorio in attesa della
riforma sanitaria o di un riassetto generale del settore.
Con riguardo all'art. 41, comma 1, della legge, che detta norme
generali relative alla revisione degli organi collegiali, la
ricorrente denuncia la violazione degli artt. 117, 118 e 119 della
Costituzione. La norma, in difetto di una specifica esenzione delle
Regioni, sarebbe applicabile anche a queste ultime, e le
equiparerebbe così a categorie di enti non munite di alcuna garanzia
costituzionale di autonomia; inoltre essa, attribuendo la competenza,
in ordine alla revisione, all'"organo di direzione politica
responsabile", invaderebbe il campo riservato alla Regione in ordine
alla distribuzione dei compiti all'interno della propria
organizzazione. Non parrebbe, del resto, trattarsi di misure urgenti
e provvisorie volte al contenimento del disavanzo pubblico, quanto di
misure organizzative caratterizzate da una scelta di principio non
provvisoria, ma a regime.
Con riguardo all'art. 43, che ha ad oggetto "contratti di
sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, convenzioni con
soggetti pubblici o privati, contributi dell'utenza per i servizi
pubblici non essenziali e misure di incentivazione della
produttività", la Regione denuncia la violazione degli artt. 117,
118 e 119 della Costituzione. La ricorrente censura la disciplina
generale (contenuta nel comma 3), ritenuta applicabile anche alle
Regioni in difetto di espressa esenzione, delle convenzioni con
soggetti pubblici e privati per la fornitura a titolo oneroso di
consulenze o servizi aggiuntivi, col vincolo di destinazione del 50%
dei ricavi delle convenzioni stipulate ai fini di cui al comma 1 ad
economie di bilancio. Tali misure, ritenute dalla ricorrente a regime
e non transitorie, sarebbero incompatibili con l'autonomia
finanziaria regionale, oltre che con quella legislativa ed
amministrativa, autonomia che esigerebbe che le Regioni possano
conformare liberamente gli strumenti operativi in questione, così
come l'utilizzo dei loro ricavi.
Quanto all'art. 44, comma 4, della legge, che estende
l'applicabilità dell'art. 14 della legge n. 59 del 1997 alle
amministrazioni di cui all'art. 1 del decreto legislativo n. 29 del
1993, e quindi anche alle Regioni, la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione. La
disposizione consentirebbe allo Stato di imporre soppressioni e
fusioni di enti, trasformazioni in soggetti di diritto privato,
nonché varie altre prescrizioni organizzative anche alle Regioni,
omettendo qualunque procedura di raccordo e comprimendo l'autonomia
organizzativa regionale; e sarebbe incostituzionale anche nel caso in
cui il suo significato stesse nell'estensione dei principi di cui
allo stesso art. 14 alle Regioni, in qualità di principi
fondamentali della legislazione statale.
Quanto infine all'art. 47, comma 1, e all'art. 48, commi 1, 4 e
5, che dettano disposizioni concernenti rispettivamente le
limitazioni ai pagamenti a carico del bilancio dello Stato a favore
di enti caratterizzati da giacenze di disponibilità liquide, il
concorso del sistema delle autonomie regionali agli obiettivi della
finanza pubblica mediante il blocco del fabbisogno finanziario, e la
sospensione dei pagamenti "ad eccezione di quelli che possono
arrecare danni patrimoniali all'ente o a soggetti che intrattengono
con l'ente rapporti giuridici e negoziali", la Regione ricorrente
denuncia la violazione degli artt. 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione.
La disciplina in questione sarebbe intrinsecamente irragionevole,
almeno quanto al comma 5 dell'art. 48, poiché non si comprenderebbe
quale titolo di pagamento dovrebbe sussistere a favore di terzi in
assenza di rapporti giuridici e negoziali, e quanto all'art. 47,
comma 1, poiché non si comprenderebbe quale sia la assegnazione di
competenza delle Regioni sulla cui entità il Tesoro con proprio
decreto determina l'importo minimo delle giacenze, compreso tra il 10
e il 20% delle assegnazioni stesse; demanderebbe, almeno quanto al
comma 1 dell'art. 47, al Ministro del tesoro la determinazione delle
categorie di enti e del limite di giacenza che attiva la ripresa dei
pagamenti statali, in violazione della riserva di legge di cui
all'art. 119 della Costituzione; equiparerebbe Regioni ed altri enti,
locali e non; non configurerebbe misure temporanee o di emergenza, ma
strutturerebbe vincoli permanenti; limiterebbe eccessivamente
l'autonomia finanziaria regionale, e con essa quella legislativa ed
amministrativa, introducendo fattori di incertezza e di
imprevedibilità gestionale.
5. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo di dichiarare non fondate tutte le questioni
sollevate dalla Regione Lombardia, e osservando quanto segue in
relazione a ciascuna delle disposizioni impugnate.
Con riguardo all'art. 32, comma 2, la difesa erariale sostiene
che il legislatore ha soltanto e doverosamente assunto alcuni
parametri di comportamenti che evidenzierebbero la mancata
corrispondenza delle Regioni alle indicazioni per il contenimento
delle spese specificate al comma 1: mancata corrispondenza da cui,
del tutto ragionevolmente, si farebbe conseguire una riduzione della
quota del Fondo sanitario regionale, per evitare la quale le Regioni
sarebbero state incentivate all'osservanza tempestiva di (necessarie)
regole di rigore. Né l'equiparazione, a tal fine, delle inadempienze
delle Regioni e delle relative aziende sanitarie locali e aziende
ospedaliere potrebbe essere intesa come una menomazione del potere
sopraordinato delle Regioni sulle aziende, avendosi qui riguardo alle
conseguenze oggettive che le inadempienze comportano rispetto al fine
unitario perseguito. E sarebbe proprio nel più incisivo controllo
sulle aziende da parte delle Regioni che queste potrebbero
corrispondere a quel dovere di leale collaborazione che incombe anche
su di esse. Non si dovrebbe minimizzare la portata del previsto
parere della Conferenza Stato-Regioni-Città, di cui la legge n. 59
del 1997 ha introdotto una innovativa disciplina, già attuata con il
decreto legislativo n. 281 del 1997, pure richiamato dalla norma in
esame, e che sarebbe improntata appunto al principio di leale
collaborazione.
Le medesime osservazioni varrebbero, secondo la difesa erariale,
anche per le successive censure. Con riguardo all'art. 32, comma 4,
non sarebbe incoerente con l'esigenza della razionalizzazione e della
ottimizzazione della spesa l'indicazione di un termine per
l'attuazione degli strumenti di pianificazione: il termine
corrisponderebbe ad una funzione acceleratoria che con il medesimo
intento di evitare ulteriori dispersioni di risorse finanziarie, in
cui spesso proprio le Regioni sarebbero incorse è stata di recente
perseguita in via generale in materia appunto di opere pubbliche.
Ad analogo intento corrisponderebbe anche l'art. 32, comma 5, in
base al quale anche i recuperi di somme derivanti dalle riduzioni di
spesa di cui al comma 2 verrebbero utilizzati in materia sanitaria
per un migliore perseguimento di finalità non realizzate a causa
delle inadempienze, e comunque secondo un disegno di priorità già
presente nella politica sanitaria adottata. Ciò, quindi, non per
effetto di nuove e sovrapposte linee programmatiche dello Stato, ma
secondo un corretto indirizzo generale da cui le Regioni non
sarebbero state né saranno escluse, trovando anzi esse il loro
organo di raccordo e di verifica nella Conferenza Stato Regioni, di
cui la ricorrente minimizzerebbe la funzione.
Quanto all'art. 34, comma 1, la difesa erariale sostiene che la
Regione non dovrebbe dolersi nei confronti di tale disposizione, in
quanto sarebbe attribuito proprio alle Regioni, come la stessa
ricorrente riconosce, il potere di individuare le aree di attività
specialistiche in cui operare gli inquadramenti.
Quanto all'art. 37, disposizione di cui la stessa Regione
riconoscerebbe la doverosità, l'Avvocatura afferma che la spesa da
essa prevista andrebbe ricondotta al quadro finanziario complessivo,
nella cui composizione le Regioni avrebbero una presenza
determinante.
Quanto all'art. 39, comma 19, la difesa erariale afferma che una
programmazione del fabbisogno del personale compatibile con le
disponibilità di bilancio non potrebbe non essere richiesta per
tutti i settori fondamentali di spesa, come appunto quello sanitario,
e che tale previsione, data la sua ratio, limitata nel tempo, si
ricondurrebbe all'ottica accolta dalla giurisprudenza costituzionale,
che ne riconosce la legittimità in vista di un riassetto generale
del settore, sempre direttamente condizionato dal quadro finanziario
complessivo. Né, a questo fine, potrebbe avere alcuna rilevanza che
le Regioni siano indicate insieme ad altri soggetti di spesa.
Quanto all'art. 41, comma 1, parimenti non si vedrebbe in che
modo tale disposizione possa incidere sui poteri decisionali delle
Regioni, ove pure la norma sia ad esse applicabile, del che la stessa
ricorrente dubiterebbe.
Quanto all'art. 43, la difesa erariale ne sostiene la
compatibilità con l'autonomia regionale, in quanto in esso si
prevede soltanto che le pubbliche amministrazioni, al fine di
favorire l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di
realizzare maggiori economie, possono stipulare contratti di
sponsorizzazione, accordi di collaborazione, etc.: nessun vincolo
verrebbe imposto ad alcuno, salvo per una quota dei risparmi così
(eventualmente) ottenuti.
Quanto all'art. 44, comma 4, l'Avvocatura contesta che la
ricorrente, pur esprimendo dubbi interpretativi sul testo, ne dia una
lettura particolarmente forte, ritenendolo idoneo a sottrarre
direttamente poteri alle Regioni; al contrario, la norma
richiamerebbe ai fini dell'attuazione della delega della legge n. 59
del 1997, relativa alla riorganizzazione degli apparati centrali
l'obiettivo di una complessiva riduzione dei costi amministrativi,
indicando una serie di principi e criteri direttivi idonei allo
scopo. Secondo l'Avvocatura, dunque, la legge sulla finanza pubblica
era la sede naturale per tale richiamo; e l'allarme della Regione
Lombardia sarebbe ingiustificato, proprio di fronte ad una legge come
la n. 59 del 1997, ispirata ad un'evoluzione in senso federale, e non
centralistico, dell'ordinamento.
Quanto infine agli artt. 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
difesa erariale si richiama ancora una volta alla ragion d'essere
della normativa in esame, diretta ad un contenimento della spesa che
spettava allo Stato di prevedere, come responsabile primario del
bilancio.
In definitiva, secondo l'Avvocatura, rimarrebbero decisive anche
per la legge in esame le considerazioni formulate dalla Corte
costituzionale ad analogo proposito, secondo cui l'opera di
risanamento della finanza pubblica richiederebbe un impegno solidale
di tutti gli enti territoriali erogatori di spesa, di fronte al quale
la garanzia costituzionale dell'autonomia finanziaria delle Regioni
non potrebbe fungere da impropria giustificazione per una esenzione.
La finalità, anche nella legge n. 449 del 1997 perseguita dal
Governo e dal Parlamento, di contenere il perdurante disavanzo della
spesa pubblica giustificherebbe una manovra complessiva di riduzione
della spesa in tutti i settori e con specifico riferimento alla spesa
sanitaria, mediante misure che incidono su tutti gli enti di
autonomia a statuto speciale e ordinario.
6. - Con ricorso notificato il 28 gennaio 1998 e depositato il
7 febbraio 1998 (r. ric. n. 14 del 1998), la Regione Veneto ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3, 5, 24, 32, 77, 81, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione, degli artt. 17, commi 10, 22 e 29; 18; 32, commi 2, 4,
5 e 15; 34, comma 1, 37; 39, comma 19; 41, commi 1 e 3; 43; 44, comma
4; 47, comma 1; 48, commi 1 e 5; 49, comma 18; 55, comma 14, della
legge n. 449 del 1997.
La ricorrente sostiene che tutte le disposizioni impugnate
comprimono l'autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria
regionale.
Con riguardo all'art. 17, comma 10, la Regione Veneto sostiene
che la disposizione impugnata, che demanda alle Regioni a statuto
ordinario la riscossione, l'accertamento, il recupero, i rimborsi,
l'applicazione delle sanzioni ed il contenzioso amministrativo
relativi alle tasse automobilistiche non erariali, prevedendo che un
decreto del Ministro delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-Regioni, stabilisca le modalità di queste operazioni e approvi
uno schema tipo di convenzione per l'affidamento a terzi
dell'attività di controllo e riscossione, violerebbe l'art. 119
della Costituzione, in quanto eccederebbe l'ambito delle "forme" e
dei "limiti" dell'autonomia tributaria regionale, e inciderebbe sugli
artt. 117 e 118 della Costituzione, interferendo nella materia
dell'ordinamento degli uffici regionali e compromettendo l'autonomo e
differenziato esercizio delle funzioni amministrative regionali,
attraverso l'imposizione dello stesso identico modello di attività a
tutte le Regioni. La scelta del legislatore statale sarebbe altresì
irrazionale (art. 3 della Costituzione, in relazione agli artt. 5,
117, 118 e 119), in quanto pretenderebbe di omogeneizzare per
l'intero territorio nazionale le modalità di esercizio di tutte
queste attività, senza alcuna ragione giustificativa. Tale
irrazionalità sarebbe particolarmente evidente per quanto concerne
la previsione della convenzione tipo relativa ai rapporti tra
Amministrazione e concessionari, perché in questo caso,
contrariamente a quello della convenzione con i tabaccai per la
riscossione delle tasse automobilistiche, disciplinato dal successivo
comma 11, non verrebbero in gioco i rapporti fra l'Amministrazione e
gli utenti, interessati ad un servizio ispirato a regole analoghe su
tutto il territorio nazionale. Ancora, la legge censurata non
delimiterebbe in alcun modo il potere discrezionale del Ministro, che
dunque risulterebbe carente di idoneo fondamento legislativo, e le
Regioni non sarebbero garantite dalla sola previsione del parere
della Conferenza Stato-Regioni. Infine, più radicalmente, la
disposizione impugnata contrasterebbe con le norme costituzionali
invocate, in quanto affiderebbe alle Regioni compiti onerosi senza la
previsione di copertura finanziaria.
Con riguardo all'art. 17, comma 22, che riduce "da lire 350 a
lire 242 per ciascun litro" la quota dell'accisa sulla benzina
spettante alle Regioni a statuto ordinario come tributo proprio ai
sensi dell'art. 3, comma 12, della legge n. 549 del 1995, la Regione
denuncia la violazione degli artt. 5 e 119 della Costituzione, in
quanto la disposizione comprometterebbe gravemente l'autonomia
finanziaria della ricorrente. Il presupposto di questa unilaterale
riduzione di un tributo proprio delle Regioni sarebbe una sorta di
compensazione interna del carico fiscale nel settore della
circolazione automobilistica: tuttavia, a fronte di una riduzione
certa della capacità impositiva delle Regioni, si contrapporrebbe un
riequilibrio meramente eventuale, derivante dall'incremento di altre
entrate, con conseguente impossibilità per le Regioni di contare su
una previsione di entrata certa.
Quanto all'art. 17, comma 29, che istituisce la tassa sulle
emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto, la ricorrente
deduce la violazione degli artt. 5, 32 e 119 della Costituzione. Si
tratterebbe dell'istituzione di una tipica tassa "ambientale", che
tuttavia non sarebbe regolata dalla disciplina tipica delle tasse di
questo tipo, poiché le Regioni non vengono qualificate come
compartecipi del relativo gettito, al contrario di quanto avviene per
le tasse sui consumi di combustibili ai sensi dell'art. 6 della legge
n. 158 del 1990; e poiché il gettito non è destinato all'adozione
di interventi di prevenzione e di risanamento ambientali, in
contrasto con l'esigenza costituzionale di tutela della salute della
collettività.
Quanto all'art. 18, che istituisce un'imposta erariale regionale
sulle emissioni sonore degli aeromobili, la Regione deduce la
violazione degli artt. 3, 5, e 119 della Costituzione. La
disposizione, riservando allo Stato sia le modalità di accertamento,
riscossione e versamento della nuova imposta, sia la determinazione
dell'aliquota, lederebbe il principio di ragionevolezza e l'autonomia
finanziaria regionale, in quanto della "regionalità" dell'imposta
resterebbe traccia solo nel nomen. Infine, vi sarebbe violazione
della riserva di legge di cui all'art. 119 della Costituzione, in
quanto il regolamento ministeriale destinato a recare la disciplina
dell'imposta (alla cui formazione la Regione non sarebbe chiamata a
partecipare) non troverebbe alcuna delimitazione nella legge
censurata.
Con riguardo all'art. 32, commi 2, 4, 5 e 15 la Regione Veneto
denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione. Le censure relative ai commi 2, 4 e 5 sono svolte in
modo del tutto identico a quelle proposte dalla Regione Lombardia con
il ricorso iscritto al r. ric. n. 13 del 1998, di cui si è detto
sopra. Quanto al comma 15, che facoltizza le Regioni ad autorizzare
spese sanitarie in favore di categorie di non cittadini
precedentemente non assistite dal Servizio sanitario, la ricorrente
afferma che tale norma non metterebbe a disposizione alcuna risorsa
aggiuntiva destinata a coprire le relative spese, con conseguente
compromissione dell'autonomia finanziaria regionale e del diritto
costituzionale alla salute.
Con riguardo all'art. 34, comma 1, la ricorrente deduce la
violazione degli artt. 3, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione, svolgendo censure identiche a quelle proposte dalla
Regione Lombardia con il ricorso iscritto al r. ric. n. 13 del 1998,
di cui si è detto sopra. Lo stesso deve dirsi per le censure
relative all'art. 37, impugnato in relazione agli artt. 2, 3, 32, 81,
97, 117, 118 e 119 della Costituzione; all'art. 39, comma 19,
impugnato in relazione agli artt. 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione, e all'art. 41, comma 1, impugnato in relazione agli
artt. 117, 118 e 119 della Costituzione.
I parametri da ultimo citati sostengono anche l'impugnazione del
comma 3 dello stesso art. 41 che, secondo la Regione ricorrente,
inciderebbe sull'autonomia regionale in riferimento al trattamento
economico del proprio personale e all'organizzazione dei propri
uffici.
Con riguardo all'art. 43, la ricorrente deduce la violazione
degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, svolgendo censure
identiche a quelle proposte dalla Regione Lombardia con il ricorso
iscritto al r. ric. n. 13 del 1998, di cui si è detto sopra. Lo
stesso deve dirsi per le censure relative all'art. 44, comma 4,
impugnato in relazione agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione;
e agli artt. 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, impugnati in relazione
agli artt. 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.
Con riguardo all'art. 49, comma 18, la Regione ricorrente deduce
la violazione degli artt. 3, 24, e 77, in riferimento agli artt. 5,
117 e 118, della Costituzione, affermando che tale disposizione del
cui contenuto si è riferito sopra, al paragrafo 1, a proposito del
ricorso della Regione Piemonte, sarebbe palesemente violativa delle
proprie attribuzioni.
La ricorrente premette che già la previsione dell'ultimo dei
decreti legge a cui tale disposizione fa riferimento (art. 5, comma
3, del decreto legge n. 495 del 1996, non convertito, i cui effetti
sono stati fatti salvi dall'art. 2, comma 61, della legge n. 662 del
1996) nel prevedere che l'approvazione dello strumento urbanistico e
delle relative varianti da parte della Regione e, ove prevista, della
provincia o di altro ente locale, avviene entro 180 giorni dalla data
di trasmissione, da parte dell'ente che lo ha adottato, dello stesso
strumento urbanistico corredato della necessaria documentazione, e
che, decorso infruttuosamente il termine, i piani si intendono
approvati - si sarebbe esposta già di per sé a "pesantissimi" dubbi
di legittimità costituzionale per compressione dell'autonomia
regionale, imponendo il silenzio-assenso in una materia di competenza
regionale quale è l'urbanistica. La norma impugnata avrebbe
confermato questi dubbi.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 77, terzo comma, secondo
periodo, in relazione agli artt. 5, 117 e 118, della Costituzione, la
Regione ricorda che di fatto i decreti legge reiterati non avrebbero
determinato alcuna lesione del potere regionale di approvazione degli
strumenti urbanistici locali, perché il termine di 180 giorni non
avrebbe mai potuto utilmente decorrere nel vigore di alcuno, e
neanche dell'ultimo, di tali decreti, non essendo mai intervenuta la
legge di conversione; e nota poi che la disposizione oggi impugnata
disporrebbe ciò che non avrebbe potuto disporre neppure la legge di
conversione, e cioè, prevedendo l'utile decorso del termine per il
passato, consentirebbe ai decreti legge di produrre oggi effetti che
non avevano potuto produrre ieri.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 77, secondo comma, in
relazione agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, la Regione
afferma che la disposizione impugnata avrebbe ignorato il limite
della provvisorietà che la Costituzione impone ai decreti legge,
rendendo continua e definitiva la disciplina disposta dalla catena
dei decreti legge.
Quanto alla dedotta violazione dell'art. 24, in relazione agli
artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, ancora, la ricorrente si duole
della violazione del diritto di agire in giudizio davanti alla Corte
costituzionale per la difesa delle proprie attribuzioni
costituzionalmente garantite, in quanto la Regione allora non avrebbe
avuto interesse ad impugnare nessuno dei decreti legge, data
l'impossibilità logico-costituzionale dell'applicazione
dell'istituto del silenzio-assenso da essi previsto; ma, d'altro
canto, oggi la disposizione impugnata le impedirebbe di dolersi anche
nei confronti dei decreti legge che essa resuscita, in quanto ormai
decaduti.
Quanto infine alla violazione dell'art. 3, in relazione agli
artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, la ricorrente sostiene che la
disposizione impugnata sarebbe intimamente contraddittoria, e dunque
viziata per irrazionalità interna, e nello stesso tempo lesiva delle
attribuzioni costituzionali della ricorrente, quando afferma che sono
considerati validi gli strumenti urbanistici "già intesi approvati"
a seguito dell'applicazione dei decreti legge non convertiti, poiché
nessuno dei decreti legge, come lo stesso legislatore avrebbe
riconosciuto quando è intervenuto a saldare un decreto all'altro,
avrebbe potuto produrre l'effetto del verificarsi del
silenzio-assenso.
Con riguardo all'ultima disposizione impugnata, l'art. 55, comma
14, che secondo la Regione detterebbe un'analitica disciplina delle
attività agricole da attuarsi con decreto legislativo, la ricorrente
deduce la violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione: la
lesione delle attribuzioni regionali nella materia dell'agricoltura,
di competenza regionale, sarebbe immediata, e precederebbe la
prevista emanazione di un decreto legislativo, in quanto il
coinvolgimento regionale sarebbe limitato al parere della Conferenza
Stato-Regioni, e in nessun punto, fra i principi e criteri direttivi
indicati, si darebbe conto della esigenza di salvaguardia delle
attribuzioni regionali.
7. Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, chiedendo che la Corte voglia dichiarare non fondate tutte
le questioni sollevate dalla Regione Veneto, e osservando quanto
segue in relazione a ciascuna delle disposizioni impugnate.
Quanto all'art. 17, comma 10, la difesa erariale afferma che il
conferimento alle Regioni dei poteri relativi ai propri tributi,
quali sono le tasse automobilistiche non erariali, risponderebbe ai
principi dell'autonomia, per cui non si comprenderebbe come la
ricorrente possa lamentarsi che per la amministrazione di proprie
entrate le Regioni non ricevano adeguata copertura finanziaria;
inoltre, anche in considerazione della diffusione e della
specificità del tributo, sarebbe ragionevole la preoccupazione di
garantire l'omogeneità dei procedimenti su tutto il territorio.
Quanto all'art. 17, comma 22, la riduzione dell'accisa sulla
benzina conseguirebbe ad un'operazione di complessiva
riorganizzazione dell'imposizione nel settore della circolazione
automobilistica, e avrebbe lo scopo di mantenere il gettito nella
misura vigente al 31 gennaio 1994 (recte: al 31 dicembre 1997).
Questa operazione non potrebbe essere ostacolata per l'interesse di
una sola Regione, tanto più che l'accisa sulla benzina non sarebbe
un vero tributo della Regione, anche se ad esso attribuito.
Quanto all'art. 17, comma 29, non si comprenderebbe, afferma la
difesa erariale, perché la ricorrente lamenti che le Regioni non
partecipino al reddito della tassa sulle emissioni di anidride
solforosa e di ossido di azoto.
Quanto all'art. 18, l'Avvocatura sostiene che, poiché la nuova
imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili non sarebbe una
entrata a beneficio della Regione, in quanto quest'ultima
collaborerebbe soltanto alla distribuzione del gettito, non vi
sarebbe ragione perché essa sia abilitata ad esercitare sue potestà
in materia.
Passando all'esame delle censure formulate sulle disposizioni in
materia di spesa, ed in particolare di quella relativa all'art. 32,
comma 2, l'Avvocatura afferma che non sarebbe illegittimo un sistema
sanzionatorio che, a fronte di inadempienza oggettiva, utilizzi il
mezzo della riduzione del fondo a favore della Regione; peraltro,
proprio la Regione sarebbe chiamata ad individuare le responsabilità
degli operatori e a graduare le sanzioni.
Quanto all'art. 32, comma 4, non parrebbe violato alcun principio
costituzionale; peraltro la materia oggetto della sanzione avrebbe
dovuto essere definita già da tempo.
Quanto all'art. 32, comma 5, secondo l'Avvocatura le
disponibilità del fondo sanitario nazionale derivanti dalle
riduzioni delle quote spettanti alle Regioni inadempienti sarebbero
ragionevolmente assegnate, con il concorso di vari pareri, alle
aziende che hanno attuato i programmi, e non si potrebbe pretendere
che il provento di sanzioni venga amministrato dallo stesso soggetto
sanzionato.
Quanto all'art. 32, comma 15, tale disposizione, secondo la
difesa erariale, prevederebbe la possibilità ma non imporrebbe che
le aziende siano autorizzate ad erogare prestazioni a cittadini
extracomunitari.
Quanto all'art. 34, comma 1, la regolarizzazione del personale
sanitario a rapporto convenzionale sarebbe stata da tempo attesa, e
la Regione non potrebbe ostacolarla.
Quanto all'art. 37, l'Avvocatura sostiene che non sarebbe
necessario che ogni singola prestazione trovi una specifica
copertura.
Quanto agli artt. 39, comma 19, e 41, commi 2 (recte: 1) e 3, la
difesa erariale osserva che la riduzione delle spese per il personale
prevista nel comma 1 dell'art. 39 per lo Stato si applica a tutti gli
enti pubblici, e che sarebbe strano che la Regione fosse esente da
questo dovere.
Quanto all'art. 43, trattandosi di norma che consente, non
potrebbe profilarsi una violazione.
Quanto all'art. 44, comma 4, si tratterebbe di una norma
genericamente programmatica.
Quanto agli artt. 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
partecipazione delle Regioni alle operazioni per la stabilizzazione
della finanza pubblica, nel particolare momento, sarebbe doverosa.
Quanto all'art. 49, comma 18, sul silenzio-assenso regionale per
l'approvazione degli strumenti urbanistici, la difesa erariale
osserva che la norma, che fa parte di un articolo la cui rubrica è
"Norme particolari per i comuni e le province", non violerebbe le
prerogative regionali, ricollegandosi a numerose altre che
perseguono, da una parte, la legittimazione di situazioni
urbanistiche con sanatorie di varia natura, dall'altra, lo
snellimento delle procedure di approvazione con il mezzo del silenzio
- accoglimento.
Quanto infine all'art. 55, comma 14, l'Avvocatura sostiene che,
trattandosi di legge di delega mirante a sostenere le attività
agricole nel confronto con i costi comunitari, anche con varie
provvidenze e con alleggerimento degli oneri per i servizi, si
sarebbe al di fuori della competenza regionale in materia di
agricoltura.
8. - Nell'imminenza dell'udienza, nel giudizio instaurato con
ricorso della Regione Piemonte (r. ric. n. 12 del 1998) ha depositato
memoria la ricorrente, insistendo per l'accoglimento della questione.
In relazione all'intervento in giudizio del comune di Lonato, la
Regione ne eccepisce l'inammissibilità, dovendosi dubitare in
generale della compatibilità con il carattere del giudizio di
legittimità costituzionale in via principale della partecipazione di
soggetti diversi da quelli che vi sono chiamati dalla legge; e non
ricorrendo comunque, nel caso di specie, i presupposti per
l'ammissibilità di un intervento, poiché non sarebbe possibile
configurare in capo al comune interveniente, anche qualora questo
avesse concretamente inteso come approvato il proprio strumento
urbanistico decorso il termine previsto dai decreti legge, una
situazione individualizzata, bensì soltanto un interesse riflesso ed
eventuale all'esito del giudizio di legittimità costituzionale.
Quanto al merito, la Regione, prendendo posizione sugli argomenti
esposti nell'atto di intervento del comune di Lonato, e ricordando la
giurisprudenza della Corte in materia di limiti alla decretazione
d'urgenza, sostiene che al di là dell'ipotesi contemplata
dall'art. 77, terzo comma, della Costituzione non sarebbe comunque
ipotizzabile alcuna disposizione di salvaguardia degli effetti del
decreto legge non convertito, che sarebbe di per sé illegittima. E
aggiunge che la possibilità di far salvi gli effetti prodotti
durante la vigenza interinale del decreto legge sarebbe rimessa
esclusivamente alla valutazione discrezionale del legislatore, fermo
restando in ogni caso il rispetto degli altri precetti
costituzionali: condizione che, tuttavia, nel caso di specie non
risulterebbe essere stata rispettata, in quanto il provvedimento
impugnato sarebbe stato adottato in violazione degli artt. 9, 117 e
118 della Costituzione.
Non potrebbe neanche escludersi, prosegue la memoria, che le
Regioni, ricorrendo in via principale innanzi alla Corte
costituzionale, lamentino il mancato rispetto delle norme
costituzionali regolanti l'esercizio del potere governativo di
adozione dei decreti legge, così come delle regole per l'emanazione
di una disciplina degli effetti di decreti legge non convertiti,
quanto meno nei limiti in cui ricorra altresì la violazione di norme
costituzionali che comportano la lesione della sfera di attribuzioni
costituzionalmente garantita.
Dopo essersi soffermata sulle motivazioni delle due sentenze
della Corte costituzionale, la n. 244 e la n. 429 del 1997, aventi ad
oggetto, rispettivamente, la clausola di salvezza degli effetti dei
decreti legge non convertiti (l'art. 2, comma 61, della legge n. 662
del 1996), e le disposizioni in ordine alla formazione del silenzio
assenso regionale contenute in due dei decreti legge reiterati, la
memoria sostiene che l'illegittimità costituzionale della norma oggi
impugnata deriverebbe dalla circostanza che essa andrebbe ad
integrare un contenuto normativo di cui le due sentenze della Corte
avrebbero implicitamente riconosciuto l'illegittimità
costituzionale: la normativa impugnata avrebbe infatti disposto, in
contrasto con i principi dell'art. 77, terzo comma, della
Costituzione, così come interpretati appunto dalle due sentenze
della Corte, che il termine di decorrenza dei centottanta giorni per
la formazione del silenzio-assenso dovesse essere computato, ove non
maturato (come non poteva maturare) nel periodo di vigenza di un
singolo decreto legge, sommando il periodo di vigenza dei successivi
decreti legge.
Infine, la memoria ricorda come la Corte costituzionale avrebbe
già in passato affermato l'illegittimità di previsioni di
silenzio-assenso con riferimento alle attività amministrative ad
alta discrezionalità, da ultimo con la sentenza n. 26 del 1996,
avente ad oggetto una legge della ricorrente Regione Piemonte in
materia di programmi integrati di riqualificazione urbanistica,
edilizia e ambientale.
9. - Nel ricorso proposto dalla Regione Lombardia (r. ric. n. 13
del 1998), in prossimità dell'udienza hanno depositato memoria la
Regione ricorrente e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Entrambe le memorie si soffermano distintamente su ciascuna delle
disposizioni impugnate.
La memoria della Regione Lombardia, quanto all'art. 32 della
legge n. 449 del 1997, di cui sono impugnati i commi 2, 4 e 5,
riassume gli argomenti già sviluppati nel ricorso introduttivo,
insistendo in particolare sulla circostanza che le disposizioni
impugnate sarebbero irragionevoli, oltre che incostituzionali, nella
parte in cui, a fronte delle ridottissime competenze riconosciute
alle Regioni, farebbero tuttavia carico alle stesse di eventuali
disfunzioni nel sistema, ancorché si tratti di disfunzioni o errori
non riconducibili ad una responsabilità diretta delle medesime; e
sulla circostanza che le stesse Regioni resterebbero escluse dal
procedimento anche nella fase successiva di assegnazione delle
risorse resesi disponibili in seguito all'applicazione delle
sanzioni.
Quanto agli artt. 34, comma 1, e 37, essi si caratterizzerebbero
per una evidente compromissione del diritto costituzionale alla
salute, oltre che delle esigenze di buon andamento
dell'amministrazione, non mettendo a disposizione delle Regioni le
risorse necessarie per far fronte ai disposti aggravi di spesa.
Quanto all'art. 39, comma 19, la memoria insiste sul fatto che,
secondo la giurisprudenza costituzionale, eventuali misure di
contenimento o di blocco delle assunzioni di personale, finalizzate a
riduzioni di spesa, sarebbero legittime solo quando si tratti di
misure temporanee, preordinate ad instaurare un regime transitorio in
attesa di un riassetto generale del settore; la misura impugnata non
realizzerebbe questa condizione.
Quanto all'art. 41, comma 1, la memoria ribadisce che tale
disposizione, non avente carattere meramente transitorio, violerebbe
l'autonomia regionale, in quanto sottrarrebbe alle Regioni il potere
di organizzare i propri uffici, nonché il dominio e il controllo
della distribuzione dei compiti all'interno di essi.
La memoria si sofferma quindi sull'art. 43, nella parte in cui
vincola l'utilizzo di una percentuale predeterminata dei ricavi netti
derivanti dalle consulenze o dai servizi aggiuntivi di cui al comma
3, destinandola ad economie di bilancio. Tale disposizione sarebbe
anch'essa di carattere permanente, ed imporrebbe un doppio vincolo di
ordine sostanziale, qualitativo e quantitativo, sottraendo alla
Regione ogni libertà di valutazione e di impiego delle proprie
risorse, attraverso una irrazionale ed arbitraria omogeneizzazione
delle situazioni di bilancio di tutte le Regioni, con conseguente
lesione della stessa autonomia politica della Regione, privata della
capacità di decisione in ordine alle spese.
Quanto all'art. 44, comma 4, la memoria insiste sulle censure
già formulate nel ricorso, evidenziando l'impossibilità di superare
il dubbio di legittimità costituzionale interpretando la
disposizione impugnata come una mera norma di principio.
Quanto all'art. 47, comma 1, la memoria ne ribadisce il contrasto
con l'art. 119 della Costituzione. La norma, da un lato, rinviando ad
un decreto ministeriale la determinazione del limite di giacenza che
consente la ripresa dei pagamenti dello Stato a favore delle varie
categorie di enti, fra cui anche le Regioni, contrasterebbe con la
previsione costituzionale secondo cui siffatti limiti possono essere
fissati solo da leggi della Repubblica di coordinamento della finanza
dello Stato, delle Province e dei comuni. Dall'altro lato la norma,
prevedendo un meccanismo di difficile, se non impossibile
applicazione (non si comprenderebbe quale sia l'assegnazione di
competenza di ciascuna Regione in relazione alla cui entità il
decreto ministeriale dovrebbe procedere alla determinazione
dell'importo minimo di tali giacenze), contrasterebbe con l'esigenza
di certezza dell'autonomia finanziaria regionale, presupposta dalla
Costituzione. Ancora, il meccanismo da essa previsto determinerebbe
incertezze anche sugli equilibri di bilancio, mirando a rendere
inesigibili crediti della Regione verso lo Stato che, in base alle
fonti giuridiche che li disciplinano, si presenterebbero invece già
liquidi ed esigibili.
Quanto all'art. 48, commi 1, 4 e 5, la Regione ne sottolinea il
contrasto con lo stesso art. 119 della Costituzione, nella parte in
cui introduce il blocco dei pagamenti delle Regioni, con la sola
esclusione di quelli che possono arrecare danni patrimoniali all'ente
e a terzi, fino a quando la Conferenza permanente Stato-Regioni non
abbia definito i criteri operativi per il computo del fabbisogno di
cui al comma 1, e nella parte in cui riconosce alla stessa Conferenza
permanente e alla Conferenza Stato-città la facoltà di proporre
l'introduzione di vincoli, con decreto ministeriale, sugli utilizzi
delle disponibilità esistenti sui conti della tesoreria unica, in
caso di accertata incompatibilità del fabbisogno rispetto agli
obiettivi indicati dal comma 1.
Sia il blocco autoritativo dei pagamenti delle Regioni, sia la
previsione di vincoli di utilizzo delle disponibilità finanziarie di
cui al comma 4, lederebbero l'operatività gestionale delle Regioni,
finendo per operare alla stregua di una misura coercitiva,
finalizzata a coartare la volontà delle Regioni in sede di
Conferenza permanente, al fine di far accettare alle stesse criteri
operativi satisfattivi delle esigenze dello Stato; e lederebbero
l'autonomia finanziaria e contabile garantita dall'art. 119 della
Costituzione, limitando la disponibilità e l'utilizzo delle giacenze
di cassa presso la Tesoreria dello Stato, nonché l'accreditamento a
favore delle Regioni delle somme ad esse spettanti ai sensi della
normativa vigente. Sul punto, la memoria ricorda che la
giurisprudenza costituzionale ha affermato che il sistema di
tesoreria unica non costituisce di per sé violazione dell'autonomia
regionale, purché non si trasformi in un anomalo strumento di
controllo sulla gestione finanziaria regionale: al contrario di
quello che accadrebbe con le norme impugnate, in base alle quali le
Regioni non potrebbero effettivamente disporre delle somme di propria
pertinenza già accreditate nei conti presso la Tesoreria statale o
da accreditare in conformità delle norme vigenti. E questo con
possibile violazione, oltre che dell'autonomia finanziaria regionale,
dei diritti dei creditori e del principio di buon andamento della
pubblica amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione.
10. - La memoria del Presidente del Consiglio dei Ministri,
quanto all'art. 32, comma 2, della legge n. 449 afferma in primo
luogo l'inammissibilità delle censure che non concernono una lesione
o menomazione della sfera costituzionale delle attribuzioni
regionali, quali in particolare quella riferita all'art. 3 della
Costituzione. In relazione alla disposta riduzione della quota del
Fondo sanitario nazionale in caso di accertata inadempienza delle
Regioni, poi, la difesa erariale ribadisce la ragionevolezza e
l'adeguatezza della misura, e osserva che la legge non precluderebbe
alla Regione di riversarne le conseguenze sugli enti (ASL e aziende
ospedaliere) che siano esclusivamente responsabili dell'inadempienza,
oltre che sui dirigenti e sul personale, come espressamente previsto
dalla norma impugnata; benché, dati i penetranti poteri di
indirizzo, controllo ed intervento correttivo spettanti alle Regioni
nei confronti delle ASL ed aziende ospedaliere, sarebbe difficile
ipotizzare una inadempienza per omissione non attribuibile alla
stessa Regione.
D'altro lato, il Ministro della sanità non godrebbe di
illimitata discrezionalità nel dosare la sanzione, in quanto la
legge fisserebbe l'ammontare massimo della sanzione e postulerebbe la
sua motivata graduazione in rapporto alla gravità e all'entità
dell'inadempienza; e la stessa legge delineerebbe una procedura
proposta del Ministro, previo parere della Conferenza unificata
idonea di per sé alla piena rappresentazione e difesa degli
interessi regionali.
Anche la doglianza relativa all'art. 32, comma 4, presenterebbe
profili di inammissibilità e, comunque, sarebbe infondata. La
disposizione, infatti, prevedendo una proroga (al 31 marzo 1998) del
termine per l'adempimento regionale, che ai sensi dell'art. 1 della
legge n. 662 del 1996 sarebbe scaduto il 31 gennaio 1997, non
potrebbe ritenersi irragionevole per eccessiva brevità del termine.
Quanto all'art. 32, comma 5, secondo periodo, il procedimento
delineato dalla legge per la ripartizione e la utilizzazione delle
disponibilità aggiuntive sarebbe tale da assicurare, nel rispetto
del principio di leale cooperazione, l'adeguata tutela degli
interessi della Regione, dato che il necessario intervento della
Conferenza Stato-Regioni dovrebbe rimuovere qualsiasi sospetto di
irragionevole discrezionalità del Ministro nella riassegnazione dei
fondi.
Quanto all'art. 32, comma 5, terzo periodo, la censura sarebbe
incomprensibile: il potere sostitutivo per l'utilizzo delle
disponibilità di cui all'art. 1, comma 23, della legge n. 662 del
1996 dovrebbe essere inteso chiaramente nei confronti delle aziende
sanitarie, e non già della Regione, attraverso la nomina di un
commissario ad acta con provvedimento del Consiglio dei Ministri, su
proposta del Ministro della sanità e di intesa con la Regione
interessata.
Quanto all'art. 34, comma 1, della legge, esso dovrebbe essere
letto in correlazione con il comma 4, che attribuisce alle Regioni la
rideterminazione, tramite le ASL, delle ore da attribuire alla branca
specialistica ambulatoriale, in modo da realizzare nel 1998 una
riduzione complessiva annua non inferiore al 10% dei costi sostenuti
per detta disciplina nel 1997, detratti alcuni costi. L'ipotesi
avanzata dalla ricorrente, di un pregiudizio alla propria autonomia
finanziaria, sarebbe quindi infondata, in quanto la complessiva
manovra sarebbe al contrario destinata a comportare una apprezzabile
economia di spesa, stimata, per il 1998, in circa 100 miliardi.
Quanto all'art. 39, comma 19, la disposizione non inciderebbe in
alcun modo sulla autonomia normativa e finanziaria della Regione, in
quanto il principio fondamentale da essa enunciato mirerebbe ad
assicurare la razionalizzazione del costo del lavoro pubblico al fine
del suo ridimensionamento entro i limiti del complessivo quadro di
riferimento delle compatibilità finanziarie, a cui sono chiamate a
partecipare anche le Regioni.
Quanto all'art. 41, comma 1, esso corrisponderebbe alle stesse
esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica, di cui si è
appena detto, oltre che di recupero dell'efficienza dei tempi dei
procedimenti amministrativi; d'altro lato, rimarrebbe riservata alle
Regioni l'individuazione degli organismi regionali ritenuti
indispensabili per la realizzazione delle proprie finalità.
Quanto all'art. 41, comma 3, in realtà non impugnato dalla
Regione Lombardia, la difesa erariale sostiene che il suo scopo sia
quello di eliminare, dal primo rinnovo contrattuale, tutte le
disposizioni che prevedano automatismi sui trattamenti economici
settoriali dei pubblici dipendenti, al fine di sostituirle con
corrispondenti disposizioni da inserire in accordi collettivi, ferma
la competenza delle Regioni; in ciò la disposizione rafforzerebbe
quanto già previsto dall'art. 49 del d.lgs. n. 29 del 1993, le cui
disposizioni costituirebbero principi fondamentali di riforma
economico-sociale vincolanti per le Regioni.
Quanto all'art. 43, comma 3, l'Avvocatura non ne ravvisa il
contrasto con l'art. 119 della Costituzione: il limite all'autonomia
regionale sarebbe ragionevole, in vista della realizzazione del
generalizzato contenimento del disavanzo pubblico.
Quanto all'art. 44, comma 4, tale disposizione non sarebbe tale
da incidere immediatamente e concretamente sull'autonomia regionale,
in difetto dell'emanazione del previsto decreto legislativo; e,
comunque, essa si limiterebbe ad estendere alle trasformazioni delle
strutture delle amministrazioni pubbliche quanto previsto
dall'art. 14 della legge n. 59 del 1997, articolo che andrebbe letto
in relazione al precedente art. 11, lettera b del quale costituirebbe
una specificazione.
Quanto all'art. 47, comma 1, la difesa erariale in primo luogo
precisa che tale disposizione riguarda solo gli stanziamenti di
alcuni capitoli del bilancio statale, quali individuati nel d.m.
16 gennaio 1998. In secondo luogo, le censure proposte dalla
ricorrente sarebbero infondate, sia perché al decreto ministeriale
sarebbe rimessa solo la concreta determinazione dei limiti di
giacenza per categorie di enti, entro la fascia (dal 10 al 20%)
prefissata dalla legge; sia perché, nonostante che l'erogazione da
parte dello Stato sia subordinata ad una condizione temporaneamente
sospensiva, e cioè all'ammontare della giacenza, la norma non
limiterebbe l'autonomia regionale, a cui verrebbe comunque assicurata
l'integrale attribuzione delle risorse spettanti.
Infine, di nessun fondamento sarebbe la doglianza riferita
all'art. 48, comma 5, il quale conterrebbe esclusivamente una norma
di salvaguardia, provvisoriamente operante, nei limiti specificati,
in attesa delle indicazioni della Conferenza Stato-Regioni.
11. - Nel ricorso proposto dalla Regione Veneto (r. ric. n. 14
del 1998), in prossimità dell'udienza hanno depositato memoria la
Regione ricorrente e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Entrambe le memorie si soffermano distintamente su ciascuna delle
disposizioni impugnate.
Quanto agli artt. 32, commi 2, 4 e 5; 34, comma 1; 37; 39, comma
19; 41, comma 1; 43; 44, comma 4; 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
memoria della ricorrente riproduce in modo del tutto identico quanto
affermato dalla memoria della Regione Lombardia, di cui si è detto
sopra, al paragrafo 9.
Quanto invece alle disposizioni impugnate in materia tributaria
(art. 17, commi 10, 22 e 29, e art. 18), la memoria della Regione
Veneto complessivamente ne ribadisce l'illegittimità costituzionale,
sia là dove gli interventi non comportano l'istituzione di nuovi
tributi né l'elevazione dell'aliquota di quelli esistenti, in cui
illegittima sarebbe la devoluzione allo Stato dei maggiori proventi
derivanti dagli interventi previsti; sia nel caso dell'art. 18, in
cui si è in presenza della istituzione di una nuova imposta, a causa
della violazione del principio di leale collaborazione insita nella
mancata previsione di forme di partecipazione e consultazione della
Regione sia a monte sia a valle del procedimento di riscossione, e in
ragione della totale indifferenza per le peculiarità di ciascun
ambito regionale, che tale norma rivelerebbe.
In particolare, con riferimento all'art. 17, comma 10, la memoria
ribadisce che tale norma violerebbe l'autonomia finanziaria
regionale, e pretenderebbe di uniformare la disciplina di
riscossione, accertamento, recupero, rimborsi, sanzioni e contenzioso
relativi alle tasse automobilistiche non erariali, demandandone la
disciplina ad un decreto ministeriale, senza tenere conto delle
peculiarità di ciascuna Regione e delle prerogative a queste
riconosciute nella materia degli uffici regionali.
Quanto all'art. 17, comma 22, la compromissione dell'autonomia
finanziaria della Regione ricorrente risulterebbe dalla violazione
del principio costituzionalmente garantito della libera ed autonoma
determinazione dell'aliquota dell'imposta regionale, la cui riduzione
ad opera del legislatore nazionale, peraltro, nella specie andrebbe a
vantaggio dell'erario dello Stato, il quale incasserebbe la
differenza esistente tra la precedente aliquota e quella ridotta a
seguito dell'applicazione della disposizione contestata. Quanto al
comma 29 dello stesso articolo e al successivo art. 18, la memoria
ripete le censure già mosse nel ricorso introduttivo.
Quanto all'art. 32, comma 15, esso viene accomunato dalla memoria
regionale agli artt. 34, comma 1, e 37, di cui si è detto sopra al
paragrafo 9, a proposito della memoria depositata dalla Regione
Lombardia nel giudizio da essa instaurato.
Quanto all'art. 49, comma 18, la memoria si sofferma sugli
effetti concernenti la sua applicazione, affermando che durante il
periodo di vigenza dei decreti legge che prevedevano la formazione
del silenzio-assenso della Regione decorsi centottanta giorni dalla
trasmissione degli strumenti urbanistici, la Giunta regionale veneta
avrebbe approvato 632 strumenti urbanistici, di cui solo 208 nel
termine di centottanta giorni; e che all'epoca sarebbe stato
pressoché unanime l'orientamento, avallato dalla stessa Corte
costituzionale con le sentenze nn. 244 e 429 del 1997, secondo cui il
predetto termine, a seguito della mancata conversione in legge dei
decreti, non potesse mai giungere a compimento. Ne conseguirebbe
l'illegittimità della norma ora impugnata, per violazione
dell'art. 77 della Costituzione, in quanto essa farebbe salvi effetti
di decreti legge non ancora prodottisi al momento della loro
decadenza per mancata conversione.
Per provare ulteriormente l'irragionevolezza della disposizione
impugnata, di carattere interpretativo e di natura retroattiva, la
memoria sostiene infine che dalla sua applicazione potrebbe
discendere l'illegittimità derivata dei provvedimenti regionali
diversi da quelli di mera approvazione degli strumenti urbanistici
intervenuti oltre il termine di centottanta giorni, e che tali
provvedimenti (approvazioni con modifiche d'ufficio, approvazioni con
proposte di modifica, e provvedimenti di restituzione degli strumenti
urbanistici) sarebbero, per quanto riguarda la Regione Veneto, circa
345.
Quanto infine all'art. 55, comma 14, la memoria ribadisce che da
tale disposizione deriverebbe una grave lesione delle attribuzioni
regionali in materia di agricoltura. In proposito, la Regione ricorda
che con la legge n. 59 del 1997, ma ancor prima con il d.P.R. n. 616
del 1977, il legislatore statale avrebbe seguito la logica di
mantenere in capo allo Stato, e per esso al Ministero per le
politiche agricole, solo compiti di disciplina generale e di
coordinamento nazionale in materia di importazione ed esportazione di
prodotti agricoli ed alimentari e di regolazione dei mercati. In
realtà tuttavia, la decentralizzazione delle funzioni sarebbe
mancata, e la disposizione impugnata ne costituirebbe la riprova. La
memoria insiste nell'affermare che l'esigenza di fornire allo Stato
gli strumenti necessari per il perseguimento di una disciplina di
carattere unitario nel settore della regolazione dei mercati e delle
politiche agricole in vista del generale interesse nazionale andrebbe
necessariamente raccordata con la contestuale previsione di momenti
di cooperazione tra Stato e Regione, e che non sarebbe sufficiente a
sanare l'illegittimità costituzionale della disposizione impugnata
la mera previsione della consultazione della Conferenza permanente
Stato-Regioni; del resto, conclude la Regione, tale disposizione
andrebbe ben oltre l'attribuzione allo Stato di funzioni di
coordinamento del settore agricolo, sottraendo illegittimamente alle
Regioni funzioni ad esse costituzionalmente spettanti.
12. - La memoria depositata dal Presidente del Consiglio dei
Ministri, in riferimento agli artt. 32, commi 2, 4 e 5; 34, comma 1;
39, comma 19; 41, commi 1 e 3; 43, comma 3; 44, comma 4; 47, comma 1,
e 48, commi 1 e 5, riproduce in modo del tutto identico quanto
affermato dalla memoria dello stesso Presidente del Consiglio nel
giudizio instaurato con ricorso della Regione Lombardia, di cui si è
detto sopra al paragrafo 10.
Quanto all'art. 17, comma 10, la difesa erariale premette che i
decreti ministeriali ivi previsti sono stati rispettivamente emanati
in data 25 novembre 1998 - e l'art. 7 del decreto prevede che le sue
disposizioni sono destinate ad applicarsi fino a quando le Regioni
non provvedano ad emanare un'autonoma disciplina - e 10 novembre
1999.
Venendo alle censure formulate dalla Regione, la difesa erariale
osserva che, essendo le tasse automobilistiche non erariali tributi
propri della Regione sulla base dell'art. 23 del d.lgs. n. 504 del
1992, lo Stato, nel trasferire le funzioni "strumentali" relative a
tale tributo, non avrebbe dovuto assumersi né direttamente né
indirettamente gli oneri economici connessi al loro esercizio, i
quali non potrebbero che essere a carico dell'ente regionale,
titolare del tributo.
Quanto alla contestata previsione dei decreti ministeriali che
devono emanarsi sentita la Conferenza Stato-Regioni, per assicurare
che siano rappresentati gli interessi regionali, essa sarebbe dettata
dalla ragionevole necessità di assicurare, all'atto del
trasferimento di tali funzioni, uno schema normativo uniforme ed
omogeneo per l'esercizio delle stesse da parte di tutte le Regioni a
statuto ordinario, anche al fine del coordinamento della relativa
disciplina sia tra le varie Regioni sia con le funzioni tuttora
esercitate in materia dallo Stato, fra cui quelle attinenti alle
tasse automobilistiche nelle Regioni a statuto speciale, oltre a
quelle indicate nell'art. 3, comma 3, e nell'art. 5 del decreto
ministeriale del 25 novembre 1998. Non ci sarebbe dunque contrasto
con la potestà legislativa attuativa in materia tributaria di cui
all'art. 119 della Costituzione, norma che consentirebbe, nel
rispetto degli altri principi costituzionali, la determinazione con
legge di forme e limiti all'autonomia regionale, in particolare in
funzione di coordinamento anche con la finanza dello Stato; e, del
resto, le Regioni avrebbero la possibilità di rappresentare le
proprie valutazioni, in vista della predisposizione del regolamento,
in sede di Conferenza Stato-Regioni. Inoltre, la formulazione della
disposizione impugnata sembrerebbe diretta a prevedere lo schema
regolamentare omogeneo in mancanza di norme autonomamente poste dalle
Regioni, che la disposizione impugnata non intenderebbe escludere: e
in tal senso la norma sarebbe stata correttamente interpretata
dall'art. 7 del decreto ministeriale del 25 novembre 1998, di cui si
è detto. Ancora, la disposizione impugnata non inciderebbe sulla
materia dell'ordinamento degli uffici regionali, limitandosi a
prevedere che il decreto ministeriale regoli le modalità di
svolgimento delle funzioni strumentali trasferite; come dimostrerebbe
lo stesso decreto del 28 novembre, il quale si rimetterebbe, in
proposito, in tutte le sue previsioni, alle scelte, anche
organizzative delle Regioni (art. 2, comma 1; art. 3, comma 1;
art. 4, comma 2; art. 5, comma 7).
Quanto all'art. 17, comma 22, la riduzione della quota di accisa
sulla benzina sarebbe strettamente collegata all'aumento della
fiscalità disposta nel settore della circolazione automobilistica
dallo stesso art. 17, in modo da garantire comunque alle Regioni una
effettiva, e non già meramente sperata ed eventuale, invarianza dei
proventi.
Quanto all'art. 17, comma 29, la difesa erariale ribadisce che
nessun principio costituzionale imporrebbe la compartecipazione
regionale alla tassa di nuova istituzione, spettando invece al
legislatore statale fissare se ed in che limiti le Regioni possono
partecipare al relativo gettito; né si potrebbe dire che tale tassa
sia correlata ai singoli ambiti territoriali regionali, anziché
all'intero territorio nazionale, in quanto il rischio ambientale non
rispetta i confini regionali, e difettando, del resto, una
destinazione legislativa dei proventi ad una specifica finalità.
Quanto all'art. 18 della legge, anche a prescindere
dall'inammissibilità della censura in assenza del previsto
regolamento, secondo l'Avvocatura non sarebbe profilabile alcuna pur
potenziale menomazione dell'autonomia finanziaria regionale, in
quanto la nuova imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili non
sarebbe un tributo regionale, ma avrebbe chiara natura di tributo
erariale (statale), con mero conferimento agli assessorati regionali
della funzione di destinazione ai beneficiari del gettito di una
imposta statale (comma 3).
Quanto all'art. 32, comma 15, i compiti di erogazione di
prestazioni ad alta specializzazione a cittadini extracomunitari, nel
quadro di programmi assistenziali approvati dalla Regione,
troverebbero copertura nella quota del fondo sanitario nazionale
attribuita a ciascuna Regione, nell'ambito della quale spetterebbe
comunque alla Regione valutare discrezionalmente, in relazione alle
disponibilità esistenti, l'eventuale esercizio di queste forme di
assistenza.
Quanto all'art. 37, tale disposizione comporterebbe un onere
estremamente contenuto, e non comprometterebbe di fatto l'autonomia
finanziaria e gestionale della Regione; del resto, la fornitura
gratuita di protesi mammarie sarebbe già stata prevista nel decreto
ministeriale 28 dicembre 1992, per cui la norma non prevederebbe
alcun onere aggiuntivo né a carico del Servizio sanitario nazionale,
né a carico della Regione.
Quanto all'art. 49, comma 18, la difesa erariale eccepisce
preliminarmente l'inammissibilità dei profili che invocano come
parametro norme costituzionali le cui asserite violazioni non
inciderebbero sulle attribuzioni costituzionali della Regione, ed in
particolare l'art. 77, terzo comma, della Costituzione. Nel merito,
afferma che la disposizione impugnata costituirebbe l'esercizio
sostantivo di ulteriore ed innegabile potestà legislativa,
nell'ambito della quale il Parlamento avrebbe autonomamente regolato
situazioni pregresse senza incidere sulla sfera di attribuzioni
regionali, riprendendo da un lato la previsione dei decreti legge
decaduti, nella parte in cui configuravano il termine di centottanta
giorni per la formazione del silenzio-assenso regionale
sull'approvazione degli strumenti urbanistici, dall'altro lato dando
rilievo anche al tempo eventualmente maturato nel periodo di vigenza
dei decreti legge reiterati. La Regione, inoltre, solo genericamente
lamenterebbe la lesione delle proprie attribuzioni, senza dedurre
alcuna specifica doglianza.
Quanto infine all'art. 55, comma 14, della legge n. 449,
l'Avvocatura, dopo avere ricordato che in attuazione della delega è
stato emanato il d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173, osserva, da un lato,
che la mancata espressa riserva delle competenze regionali non
potrebbe essere intesa come implicante la lesione delle stesse, il
cui rispetto andrebbe invece inteso come presupposto, come
confermerebbe anche la previsione del previo parere della Conferenza
Stato-Regioni nella emanazione del decreto legislativo. D'altro lato,
la maggior parte delle materie implicate dalla delega gli oneri
fiscali e previdenziali, i costi energetici e del denaro, i servizi
assicurativi all'esportazione e le procedure di utilizzo dei fondi
strutturali, pur riguardando l'agricoltura, esulerebbe dalla
competenza regionale.
Considerato in diritto
1. - I tre ricorsi proposti dalla Regione Piemonte, dalla
Regione Lombardia e dalla Regione Veneto investono disposizioni solo
parzialmente coincidenti della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure
per la stabilizzazione della finanza pubblica). Precisamente,
l'art. 49, comma 18, è impugnato dalle Regioni Piemonte e Veneto;
gli articoli 32, commi 2, 4, e 5, 34, comma 1, 37, 39, comma 19, 41,
comma 1, 43, 44, comma 4, 47, comma 1, 48, commi 1 e 5, sono
impugnati dalle Regioni Lombardia e Veneto; gli articoli 17, commi
10, 22 e 29, 18, 32, comma 15, 41, comma 3, e 55, comma 14, dalla
sola Regione Veneto; l'art. 48, comma 4, dalla sola Regione
Lombardia.
Stante la connessione oggettiva, i giudizi debbono essere riuniti
per essere decisi con unica pronunzia.
2. - In via preliminare, deve essere dichiarato inammissibile
l'intervento spiegato dal comune di Lonato nel giudizio instaurato
con il ricorso della Regione Piemonte, dal momento che la memoria è
stata depositata oltre il termine previsto dall'art. 23, terzo comma,
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale.
3. - Un primo gruppo di questioni riguarda disposizioni in
materia tributaria.
L'art. 17, comma 10, nello stabilire che la riscossione,
l'accertamento, nonché il recupero, i rimborsi, l'applicazione delle
sanzioni ed il contenzioso amministrativo relativi alle tasse
automobilistiche non erariali (oggetto di nuova disciplina
sostanziale contenuta nei commi 5, 6, 7, 9, 15 e 16 dello stesso
articolo) sono demandati alle Regioni a statuto ordinario, prevede
altresì che essi "sono svolti con le modalità stabilite con decreto
del Ministro delle finanze" sentita la Conferenza Stato-Regioni e
previo parere delle commissioni parlamentari competenti; e che con lo
stesso o con separato decreto "è approvato lo schema tipo di
convenzione con la quale le regioni possono affidare a terzi,
mediante procedure ad evidenza pubblica, l'attività di controllo e
riscossione delle tasse automobilistiche", mentre la riscossione
coattiva è svolta a norma della disciplina statale sulla riscossione
delle entrate patrimoniali dello Stato e di altri enti pubblici, di
cui al d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (ora abrogato dall'art. 68 del
d.lgs. 14 aprile 1999, recante "Riordino del servizio nazionale della
riscossione in attuazione della delega prevista dalla legge
28 settembre 1998, n. 337").
La ricorrente Regione Veneto afferma che tale disposizione,
pretendendo di imporre "un modello standardizzato di disciplina
dell'esercizio dell'autonomia tributaria regionale", eccederebbe
l'ambito delle "forme" e dei "limiti" dell'autonomia finanziaria
regionale determinati, ai sensi dell'art. 119, primo comma, della
Costituzione, dalla legge della Repubblica, e violerebbe altresì gli
articoli 117 e 118 della Costituzione disciplinando la materia
dell'ordinamento degli uffici regionali e compromettendo, senza
ragioni giustificative, l'autonomo e differenziato esercizio delle
funzioni amministrative regionali. L'illegittimità della
disposizione sarebbe aggravata dal fatto che la discrezionalità del
Ministro non sarebbe in alcun modo delimitata, e discenderebbe,
ancora, dalla circostanza che con essa si sarebbero affidati alla
Regione compiti onerosi senza la previsione della copertura
finanziaria, in violazione degli articoli 5, 117, 118 e 119 della
Costituzione.
4. - La questione è solo parzialmente fondata.
Non è illegittimo che il legislatore statale, nel momento in cui
trasferisce alle sole Regioni a statuto ordinario le funzioni
amministrative di accertamento e riscossione delle tasse
automobilistiche, soltanto di recente attribuite interamente alle
Regioni stesse (cfr. art. 23 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,
contenente "Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma
dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421") funzioni già
svolte dallo Stato (cfr. art. 25, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 504
del 1992) e nel momento in cui prevede nuove modalità di riscossione
di detti tributi (cfr. commi 11 e 12 dello stesso articolo 17 della
legge n. 449 del 1997), assicuri la continuità dell'attività di
riscossione, il raccordo dell'attività regionale con le nuove
modalità di riscossione disciplinate dalla legge, e il coordinamento
con l'attività di riscossione delle stesse tasse che rimane di
pertinenza statale (quanto alle Regioni speciali), mediante una
regolamentazione uniforme, destinata a valere peraltro solo fino a
quando non sopravvenga un'autonoma disciplina delle singole Regioni,
sempre rispettosa delle predette esigenze di raccordo e di
coordinamento. In tal senso in effetti dispone il d.m. 25 novembre
1998, n. 418, emanato in attuazione della disposizione impugnata:
l'art. 7 del decreto stabilisce che le disposizioni dello stesso
regolamento "trovano applicazione fino a quando le regioni non
provvedono ad emanare un'autonoma disciplina, che dovrà comunque
tenere conto delle esigenze di coordinamento con l'attività di
competenza dello Stato nella stessa materia", attribuendo dunque
un'efficacia "cedevole" alle altre disposizioni del regolamento. E
tale significato di autorizzazione all'emanazione di una normativa
statale transitoria e "cedevole" nei confronti della successiva
normativa regionale deve essere attribuito all'art. 17, comma 10,
primo periodo, della legge n. 449 del 1997, il quale, così inteso,
si sottrae alle prospettate censure di legittimità costituzionale.
5. - È costituzionalmente illegittima, invece, la previsione del
secondo periodo dello stesso comma, che demanda ad un decreto
ministeriale anche la definizione di uno schema tipo di convenzione
per l'affidamento a terzi, da parte della Regione, dell'attività di
controllo e riscossione delle tasse automobilistiche.
La disciplina di tali rapporti convenzionali si colloca
interamente entro l'ambito dell'organizzazione degli uffici
regionali, materia affidata alla competenza delle Regioni: in ordine
a tale disciplina, nessuna ragione unitaria o di coordinamento esige
l'imposizione di una normativa statale uniforme, ferma restando,
ovviamente, l'applicabilità dei principi e delle norme generali
sull'attività contrattuale delle Regioni. La previsione di uno
schema tipo di convenzione invade, pertanto, la sfera riservata
all'autonomia regionale.
6. - L'art. 17, comma 22, dopo avere stabilito che le tariffe
delle tasse automobilistiche destinate ad essere fissate, con nuovi
criteri, ai sensi del precedente comma 16 "devono fornire un gettito
equivalente a quello delle stesse tasse automobilistiche vigenti al
31 dicembre 1997", comprese le maggiorazioni già disposte
dall'art. 3, comma 154, della legge n. 549 del 1995, e
ulteriormente maggiorato di un importo pari a quello delle soppresse
addizionali e tasse speciali, del canone di abbonamento
all'autoradiotelevisione e relativa tassa di concessione, della tassa
sulle concessioni governative per le patenti di guida, nonché
dell'importo delle riduzioni di tariffa previste dal comma 5,
dispone, "corrispondentemente", la riduzione da lire 350 a lire 242
per litro della quota dell'accisa sulla benzina attribuita alle
Regioni ordinarie dall'art. 3, comma 12, della legge n. 549 del 1995.
Secondo la Regione Veneto tale ultima previsione sarebbe
illegittima in quanto mancherebbe la certezza delle maggiori entrate
compensative della riduzione della quota regionale dell'accisa.
7. - La questione non è fondata.
Le nuove tariffe delle tasse automobilistiche, devolute
interamente alle Regioni ordinarie, sono disciplinate in modo tale da
assicurare alle Regioni stesse un gettito superiore al passato,
perché compensativo anche del gettito di imposte soppresse, già di
pertinenza statale: e ciò anche senza tener conto della facoltà di
incremento delle stesse tasse, prevista a favore delle Regioni
dall'art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, e confermata, a
decorrere dall'anno 1999, dal comma 16, ultimo periodo, dello stesso
impugnato art. 17. A questo incremento di entrate corrisponde la
riduzione della quota della accisa sulla benzina, di spettanza delle
medesime Regioni ordinarie.
La censura di pretesa incertezza delle entrate a favore della
Regione non si fonda su alcun elemento oggettivo; i margini di
variabilità e di imprevedibilità dell'andamento del gettito sono
fisiologici in ogni tributo, e del resto sussistono anche per il
tributo l'accisa sulla benzina cui si riferisce la riduzione
disposta; ma non si può dire che la disciplina dettata dal
legislatore statale sia configurata in modo tale da esporre le
Regioni al rischio di una perdita di gettito. Senza dire che, come
questa Corte più volte ha statuito (cfr. sentenze nn. 123 del 1992 e
370 del 1993), la Costituzione non garantisce alle Regioni una
determinata quantità di risorse, ma solo il diritto a disporre di
risorse finanziarie che risultino complessivamente non inadeguate
rispetto ai compiti loro attribuiti; e, nella specie, tale
inadeguatezza certamente non si verifica.
8. - L'art. 17, comma 29, istituisce una tassa sulle emissioni di
anidride solforosa e di ossidi di azoto prodotte dai grandi impianti
di combustione (che vengono definiti nel terzo periodo dello stesso
comma).
La Regione lamenta che, pur trattandosi di una tassa
"ambientale", le Regioni non siano chiamate a compartecipare al
relativo gettito, e che questo non sia destinato ad interventi di
prevenzione o risanamento ambientale, in violazione dell'esigenza
costituzionale di tutela della salute della collettività.
9. - La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
L'esistenza di una competenza non esclusiva delle Regioni in
materia di tutela e di gestione dell'ambiente non ostacola, dal punto
di vista costituzionale, l'istituzione da parte dello Stato,
nell'esercizio della sua generale potestà impositiva, di tributi
che, per la materia imponibile colpita e per la loro disciplina,
possano definirsi "ambientali" nel senso che essi abbiano anche
effetti di incentivo o disincentivo di condotte, rispettivamente
favorevoli o pregiudizievoli per l'ambiente; né il gettito di tali
tributi deve necessariamente essere devoluto, in tutto o in parte,
alle Regioni.
Le censure mosse dalla Regione in ordine alla devoluzione e
all'impiego del gettito della nuova tassa si risolvono pertanto in
una critica politica alle scelte del legislatore statale, irrilevanti
nella sede del giudizio di costituzionalità.
Quanto infine al profilo concernente la violazione dell'art. 32
della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo
le Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità
costituzionale in via principale, la violazione di norme
costituzionali che non riguardino la propria sfera di competenza.
10. - L'art. 18 anch'esso impugnato dalla sola Regione Veneto
istituisce un'imposta, definita "erariale regionale", sulle emissioni
sonore derivanti dal traffico aereo, imposta che si aggiunge ai già
previsti diritti aeroportuali; la disciplina dell'entità del
tributo, commisurata alla rumorosità degli aeromobili, e della sua
riscossione è demandata ad un regolamento (peraltro non ancora
emanato). Il gettito dell'imposta sarà assegnato nell'anno
successivo "allo stato di previsione degli assessorati regionali per
essere destinato, con modalità stabilite dagli stessi assessorati, a
sovvenzioni e indennizzi alle amministrazioni e ai soggetti residenti
nelle zone limitrofe agli aeroscali".
La Regione lamenta che la disciplina del tributo, pur definito
"regionale", sia interamente rimessa allo Stato, e che la Regione non
sia coinvolta nemmeno nel procedimento di adozione del previsto
regolamento.
11. - La questione non è fondata.
Il nuovo tributo - fra l'altro incidente in materia, quella del
traffico aereo, di competenza statale è istituito come imposta
statale (cfr. sentenza n. 348 del 2000), e pertanto legittimamente se
ne demanda la disciplina ad atti normativi statali. La definizione di
imposta "regionale" sta solo ad indicare che il suo gettito, riscosso
nell'ambito della Regione in relazione al traffico aereo negli
aeroscali compresi nel rispettivo territorio, è devoluto alla
Regione medesima, per essere impiegato con vincolo di destinazione
alle finalità indicate dalla legge, ma con modalità rimesse alla
stessa Regione (il riferimento improprio agli "assessorati
regionali", nonché ai relativi "stati di previsione", non rileva in
questa sede, in quanto non è oggetto di specifica censura).
12. - Un secondo gruppo di disposizioni impugnate concerne
l'organizzazione del Servizio sanitario nazionale e la spesa
sanitaria.
L'art. 32 della legge reca "interventi di razionalizzazione della
spesa" sanitaria. In particolare, il comma 1 (non censurato) fissa,
in termini di percentuale della spesa degli anni precedenti, gli
obiettivi di risparmio sulla spesa per l'acquisizione di beni e
servizi da parte delle aziende sanitarie per il 1998. Il comma 2
prevede, nel caso di inadempimento da parte delle Regioni e delle
aziende sanitarie degli obblighi imposti per il contenimento della
spesa sanitaria, una riduzione, in misura non superiore al 3 per
cento, della quota di riparto del Fondo sanitario nazionale spettante
alla Regione. Le riduzioni sono proposte dal Ministro della sanità,
previo parere della Conferenza unificata Stato-Regioni e
Stato-città. Spetta alle Regioni individuare "le modalità per
l'attribuzione delle diverse responsabilità ai direttori generali,
ai dirigenti e al restante personale, per l'adempimento degli
obblighi derivanti alle aziende sanitarie" dalle disposizioni dello
stesso comma. Il comma 4 stabilisce che analoghe riduzioni, in questo
caso già previste dall'art. 1, comma 23, della legge n. 662 del 1996
nella misura dello 0,50 per cento della quota spettante, si
applichino a titolo di sanzione alle Regioni che entro il 31 marzo
1998 non abbiano dato attuazione agli strumenti di pianificazione
previsti dalla legge in materia di tutela della salute mentale e non
abbiano provveduto alla realizzazione delle strutture residenziali
necessarie per la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici. A
sua volta, il comma 5 prevede che le disponibilità del Fondo
derivanti dalle riduzioni effettuate ai sensi del comma 2 sono
utilizzate per il finanziamento di azioni di sostegno volte al
superamento degli ostacoli che hanno dato luogo alla inadempienza o
di progetti speciali di innovazione organizzativa e gestionale di
servizi per la tutela delle fasce deboli; e che le disponibilità
derivanti dalle riduzioni cui si riferisce il comma 4, ed altre
derivanti da minore spesa, siano utilizzate per la realizzazione di
quanto previsto dal progetto obiettivo "Tutela della salute mentale",
nonché, a titolo incentivante, a favore di aziende sanitarie che
abbiano attuato i programmi di chiusura degli ospedali psichiatrici.
Per le disponibilità derivanti dalle riduzioni di cui al comma 4, si
prevede che il Consiglio dei ministri, d'intesa con la Regione
interessata, attivi un potere sostitutivo con la nomina di commissari
regionali ad acta al fine di realizzare quanto previsto dal citato
progetto obiettivo. La quota dei fondi da attribuire alle Regioni ai
sensi di tale comma è determinata dal Ministro della sanità,
sentita la Conferenza Stato-Regioni.
I commi 2, 4 e 5 sono impugnati dalle Regioni Lombardia e Veneto.
In relazione al comma 2 i ricorsi lamentano che siano equiparate
l'inadempienza della Regione e quella delle aziende sanitarie; che
conseguentemente si preveda una sanzione finanziaria a carico della
Regione anche per l'inadempimento di una singola azienda, e si
facciano gravare irragionevolmente conseguenze negative su soggetti
pubblici e utenti incolpevoli; che non si preveda un procedimento
garantista e collaborativo per l'applicazione delle riduzioni, la
determinazione della cui entità sarebbe lasciata alla illimitata
discrezionalità del Ministro, salva la soglia massima del 3%, e
salvo il parere della Conferenza unificata. In relazione al comma 4,
si lamenta che il termine per gli adempimenti imposti sarebbe
irragionevolmente breve, e la sanzione irragionevolmente grave e non
proporzionata all'entità dell'inadempimento, ma rimessa ad una
determinazione eccessivamente discrezionale. In relazione al comma 5,
infine, si lamenta che si preveda l'assegnazione di fondi
direttamente alle aziende, saltando il livello della Regione; che si
attribuisca al Ministro una eccessiva discrezionalità in detta
assegnazione di fondi; che si istituisca un potere sostitutivo
"ibrido", del quale non sarebbe chiaro se si eserciti nei confronti
dell'azienda o della stessa Regione.
13. - Le questioni sono infondate.
Regioni e aziende sanitarie sono, a diverso titolo, coinvolte
nella responsabilità per il conseguimento degli obiettivi della
programmazione sanitaria e anche degli obiettivi di risparmio che il
legislatore statale - senza peraltro che su questo punto le Regioni
ricorrenti muovano alcuna contestazione - legittimamente stabilisce
nel quadro della politica di bilancio. Le aziende sono responsabili
della gestione dei rispettivi servizi e strutture; le Regioni sono
chiamate a programmare, fra l'altro, l'impiego delle risorse anche
attraverso la ripartizione del fondo sanitario regionale, ed a
esercitare poteri di indirizzo e di controllo sulle aziende.
Poiché lo Stato, dal punto di vista finanziario, intrattiene
rapporti diretti solo con la Regione, è logico che i meccanismi
sanzionatori sul piano finanziario volti ad incentivare un miglior
impiego delle risorse a livello locale si traducano in riduzioni
della quota regionale del fondo sanitario nazionale, restando in capo
alla Regione il compito e la responsabilità di utilizzare a sua
volta i propri poteri di riparto per trasferire la "sanzione" a
livello delle singole aziende, oltre che per azionare le
responsabilità dei direttori generali, dei dirigenti e del restante
personale, come espressamente è previsto dal comma 2 in esame.
Né si può dire che l'applicazione delle riduzioni sia lasciata
ad una totale discrezionalità del Ministro. In realtà, non solo le
proposte di riduzione delle quote del fondo sanitario sono formulate
dal Ministro previo parere della Conferenza unificata, nella quale
sono rappresentate sia le Regioni, sia le autonomie locali alle quali
le aziende sanitarie si collegano dal punto di vista territoriale: ma
le riduzioni debbono essere decise in sede di riparto del Fondo
sanitario nazionale, e quindi con il procedimento all'uopo previsto
dalla legge, che contempla una delibera del CIPE su proposta del
Ministro della sanità, sentita la Conferenza Stato-Regioni (art. 12,
comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, come sostituito dall'art. 14 del
d.lgs. n. 517 del 1993; si tratta peraltro di un meccanismo di
riparto destinato a venir meno a decorrere dall'anno 2001, con la
prevista cessazione dei trasferimenti erariali in favore delle
Regioni a statuto ordinario: art. 1, comma 1, lettera d del d.lgs.
18 febbraio 2000, n. 56). Nell'ambito di tale procedura partecipata,
gli inadempimenti ai quali il Ministro intenda far seguire le
riduzioni in parola dovranno essere individuati specificamente e
contestati alla Regione interessata, affinché questa possa
eventualmente far valere le proprie ragioni e giustificazioni.
L'entità della riduzione, a sua volta, non può essere decisa con
totale discrezionalità, poiché non solo deve essere rispettato il
limite massimo del 3 per cento, fissato dalla disposizione in esame,
ma, entro questo limite, deve essere commisurata al tipo e al grado
dell'inadempimento accertato.
Quanto alle riduzioni previste dal comma 4, a conferma ed
integrazione di quanto già stabilito dall'art. 1, comma 23, della
legge n. 662 del 1996, l'apparente brevità del termine imposto per
gli adempimenti (31 marzo 1998) si giustifica tenendo conto che si
tratta dell'osservanza di obblighi fondamentali quelli di
sostituzione delle vecchie strutture manicomiali con strutture e
servizi territoriali idonei a far fronte alle esigenze dei malati di
mente al di fuori di una logica di segregazione già previsti dalla
legge, a partire dalla riforma recata con la legge n. 180 del 1978, e
in parte articolati anche temporalmente dal progetto obiettivo
"Tutela della salute mentale" approvato, per il triennio 1994-96, con
d.P.R. 7 aprile 1994, dall'art. 3, comma 5, della legge n. 724 del
1994, che stabiliva la scadenza del 31 dicembre 1996 per la chiusura
dei residui ospedali psichiatrici, e successivamente dall'art. 1,
comma 20, della legge n. 662 del 1996, che stabiliva il termine del
31 gennaio 1997 per l'adozione di appositi strumenti di
pianificazione.
In questo caso, poi, l'entità della riduzione non è affatto
lasciata alla discrezione dell'esecutivo statale, poiché, al
contrario, essa è fissata dall'art. 1, comma 23, della legge n. 662
del 1996, cui il comma qui impugnato fa rinvio, nello 0,50 per cento
della quota del Fondo. Né ha pregio la censura di sproporzione della
sanzione rispetto alla possibile gravità dell'inadempimento,
trattandosi, come si è detto, di obiettivi da gran tempo imposti
alle Regioni, e potendosi d'altra parte applicare la riduzione, come
è ovvio, solo ad inadempimenti sostanziali e significativi.
Quanto al comma 5, deve precisarsi che le assegnazioni dei fondi
tratti dalle disponibilità in questione dovranno essere fatte non
già, direttamente, a favore delle aziende, ma sempre a favore delle
Regioni interessate alle quali sono assegnate le quote del Fondo
sanitario nazionale - perché esse a loro volta le destinino, con
vincolo finalistico, alle aziende sanitarie, volta a volta, dove
debbono attuarsi le azioni di sostegno, o i progetti speciali, o
debba trovare realizzazione quanto previsto dal progetto obiettivo, o
si verifichino le condizioni previste dalla disposizione in esame per
i finanziamenti a titolo incentivante, e cioè siano stati attuati i
programmi di chiusura degli ospedali psichiatrici. Così dovendosi
intendere la disposizione denunciata, essa si sottrae alle censure
mosse dalle ricorrenti.
I criteri imposti dalla legge per le predette assegnazioni di
fondi sono d'altra parte sufficientemente precisi, così da non dar
luogo a determinazioni arbitrarie o eccessivamente discrezionali
degli organi centrali.
In relazione, infine, al potere sostitutivo, mediante la nomina
di commissari ad acta per la realizzazione del progetto obiettivo
"Tutela della salute mentale", si deve osservare che esso, da un
lato, riguarda chiaramente solo le aziende sanitarie, e non la
Regione; ed è attivato, dall'altro lato, mediante intesa fra il
Ministro e la Regione interessata, della quale, pertanto, risultano
salvaguardate le attribuzioni, tenendo anche conto che si tratta di
adempimenti (quelli previsti dal progetto obiettivo) da tempo
stabiliti su base nazionale in vista della tutela del diritto alla
salute nel campo, particolarmente delicato e importante, della salute
mentale.
14. - È impugnato, dalla sola Regione Veneto, anche il comma 15
dell'art. 32, ai sensi del quale "le regioni, nell'ambito della quota
del Fondo sanitario nazionale ad esse destinata, autorizzano,
d'intesa con il Ministero della sanità, le aziende unità sanitarie
locali e le aziende ospedaliere ad erogare prestazioni che rientrino
in programmi assistenziali approvati dalle regioni stesse, per alta
specializzazione", a favore di "cittadini provenienti da Paesi
extracomunitari nei quali non esistono o non sono facilmente
accessibili competenze medico-specialistiche per il trattamento di
specifiche gravi patologie e non sono in vigore accordi di
reciprocità relativi all'assistenza sanitaria", nonché di
"cittadini di Paesi la cui particolare situazione contingente non
rende attuabili, per ragioni politiche, militari o di altra natura,
gli accordi eventualmente esistenti con il Servizio sanitario
nazionale per l'assistenza sanitaria".
Secondo la ricorrente si attribuirebbero così nuovi compiti alla
Regione senza corrispondente aumento di risorse, e si
pregiudicherebbe il diritto costituzionale alla salute. Sarebbe
violato altresì il principio di cui all'art. 97 della Costituzione.
15. - La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
Le prestazioni in discorso, a favore di cittadini stranieri che
non avrebbero altrimenti titolo all'assistenza da parte del Servizio
sanitario nazionale, non solo debbono essere comprese fra quelle
rientranti in programmi assistenziali approvati dalla Regione, ma
sono oggetto di specifica autorizzazione della stessa Regione, sia
pure rilasciata d'intesa con il Ministro: ciò significa che la
semplice determinazione ministeriale non basta, se non vi è anche il
consenso della Regione. Autorizzazione che, peraltro, la Regione
rilascia "nell'ambito della quota del Fondo sanitario nazionale" ad
essa spettante, e dunque avendo riguardo anche alle risorse
disponibili.
Si può inoltre ricordare che, in base all'art. 34 della
(sopravvenuta) legge 6 marzo 1998, n. 40, in seguito trasfuso
nell'art. 36 del testo unico approvato con d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286, le spese sostenute dalle aziende sanitarie a favore di
stranieri cui viene rilasciato il permesso di soggiorno per cure
mediche nell'ambito dei programmi umanitari definiti ai sensi
dell'art. 12, comma 2, lettera c del d.lgs. n. 502 del 1992, come
modificato dal d.lgs. n. 517 del 1993, previa autorizzazione del
Ministero della sanità, d'intesa con quello degli esteri, sono
rimborsate "tramite le Regioni" e fanno carico al Fondo sanitario
nazionale: i relativi trasferimenti a favore della Regione sono fra
quelli esclusi dalla cessazione prevista dall'art. 1 del d.lgs. n. 56
del 2000 (cfr. art. 1 cit., comma 2).
Quanto infine ai profili concernenti la violazione degli artt. 2,
32 e 97 della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non
essendo le Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di
legittimità costituzionale in via principale, la violazione di norme
costituzionali che non riguardino la propria sfera di competenza.
16. Le Regioni Lombardia e Veneto impugnano il comma 1
dell'art. 34, che prevede l'inquadramento nel primo livello
dirigenziale degli specialisti ambulatoriali già operanti con
rapporto convenzionale, e che siano in possesso di determinati
requisiti di età e di durata oraria dell'incarico già ricoperto.
Secondo le ricorrenti tale norma sarebbe illegittima in quanto
genererebbe un aggravio di spesa a loro carico, senza provvedere a
porre a loro disposizione le risorse necessarie. Sarebbero violati
altresì i principi di cui agli artt. 32 e 97 della Costituzione.
17. - La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
Premesso che rientra nell'ambito dei principi stabiliti dalla
legislazione statale definire il regime dei rapporti con il Servizio
sanitario nazionale degli specialisti che in esso operano, e che
della relativa spesa si tiene conto in sede di determinazione della
misura del Fondo sanitario nazionale, va osservato che la norma
impugnata affida alle Regioni il compito di individuare "aree di
attività specialistica con riferimento alle quali, ai fini del
miglioramento del servizio", si prevedono gli inquadramenti in
questione: onde non è sottratta alle Regioni stesse - che dispongono
inoltre di ampi poteri sull'organizzazione dei servizi - la
possibilità di decidere in ordine all'entità e al tempo degli
inquadramenti medesimi. Né, del resto, le Regioni ricorrenti hanno
dato dimostrazione adeguata della formazione, per effetto della
stessa norma, di un onere supplementare eccedente le risorse
attribuite al Servizio.
Quanto ai profili concernenti la violazione degli artt. 32 e 97
della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo
le Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità
costituzionale in via principale, la violazione di norme
costituzionali che non riguardino la propria sfera di competenza.
18. - L'art. 37, anch'esso censurato dalle Regioni Lombardia e
Veneto, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale "fornisce a
titolo gratuito la protesi mammaria esterna alle assistite che ne
facciano richiesta, dietro presentazione di idonea documentazione
dell'intervento di mastectomia sia monolaterale che bilaterale".
Anche in questo caso la censura si fonda sull'assunto che verrebbe
imposto un nuovo onere senza prevedere le relative risorse, con
pregiudizio del diritto alla salute. Sarebbe violato altresì il
principio di cui all'art. 97 della Costituzione.
19. - La questione è in parte infondata, in parte inammissibile.
Stabilire quali siano le prestazioni minime cui hanno diritto gli
assistiti dal Servizio sanitario nazionale è compito specifico della
legislazione e della programmazione statali, ed è in rapporto a tali
prestazioni che viene determinata la dimensione finanziaria del Fondo
sanitario nazionale (cfr. artt. 1 e 12, comma 3, del d.lgs.
30 dicembre 1992, n. 502). Del resto la fornitura della protesi
mammaria alle assistite mastectomizzate era già prevista,
nell'ambito della disciplina delle protesi "dirette al recupero
funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche,
psichiche e sensoriali" (cfr. art. 2, numero 1, e allegato A, voce
30., "Protesi fisiognomiche", del d.m. 28 dicembre 1992, in seguito
sostituito dal regolamento approvato con d.m. 27 agosto 1999, n. 332:
cfr. l'art. 2, lettera d), onde la portata della norma in esame
appare essenzialmente quella di affermare il diritto delle assistite,
che hanno subito l'intervento, alla fornitura della protesi, anche
indipendentemente dalle procedure di riconoscimento della
invalidità.
Da ultimo, peraltro, il comma 7 dell'art. 8-sexies del d.lgs.
n. 502 del 1992, introdotto dall'art. 8 del d.lgs. n. 229 del 1999,
affida la disciplina delle modalità di erogazione e di remunerazione
dell'assistenza protesica, compresa nei livelli essenziali di
assistenza di cui all'art. 1 dello stesso d.lgs. n. 502, ad un
decreto del Ministro della sanità emanato d'intesa con la Conferenza
Stato-Regioni.
Quanto infine ai profili concernenti la violazione degli artt. 2,
32 e 97 della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non
essendo le Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di
legittimità costituzionale in via principale, la violazione di norme
costituzionali che non riguardino la propria sfera di competenza.
20. - Un terzo gruppo di questioni investe disposizioni della
legge impugnata in materia di personale e di disciplina
dell'attività amministrativa.
L'art. 39 della legge prevede, al comma 1, che gli organi di
vertice delle amministrazioni pubbliche sono tenuti alla
programmazione triennale del fabbisogno di personale. I successivi
commi dal 2 al 18 dello stesso articolo dettano una disciplina
specifica, valida per le amministrazioni statali, in tema di
assunzioni e di passaggio di personale a determinati servizi ed
uffici.
Le Regioni Lombardia e Veneto impugnano il comma 19 dello stesso
art. 39, il quale stabilisce che le Regioni e gli enti del Servizio
sanitario nazionale (nonché altri enti dotati di autonomia)
"adeguano i propri ordinamenti ai principi di cui al comma 1
finalizzandoli alla riduzione programmata delle spese di personale".
Secondo le ricorrenti, tale norma sarebbe illegittima in quanto
equiparerebbe indebitamente le Regioni ad enti con diversa posizione
costituzionale, e generalizzerebbe misure di contenimento del
personale ammesse in passato dalla giurisprudenza di questa Corte
solo in quanto temporanee e transitorie.
21. - La questione non è fondata.
Stabilire che anche le amministrazioni regionali debbano
conformare la propria attività ai principi della programmazione del
fabbisogno di personale e del contenimento della spesa di personale
rientra certamente nella potestà del legislatore statale ai sensi
del primo comma dell'art. 117 della Costituzione. E la disposizione
in questione non va al di là di siffatta statuizione, limitandosi a
richiedere alle Regioni di adeguarsi a tali principi, senza imporre
modalità o misure specifiche né obiettivi quantitativamente
determinati.
Né ha pregio la censura secondo cui le Regioni sarebbero
indebitamente equiparate ad enti diversamente considerati dalla
Costituzione. Ciò che conta è che il legislatore statale,
nell'imporre obblighi alle Regioni, non varchi i limiti ad esso
consentiti dalla Costituzione stessa, in particolare dagli articoli
117 e 119. Non è certo vietato al legislatore statale attribuire ad
amministrazioni diverse da quelle regionali, nell'ambito dei
rispettivi ordinamenti, forme di autonomia simili a quelle garantite
alle Regioni dalle norme costituzionali, né fissare in proposito
principi comuni vincolanti.
22. - L'art. 41, comma 1, della legge impugnata stabilisce che
"al fine di conseguire risparmi di spesa e recuperi di efficienza nei
tempi dei procedimenti amministrativi, l'organo di direzione politica
responsabile, con provvedimento da emanare entro sei mesi dall'inizio
di ogni esercizio finanziario, individua i comitati, le commissioni,
i consigli ed ogni altro organo collegiale con funzioni
amministrative ritenuti indispensabili per la realizzazione dei fini
istituzionali dell'amministrazione o dell'ente interessato"; e
aggiunge che "gli organismi non identificati come indispensabili sono
soppressi a decorrere dal mese successivo all'emanazione del
provvedimento" e "le relative funzioni sono attribuite all'ufficio
che riveste preminente competenza nella materia".
Secondo le Regioni ricorrenti si avrebbe ancora una volta una
indebita equiparazione delle Regioni ad enti non dotati di autonomia
costituzionalmente garantita; inoltre, attribuendo la competenza ad
adottare il provvedimento in questione all'organo di direzione
politica responsabile, si violerebbe l'autonomia organizzativa della
Regione.
23. - La questione non è fondata.
La disposizione in esame va intesa nel senso che essa opera nei
confronti delle Regioni solo come principio direttivo per la
legislazione regionale, vincolandole a prevedere forme di
semplificazione dell'organizzazione e in ispecie a provvedere alla
soppressione degli organismi superflui, con quelle finalità di
risparmio e di efficienza che legittimamente il legislatore statale
può imporre alle Regioni. Non si applica dunque direttamente alle
amministrazioni regionali la previsione secondo la quale sono di
diritto soppressi gli organismi diversi da quelli individuati con
apposito provvedimento, essendo la conservazione o la soppressione di
organismi ed uffici della Regione rimessa alla disciplina dettata
dalla legge regionale.
Così intesa, la disposizione non è dunque lesiva dell'autonomia
delle Regioni. Quanto poi alla lamentata equiparazione delle Regioni
ad altri enti, vale quanto si è appena osservato a proposito
dell'art. 39, comma 19; mentre l'indicazione della competenza dell'
"organo di direzione politica responsabile" solo genericamente
individuato non eccede l'ambito del principio, vincolante anche per
le Regioni, di distinzione fra organi di direzione politica e organi
di gestione, definito dall'art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, e ancor
prima dall'art. 2, comma 1, lettera g numero 1, della legge n. 421
del 1992.
24. - La sola Regione Veneto impugna altresì il comma 3 dello
stesso art. 41, ai cui sensi "l'attribuzione di trattamenti economici
al personale contrattualizzato può avvenire esclusivamente in sede
di contrattazione collettiva. Dall'entrata in vigore del primo
rinnovo contrattuale cessano di avere efficacia le disposizioni di
leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che recano
incrementi retributivi al personale contrattualizzato. I trattamenti
economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti dai futuri
miglioramenti nella misura prevista dai contratti collettivi. I
risparmi di spesa che ne conseguono incrementano le risorse
disponibili per i contratti collettivi. Il presente comma non si
applica al personale delle Forze armate, delle Forze di polizia e dei
Vigili del fuoco".
Secondo la ricorrente tale disposizione inciderebbe
sull'autonomia della Regione in ordine al trattamento del proprio
personale e all'organizzazione dei propri uffici, con una misura
organizzativa priva dei caratteri di urgenza e di provvisorietà.
25. - La questione non è fondata.
La norma in esame non fa che trarre le conseguenze del principio
legislativo costituente principio fondamentale vincolante per le
Regioni (cfr. in proposito sentenza n. 352 del 1996) secondo cui i
rapporti di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni con
le sole eccezioni stabilite dalla legge dello Stato sono disciplinati
dalle disposizioni codicistiche e dalle leggi sul lavoro subordinato
nel settore privato, e i rapporti individuali di lavoro sono regolati
contrattualmente (art. 2, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 29 del 1993):
onde, in particolare, il trattamento economico, che è materia non
riservata alla legge ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera c della
legge n. 421 del 1992, è disciplinato esclusivamente dai contratti
collettivi e da quelli individuali.
Non si tratta dunque di sancire una impropria prevalenza del
contratto collettivo sulla legge regionale nell'ambito del sistema
delle fonti, ma della piana e logica conseguenza del sistema,
stabilito con efficacia anche nei confronti delle Regioni dal
legislatore statale, del rapporto di lavoro pubblico assimilato a
quello privato e contrattualizzato. Se la legge regionale potesse,
ciò nonostante, continuare a disporre l'attribuzione ai dipendenti
delle Regioni di trattamenti economici, che verrebbero a sovrapporsi
o ad aggiungersi a quelli previsti dai contratti collettivi, l'intero
sistema in questione verrebbe evidentemente compromesso con riguardo
al comparto dei dipendenti regionali.
La regola, secondo cui il trattamento economico è definito in
modo vincolante in sede di accordi collettivi, e le disposizioni di
legge preesistenti, recanti attribuzione di trattamenti economici,
cessano di operare a seguito della stipulazione dei medesimi accordi,
era già stata sancita dal legislatore statale allorquando, con la
legge quadro sul pubblico impiego, si era definito il sistema della
disciplina "in base ad accordi" (cfr. art. 3 della legge n. 93 del
1983). Essa è stata ripresa dal legislatore statale allorché ha
realizzato la cosiddetta privatizzazione e la contrattualizzazione
dei rapporti di impiego pubblico. Già nell'art. 2, comma 2-bis del
d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall'art. 2 del d.lgs.
n. 546 del 1993, si stabiliva che nelle materie non soggette a
riserva di legge (e quindi anche in materia di trattamenti economici)
"eventuali norme di legge, intervenute dopo la stipula di un
contratto collettivo, cessano di avere efficacia, a meno che la legge
[statale] non disponga espressamente in senso contrario, dal momento
in cui entra in vigore il successivo contratto collettivo". Più di
recente, successivamente alla legge impugnata, tale regola è stata
sancita, in termini pressoché identici a quelli della disposizione
qui in esame, dal nuovo comma 3 dell'art. 2 del d.lgs. n. 29 del
1993, come sostituito dall'art. 2 del d.lgs. n. 80 del 1998.
26. - È impugnato altresì, dalle Regioni Lombardia e Veneto,
l'art. 43. Più specificamente (e in questo senso la questione deve
essere precisata), è censurato il comma 3 di tale articolo, ai sensi
del quale, ai fini di cui al comma 1 vale a dire "al fine di favorire
l'innovazione dell'organizzazione amministrativa e di
realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei
servizi prestati", "le amministrazioni pubbliche possono stipulare
convenzioni con soggetti pubblici o privati dirette a fornire, a
titolo oneroso, consulenze o servizi aggiuntivi rispetto a quelli
ordinari. Il 50 per cento dei ricavi netti, dedotti tutti i costi,
ivi comprese le spese di personale, costituisce economia di bilancio.
Le disposizioni attuative del presente comma, che non si applica alle
amministrazioni dei beni culturali ed ambientali e dello spettacolo,
sono definite ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge
23 agosto 1988, n. 400", cioè con regolamenti governativi.
Ad avviso delle ricorrenti tale norma sarebbe incompatibile con
l'autonomia finanziaria, legislativa ed amministrativa regionale.
La disposizione in esame risulta ora abrogata dall'art. 6, comma
5, lettera m della legge 31 marzo 2000, n. 78, a decorrere
dall'entrata in vigore dei regolamenti previsti dal comma 4 dello
stesso articolo: abrogazione di cui, peraltro, non è chiaro se abbia
portata generale, atteso che tale articolo 6 contiene unicamente
"disposizioni per l'Amministrazione della pubblica sicurezza e per
alcune attività delle Forze di polizia e delle Forze armate".
27. - La questione non è fondata.
Anche la disposizione in oggetto deve intendersi nel senso che
essa trova applicazione nei confronti delle Regioni solo in quanto
pone un principio, peraltro di contenuto facoltizzante, per la
legislazione regionale. Essa non si applica direttamente alle
amministrazioni regionali, che sono disciplinate dalle leggi
regionali, e non sono soggette, in linea di principio, alla
disciplina dettata con i regolamenti governativi cui ivi si fa
rinvio; in particolare non si applica alle Regioni la clausola per
cui il 50 per cento dei ricavi netti delle prestazioni di cui è
parola "costituisce economia di bilancio".
Intesa in questi termini, la disposizione impugnata non può
ritenersi lesiva dell'autonomia regionale.
28. - L'articolo 44 della legge, al comma 4, stabilisce che "le
disposizioni dell'articolo 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59, si
applicano altresì alle trasformazioni delle strutture, anche a
carattere aziendale, delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993,
n. 29".
Tra queste ultime sono comprese le amministrazioni regionali.
L'art. 14 della legge n. 59, a sua volta, detta i criteri direttivi
cui doveva attenersi il Governo nell'esercitare la potestà
legislativa delegata ai fini del riordino degli enti nazionali,
prevista dall'art. 11, comma 1, lettera b della stessa legge n. 59
del 1997: criteri che prevedono la fusione o la soppressione di enti
con finalità omologhe o complementari, o la trasformazione degli
enti per i quali l'autonomia non sia necessaria o funzionalmente
utile; la trasformazione in associazioni o in persone giuridiche di
diritto privato degli enti per i quali non è necessaria la
personalità di diritto pubblico, e in enti pubblici economici o in
società di diritto privato di quelli "ad alto indice di autonomia
finanziaria"; nonché l'adozione di principi di omogeneità di
organizzazione, di razionalizzazione ed omogeneizzazione dei poteri
di vigilanza, di contenimento delle spese di funzionamento, di
programmazione.
Secondo le ricorrenti lo Stato potrebbe in tal modo imporre
soppressioni, fusioni o trasformazioni, o altre prescrizioni
organizzative, nei confronti di strutture regionali, omettendo
procedure di raccordo, e comprimendo l'autonomia organizzativa
regionale. Ciò varrebbe anche se si dovesse intendere la norma come
recante principi fondamentali di legislazione.
29. - La questione non è fondata.
La disposizione in esame non estende né rinnova alcuna delega al
Governo, diversa da quella, per il riordino degli enti nazionali, per
la quale l'art. 14 della legge n. 59 del 1997 dettava i criteri e
principi direttivi. Nei confronti delle Regioni essa dunque non può
avere altro senso se non quello di stabilire principi per la
rispettiva legislazione, alla quale spetta disciplinare la sorte
degli enti e delle strutture regionali.
Intesa la disposizione in questo senso, non ne deriva alcuna
lesione dell'autonomia regionale, poiché i criteri in questione
hanno portata generale e non valicano la sfera di ciò che la legge
statale può stabilire come principio fondamentale vincolante per le
Regioni.
30. - Un quarto gruppo di questioni investe talune disposizioni
della legge impugnata in materia di disciplina dei flussi finanziari.
L'art. 47, comma 1, stabilisce che, "al fine di ridurre le
giacenze degli enti soggetti all'obbligo di tenere le disponibilità
liquide nelle contabilità speciali o in conto corrente con il
Tesoro, i pagamenti a carico del bilancio dello Stato vengono
effettuati al raggiungimento dei limiti di giacenza che, per
categorie di enti, vengono stabiliti con decreto del Ministro del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica in misura
compresa tra il 10 e il 20 per cento dell'entità dell'assegnazione
di competenza" (seguono alcune previsioni specifiche concernenti gli
enti locali).
Secondo le Regioni ricorrenti sarebbe violata la riserva di legge
di cui all'art. 119 della Costituzione; le Regioni sarebbero
indebitamente equiparate ad altri enti, e si limiterebbe l'autonomia
regionale introducendo elementi di incertezza e di imprevedibilità
nella gestione. Infine, non sarebbe chiaro quale sia la "assegnazione
di competenza" delle Regioni sulla quale si commisura il limite di
giacenza.
31. - La questione non è fondata.
Le Regioni, come altri enti pubblici, sono assoggettate al
sistema della cosiddetta tesoreria unica, previsto dal legislatore
statale (legge 29 ottobre 1984, n. 720, e successive modifiche e
integrazioni) al fine di evitare la necessità per il Tesoro di
accrescere il livello di indebitamento per procurarsi risorse che,
trasferite ad altri enti del c.d. settore pubblico allargato,
potrebbero restare in giacenza presso le rispettive tesorerie, prima
che gli enti medesimi le utilizzino per erogare le proprie spese. A
tale scopo gli enti autonomi sono soggetti a limitazioni in ordine
alle disponibilità liquide che essi possono detenere presso il
sistema bancario, e la facoltà di effettuare nuovi prelievi dai
conti presso il Tesoro è subordinata al rispetto di detti limiti.
Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare tale sistema
sotto il profilo della legittimità costituzionale, affermando che
esso non è lesivo dell'autonomia costituzionalmente garantita alle
Regioni sino a quando esso non si trasformi in un mezzo improprio di
controllo sulla spesa regionale: ciò non accade se resta fermo il
diritto delle Regioni di disporre delle risorse loro assegnate per
effettuare le spese autonomamente da esse decise (cfr. sentenze
nn. 412 del 1993 e 171 del 1999). Il sistema è ora in via di
parziale superamento, anche attraverso l'attuazione di una
sperimentazione, mirandosi ad escludere gradualmente le entrate
proprie degli enti dall'obbligo di versamento nei conti presso il
Tesoro, ma stabilendo l'obbligo per gli enti di utilizzare, ai fini
delle rispettive esigenze di spesa, dette entrate proprie con
priorità rispetto alle risorse trasferite dal bilancio dello Stato,
e prevedendo la modulazione dei pagamenti statali a favore degli enti
in relazione all'esaurimento delle disponibilità esistenti sui conti
presso il Tesoro (cfr. artt. 7, 8 e 9 del d.lgs. 7 agosto 1997,
n. 279).
La disposizione qui impugnata non innova sostanzialmente a detto
sistema, limitandosi a prevedere limiti di giacenza delle
disponibilità nei conti presso il Tesoro, cui vengono subordinati i
pagamenti a carico del bilancio dello Stato e a favore degli enti
autonomi, comprese le Regioni: senza che da ciò derivino vincoli
impropri a carico delle Regioni quanto all'utilizzo delle risorse ad
esse assegnate.
Non è violata la riserva di legge di cui all'art. 119 della
Costituzione, poiché la disposizione in esame detta una disciplina
precisa e fissa i limiti, minimo e massimo, delle giacenze, entro i
quali il Ministro del Tesoro è abilitato a stabilire la soglia cui
è subordinata l'erogazione dei pagamenti statali: onde la
discrezionalità del Ministro si esercita entro confini
ragionevolmente delimitati.
Né può dirsi che si introducano così elementi di incertezza:
al contrario il decreto del Ministro deve stabilire un limite preciso
di giacenza (fissato per il 1998 e per il 1999 nel 14 per cento: cfr.
art. 1 del d.m. Tesoro 16 gennaio 1998, e art. 1 del d.m. Tesoro
4 marzo 1999). Del pari non sussiste incertezza circa la base cui si
commisura il limite di giacenza: la legge si riferisce alla
"assegnazione di competenza", cioè all'importo complessivo delle
somme assegnate alla Regione e destinate ad essere trasferite ad essa
dal bilancio dello Stato (cfr. infatti l'art. 1, comma 2, dei due
decreti ministeriali citati, che precisa i capitoli del bilancio
dello Stato cui le assegnazioni si riferiscono).
Nemmeno infine, per le ragioni già dette (sopra, n. 21), può
costituire fondato motivo di censura la circostanza che la disciplina
in esame riguardi le Regioni al pari di altri enti dotati di autonomo
bilancio, ed egualmente destinatari di trasferimenti da parte dello
Stato.
32. - Dell'art. 48 sono impugnati i commi 1, 4 (solo dalla
Regione Lombardia), e 5.
Il comma 1 stabilisce che "il sistema delle autonomie regionali e
locali concorre alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica per il triennio 1998-2000 garantendo che il fabbisogno
finanziario da esso complessivamente generato nel 1998, non
considerando la spesa sanitaria nonché la spesa relativa a nuove
funzioni acquisite a seguito di trasferimento o delega di funzioni
statali nel corso degli anni 1997 e seguenti, non sia superiore a
quello rilevato a consuntivo per il 1997 e che per gli anni 1999 e
2000 non sia superiore a quello dell'anno precedente maggiorato in
misura pari al tasso programmato di inflazione. Per la spesa
sanitaria il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica, d'intesa con il Ministro della sanità, procede al
monitoraggio dei relativi pagamenti allo scopo di verificare che gli
stessi non eccedano quelli effettuati nell'anno precedente
incrementati del tasso programmato d'inflazione; dell'esito viene
data informazione alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano".
I commi 2 e 3 affidano alle Conferenze Stato-Regioni e
Stato-città e autonomie locali il compito di stabilire i criteri
operativi per il computo del fabbisogno e le procedure per il
monitoraggio degli andamenti mensili del medesimo, rispettivamente
per le Regioni e per gli enti locali.
Il comma 4 prevede che, "nel caso che si sviluppino andamenti del
fabbisogno incompatibili con gli obiettivi di cui al comma 1", la
Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza Stato-città e autonomie
locali, secondo le rispettive competenze, "propongono le iniziative
da assumere, ivi compresa la eventuale introduzione di vincoli sugli
utilizzi delle disponibilità esistenti sui conti di tesoreria unica
da disporre con decreti del Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica".
Il comma 5, a sua volta, stabilisce che "in attesa delle
indicazioni delle predette Conferenze e della adozione delle relative
misure, le regioni e gli enti locali interessati sospendono i
pagamenti ad eccezione di quelli che possono arrecare danni
patrimoniali all'ente o a soggetti che intrattengono con l'ente
rapporti giuridici e negoziali".
Anche queste disposizioni sono censurate in quanto inciderebbero
sull'autonomia regionale ed equiparerebbero indebitamente le Regioni
ad altri enti. Si lamenta, poi, l'intrinseca irragionevolezza della
disciplina: a proposito del comma 5, in particolare, non si
capirebbe, secondo le ricorrenti, quale titolo di pagamento possa
sussistere a favore di terzi in assenza di un rapporto giuridico o
negoziale.
33. - È infondata la questione relativa al comma 1. Stabilire
obiettivi globali di contenimento del fabbisogno finanziario generato
dalla spesa regionale, nell'ambito e ai fini degli obiettivi generali
di finanza pubblica fissati dagli strumenti della programmazione
finanziaria nazionale, rientra nell'ambito dei compiti di
coordinamento della finanza pubblica che l'art. 119 della
Costituzione attribuisce alla legge della Repubblica.
Del pari infondata è la questione che investe il comma 4. Il
potere, nel caso di andamenti incompatibili con gli obiettivi, di
proporre misure di ordine finanziario per assicurare il conseguimento
di questi ultimi, è infatti demandato alla Conferenza Stato-Regioni,
e cioè alla massima sede di coordinamento fra Governo nazionale e
Governi regionali: ad essa è demandato anche di stabilire i criteri
per la rilevazione dell'andamento del fabbisogno, a cui si collegano
le eventuali misure nel caso di andamenti incompatibili con gli
obiettivi. Le Regioni non sono dunque soggette a provvedimenti
unilaterali, ma concorrono responsabilmente con il Governo alla
definizione delle misure necessarie. Il contenuto di queste ultime
non è precisato, se non col riferimento alla eventuale introduzione
di vincoli sugli utilizzi delle disponibilità esistenti sui conti di
tesoreria unica. Tali vincoli inciderebbero bensì sulla capacità di
spesa delle Regioni: tuttavia, dato il carattere generale dei
medesimi, e lo stretto collegamento con gli obiettivi globali di
finanza pubblica e col rispetto del limite di fabbisogno
espressamente stabilito dal comma 1 del medesimo art. 48, la
previsione in esame appare rispettosa dei principi costituzionali;
mentre l'imposizione eventuale di altre misure, che fossero, per il
loro contenuto, lesive dell'autonomia finanziaria regionale, potrebbe
sempre essere contrastata dalle Regioni interessate con gli opportuni
strumenti, ivi compreso il conflitto di attribuzioni.
34. - Fondata è invece la questione che investe il comma 5. Una
misura drastica quale l'obbligatoria sospensione dei pagamenti, sia
pure con l'eccezione (la cui portata non appare facilmente
precisabile) di quelli la cui omissione potrebbe causare danni
patrimoniali all'ente o ad altri soggetti, incide in modo
irragionevolmente severo sull'autonomia di spesa degli enti, operando
su procedimenti di spesa già avviati: mal si concilia dunque con lo
status costituzionale delle Regioni.
Il comma 5 deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo nella parte riguardante le Regioni e le Province autonome
di Trento e Bolzano.
35. - Sono, infine, impugnate due disposizioni concernenti
materie specifiche: l'art. 49, comma 18, in materia di urbanistica, e
l'art. 55, comma 14, in materia di agricoltura.
L'art. 49, comma 18, è impugnato dalle Regioni Piemonte (il cui
ricorso ha per oggetto solo questa disposizione) e Veneto. Esso
stabilisce che "sono considerati validi gli strumenti urbanistici
già intesi approvati a seguito dell'applicazione, da parte degli
enti che li hanno adottati, delle procedure del silenzio assenso
previste" da una serie di decreti legge (non convertiti in legge), "i
cui effetti sono fatti salvi ai sensi dell'articolo 2, comma 61,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662"; e che "ai fini della presente
disposizione, il termine di centottanta giorni previsto [dai decreti
legge predetti] per la formazione del silenzio assenso, non maturato
nel periodo di vigenza del singolo decreto legge, si intende
raggiunto nel periodo di vigenza dei successivi decreti legge".
La disposizione in esame violerebbe anzitutto, secondo entrambe
le Regioni ricorrenti, l'art. 77, terzo comma, secondo periodo, della
Costituzione, perché pretenderebbe di estendere la portata della
sanatoria degli effetti dei decreti legge non convertiti al di là di
quanto previsto da detta norma costituzionale; e, secondo la Regione
Veneto, l'art. 77, secondo comma, della Costituzione, perché,
pretendendo di "saldare" a posteriori tra di loro i decreti legge
succedutisi nel tempo, contrasterebbe con il limite temporale della
provvisoria efficacia del decreto legge in attesa di conversione.
Inoltre, secondo la Regione Piemonte, sarebbero violati l'art. 9
della Costituzione e le competenze regionali in materia urbanistica,
in particolare perché al silenzio in siffatta materia, spettante
alla competenza della Regione solo la legge regionale potrebbe
attribuire un significato concludente, quale si verifica col
silenzio-assenso.
La Regione Veneto, a sua volta, lamenta altresì la violazione
dell'art. 24 della Costituzione, in riferimento agli artt. 5, 117 e
118, perché la Regione che non aveva a suo tempo interesse ad
impugnare i decreti legge, per l'impossibilità che l'effetto di
approvazione degli strumenti urbanistici, proprio del
silenzio-assenso, si producesse entro il termine di efficacia, di
sessanta giorni, proprio di ciascuno dei decreti si vedrebbe oggi
preclusa la possibilità di dolersi nei confronti dei decreti legge
medesimi, ormai decaduti, ma che verrebbero "resuscitati" dalla
disposizione in esame; nonché la violazione dell'art. 3 della
Costituzione, sempre in riferimento agli artt. 5, 117 e 118, per
l'irrazionalità interna che si manifesterebbe nell'affermare che
sono considerati validi gli strumenti urbanistici "già intesi
approvati" a seguito dell'applicazione dei decreti legge non
convertiti, riconoscendo contemporaneamente la necessità di una
"saldatura" fra i decreti, proprio al fine di determinare l'effetto
dell'approvazione per silenzio-assenso.
36. - La questione è fondata.
I decreti legge in questione, succedutisi con continuità fra il
1994 e il 1996, e tutti decaduti, stabilivano, con disposizioni
pressoché identiche, che l'approvazione da parte della Regione degli
strumenti urbanistici fosse da intendersi avvenuta - in base ad un
meccanismo di silenzio-assenso - alla scadenza del termine di
centottanta giorni dalla loro trasmissione da parte dell'ente
territoriale che li aveva adottati. L'art. 2, comma 61, della legge
n. 662 del 1996, dopo la decadenza dell'ultimo decreto legge della
"catena", non più reiterato, e senza riprendere la norma da essi
provvisoriamente introdotta, ha fatto salvi gli effetti prodotti dai
decreti non convertiti.
Questa Corte, investita da due ricorsi della Regione Piemonte e
da un ricorso della Regione Lazio, relativi rispettivamente a due dei
decreti non convertiti, ma i cui effetti erano stati oggetto della
sanatoria, e alla stessa clausola di sanatoria, ha già avuto
occasione di pronunciarsi (sentenze nn. 429 e 244 del 1997) sugli
effetti della predetta clausola di sanatoria, escludendo che essa
potesse aver prodotto l'effetto di approvazione, per
silenzio-assenso, degli strumenti urbanistici a suo tempo adottati e
trasmessi alla Regione, senza che questa si pronunciasse. Infatti
ciascun decreto ha avuto efficacia solo per sessanta giorni, e i
rispettivi periodi di provvisoria efficacia non potevano sommarsi fra
di loro (decaduto un decreto e ad esso succedutone un altro,
l'efficacia del primo è venuta meno, e solo il secondo è operante),
e dunque tra gli effetti dei decreti decaduti, consolidati dalla
disposizione di sanatoria, non poteva ritenersi compreso quello di
approvazione degli strumenti, che avrebbe richiesto, per prodursi, il
decorso del più ampio termine di centottanta giorni sotto il
permanente vigore della stessa disposizione provvisoria. Né, come è
evidente, potrebbe attribuirsi alla clausola di sanatoria
un'efficacia diversa e ulteriore rispetto a quella che si dispiega
nel confermare o ripristinare gli effetti e quelli soltanto già
prodottisi nel vigore dei singoli decreti legge (restando
"impregiudicato ovviamente l'ulteriore potere del legislatore di
regolare autonomamente situazioni pregresse, nei limiti in cui è
ammissibile una legge retroattiva": sentenza n. 244 del 1997). Sulla
base di questi presupposti la Corte ha dichiarato inammissibili le
questioni allora proposte dalla Regione Piemonte, aventi ad oggetto i
decreti legge non convertiti, ed infondata la questione proposta
dalla Regione Lazio in relazione agli artt. 115, 117 e 118 della
Costituzione (mentre la stessa questione è stata dichiarata
inammissibile con riferimento all'art. 77 della Costituzione), avente
ad oggetto la clausola di sanatoria.
La disposizione qui impugnata, la quale stabilisce che "sono
considerati validi", in forza di un silenzio-assenso che si sarebbe
formato, gli strumenti urbanistici adottati sotto il vigore dei
decreti legge decaduti, e che il termine di centottanta giorni
previsto per la formazione del silenzio-assenso, non maturato sotto
il vigore di alcuno dei singoli decreti legge, "si intende raggiunto
nel periodo di vigenza dei successivi decreti legge", pretende dunque
di far luogo ad un effetto diverso e ulteriore rispetto a quello
derivante dalla clausola di sanatoria contenuta nell'art. 2, comma
61, della legge n. 662 del 1996; e di disporre, con effetto
retroattivo, che un silenzio-assenso mai formatosi si debba intendere
oggi ora per allora, perfezionato, convalidandosi così a posteriori
l'efficacia di strumenti urbanistici che in realtà non sono mai
stati approvati dalla Regione.
Ora, indipendentemente dai limiti generali che, dal punto di
vista costituzionale, debbono ritenersi operanti per il legislatore
che intenda attribuire efficacia retroattiva alle proprie
disposizioni, è evidente che, nella specie, al legislatore statale
non può ritenersi consentito disporre con efficacia retroattiva che
l'approvazione espressa degli strumenti urbanistici da parte della
Regione, richiesta dalla legge regionale, deve intendersi come non
necessaria, e che strumenti non approvati dalla Regione debbono
intendersi ciononostante operanti. In tal modo infatti il legislatore
statale, lungi dallo stabilire, nell'ambito della sua competenza,
principi fondamentali per la successiva legislazione regionale, ai
sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, viene ad
invadere la sfera della competenza legislativa regionale, e anzi a
vanificare, per il passato, l'efficacia della legislazione regionale
a suo tempo validamente in vigore.
La disposizione impugnata deve dunque essere dichiarata
costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 117 della
Costituzione, restando assorbito ogni ulteriore profilo di censura.
37. - L'ultima disposizione impugnata, dalla sola Regione Veneto,
è l'art. 55, comma 14. Esso stabilisce che "gli interventi pubblici
nel settore agricolo e forestale e le azioni di sostegno alle
attività produttive agricole si esplicano nel quadro degli obiettivi
prioritari fissati dal Documento di programmazione
economico-finanziaria, con particolare riferimento al contenimento e
all'armonizzazione con i costi medi comunitari dei costi di
produzione delle imprese agricole, al fine di accrescere la
competitività, favorire l'innovazione tecnologica e l'imprenditoria
giovanile e garantire la sicurezza alimentare". La disposizione
prosegue prevedendo una delega al Governo ad emanare, sentita fra
l'altro la Conferenza Stato-Regioni, disposizioni legislative con
l'osservanza di principi e criteri direttivi che vengono così
indicati: "a) contenimento ed armonizzazione rispetto ai costi medi
europei dei fattori di produzione, dei costi dei fattori di
produzione delle imprese agricole, con particolare riferimento agli
oneri fiscali, contributivi e previdenziali, ai costi energetici, ai
costi di trasporto e al costo del denaro; b) accrescimento delle
capacità concorrenziali del sistema agro-alimentare nel mercato
europeo ed internazionale, anche con l'estensione del credito
specializzato e dei servizi assicurativi all'esportazione dei
prodotti verso i Paesi extracomunitari; c) adeguamento e
modernizzazione del settore, favorendo il rafforzamento strutturale
delle imprese agricole e l'integrazione economica della filiera
agro-industriale; d) accelerazione delle procedure di utilizzo dei
fondi strutturali riservati al settore agricolo e razionalizzazione e
adeguamento del sistema dei servizi di interesse pubblico per lo
stesso settore".
Secondo la Regione ricorrente si verificherebbe, già con la
disposizione di delega, una lesione delle attribuzioni regionali, in
quanto si prevede una analitica disciplina delle attività agricole,
da attuarsi con decreto legislativo, con il solo parere della
Conferenza Stato-Regioni, senza che sia indicata fra i criteri
direttivi la salvaguardia delle competenze regionali in materia.
38. - La questione non è fondata.
La prima parte della disposizione impugnata si riferisce ad
obiettivi generali della programmazione nazionale, come tali
suscettibili di costituire il "quadro" nel quale si inscrivono anche
le politiche regionali di settore.
La delega legislativa prevista dalla seconda parte del comma 14
esercitata dal Governo con il d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173, che non
risulta essere stato impugnato dalla Regione ricorrente non è di per
sé lesiva delle competenze regionali, e non modifica né tende a
modificare l'esistente riparto delle competenze fra Stato e Regioni.
Essa deve essere intesa nel senso che riguarda la disciplina di
oggetti rientranti nella competenza dello Stato come del resto
suggerisce il riferimento, nell'ambito dei principi e criteri
direttivi, a materie sicuramente tali, quali gli oneri fiscali e
contributivi, il costo del denaro, i servizi assicurativi
all'esportazione e per il resto consente solo di stabilire
eventualmente disposizioni di principio, nell'ambito dei più
generali principi enunciati nella stessa norma di delega, o
disposizioni di coordinamento. Né può trascurarsi il fatto che,
tenendo conto delle interferenze con la materia di spettanza
regionale, la disposizione in esame prevede che il decreto
legislativo sia emanato sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Resta ovviamente impregiudicata la possibilità di sindacato
sulle norme legislative delegate, anche sotto il profilo del rispetto
delle competenze regionali.
39. - Le Regioni Lombardia e Veneto censurano altresì l'art. 32,
commi 2, 4 e 5, della legge n. 449 del 1997, in riferimento agli
artt. 2, 32 e 97 della Costituzione; l'art. 39, comma 19, in
riferimento agli artt. 32, 97 e 128 della Costituzione; l'art. 47,
comma 1, in riferimento all'art. 97 della Costituzione; l'art. 48,
comma 1, in riferimento all'art. 97 della Costituzione; mentre la
sola Regione Lombardia censura l'art. 48, comma 4, in riferimento
all'art. 97 della Costituzione. Tali censure, tuttavia, non sono in
alcun modo argomentate né nei ricorsi introduttivi né nelle
successive memorie, sicché, sotto questi profili, le questioni vanno
dichiarate inammissibili.