Ritenuto in fatto:
1. - Le norme che attribuiscono ai tribunali ecclesiastici la
giurisdizione in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti
agli effetti civili e delimitano i poteri spettanti al giudice italiano
nel procedimento di esecutività delle sentenze di nullità che da quei
tribunali provengono, sono oggetto di eccezioni di incostituzionalità
formulate, sotto vari profili, con ordinanza 31 marzo 1977, dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione.
Il giudizio di legittimità costituzionale è stato promosso, su
istanza di parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29 e 101
della Costituzione, nei confronti dell'art. 34, commi quarto, quinto e
sesto, del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia, reso esecutivo
dall'art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, nonché nei confronti
dell'art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (recante disposizioni
per l'applicazione del Concordato medesimo, nella parte relativa al
matrimonio; c.d. legge matrimoniale). Il giudizio a quo, pendente
innanzi alle Sezioni unite, verte su un ricorso proposto da Di Filippo
Gigliola contro l'ordinanza con cui la Corte d'appello di Roma aveva
reso esecutiva la sentenza 6 marzo 1972 del tribunale ecclesiastico del
Vicariato di Roma, dichiarativa della nullità, per riserva mentale
consistente nella esclusione del bonum sacramenti, ex parte viri, del
matrimonio da lei contratto con Aldomir Gospodinoff.
La pronuncia di questa Corte - si premette nel provvedimento di
rimessione - viene sollecitata dopo che questioni in gran parte
analoghe, ma formulate in termini più circoscritti, sollevate, nello
stesso giudizio, con ordinanza emessa il 3 luglio 1975, nei confronti
soltanto dell'art. 17 della legge matrimoniale, senza investire le
correlative disposizioni dell'art. 34 del Concordato, erano state da
questa Corte dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, con la
sentenza n. 1 del 1977. Essendo ora impugnato anche l'art. 1 della
legge n. 810 del 1929, nella parte in cui inserisce nell'ordinamento
dello Stato i commi quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato,
il giudice a quo afferma che, alla stregua delle stesse indicazioni
desumibili dalla menzionata sentenza di questa Corte, "la rilevanza
delle questioni proposte resta fuori di discussione". Peraltro, anche
in questa seconda ordinanza, con riferimento al giudizio a quo, si
ribadisce che, avendo le parti, sia nel corso del procedimento dinanzi
alla Corte d'appello, sia nella successiva fase di legittimità,
discusso intorno alla portata e alla costituzionalità delle norme in
parola, la Corte di cassazione non può, ai fini della decisione del
ricorso, prescindere da tali questioni. Una volta ritenute le stesse
non manifestamente infondate deve quindi sottoporle alla Corte
costituzionale.
Ciò premesso, motivando ai fini della non manifesta infondatezza
della prima delle suddette eccezioni, le Sezioni unite, rilevato che,
in proposito, "salva, ove occorra, qualche ulteriore considerazione,
può essere integralmente utilizzata" l'indagine svolta nella
precedente ordinanza del 1975, fanno richiamo a due sentenze di questa
Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sulle condizioni di validità
e sui limiti della rinuncia dello Stato alla propria giurisdizione in
favore degli organi di giustizia delle Comunità europee, sottolineando
come in queste pronunce l'assoggettamento alla giurisdizione previsto
dai Trattati istitutivi delle Comunità medesime, è stato bensì
ritenuto conforme a Costituzione, ma solo in quanto la Corte di
giustizia delle Comunità è costituita ed opera secondo regole
corrispondenti alle linee fondamentali dell'ordinamento giurisdizionale
statale, ha natura giurisdizionale, ed è composta da membri che
esercitano le proprie funzioni con indipendenza e imparzialità. La
legittimità della produttività di effetti nell'ordinamento interno di
sentenze emesse da parte degli organi comunitari risulta dunque
subordinata, in quelle sentenze, al rispetto del diritto del cittadino
alla tutela giurisdizionale.
Con richiamo, inoltre, alle sentenze di questa Corte n. 30 del 1971
e n. 175 del 1973, concernenti direttamente la rinuncia dello Stato, in
base al Concordato con la Santa Sede, alla propria giurisdizione in
materia di nullità del matrimonio canonico produttivo di effetti
civili, il giudice a quo osserva che, mentre la prima di queste
decisioni si era limitata ad affermare che il divieto di istituzione di
giudici speciali, sancito dall'art. 102 della Costituzione, opera
soltanto nell'ambito dell'ordinamento statale, la seconda, col chiarire
che la sovranità dello Stato, proclamata dall'art. 1 della
Costituzione, "non implica un'assoluta inderogabilità alla
giurisdizione", ha lasciato impregiudicato il problema (che ora si
propone) se la riserva a favore della giurisdizione ecclesiastica
(benché in linea di massima compatibile con la sovranità statuale)
non si ponga, in considerazione dei connotati qualificanti
dell'ordinamento canonico, in contrasto con uno degli altri principi
supremi del sistema costituzionale. Di quei principi, cioè, alla
stregua dei quali (come è stato affermato da questa Corte, nelle
sentenze n. 30 e seguenti del 1971, e ribadito nella stessa sentenza
n. 1 del 1977) l'art. 7 della Costituzione consente che anche le norme
delle leggi che hanno reso esecutivo il Concordato tra Santa Sede e
Italia, possano essere sindacate.
Sulle linee segnate dalla su ricordata giurisprudenza della Corte
costituzionale - prosegue l'ordinanza di rinvio - si può e si deve
dunque procedere - al fine di verificare il grado di tutela da esse
garantito - ad un esame delle norme che regolano il procedimento
innanzi ai tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale, vigenti le
quali i tribunali stessi pronunciano le sentenze che, in forza delle
norme impugnate, il giudice italiano deve poi rendere esecutive.
L'esame di tali norme (che hanno fonte, da un lato, nel codex iuris
canonici e, dall'altro, nella Instructio "Provida mater Ecclesia"
emanata il 15 agosto 1936, e in una serie di testi successivi) conduce,
secondo l'ordinanza, a rilevare che il sistema della giurisdizione
ecclesiastica in materia matrimoniale è caratterizzato:
I. Per quanto riguarda i giudici:
a) dal principio secondo cui il Pontefice è titolare nativo iure
della potestà giurisdizionale ed è pertanto il massimo giudice
naturale in assoluto (canoni 218, 1569);
b) dall'amovibilità dei giudici (prevista in via assoluta, ad
nutum episcopi, dal canone 1573, paragrafo 5, e successivamente
attenuata con l'attribuzione alla Conferenza regionale episcopale del
potere di rimozione per causa grave) e dall'avocabilità al Pontefice,
nella ricordata sua qualità, di qualunque causa in qualunque stato e
grado, con conseguente deferimento a giudici da lui scelti (canone
1557, paragrafo 3);
II. Per quanto riguarda le parti:
c) dal riconoscimento della capacità processuale ai soli coniugi
cattolici (canone 1971, art. 35 dell'Instructio), almeno
nell'ordinamento vigente all'epoca dei fatti di causa, in quanto le
limitazioni in danno degli acattolici non sono state rimosse che nel
1973;
III. Per quanto concerne il contraddittorio e il diritto di difesa:
d) da disposizioni per cui il convenuto conosce il contenuto
integrale del libello introduttivo soltanto dopo il proprio
interrogatorio (art. 113, paragrafo 1, dell'Instructio);
e) dalla possibilità che ai difensori sia interdetto il patrocinio
"da parte dello stesso ordinario che regge il tribunale regionale"
(art. 48, paragrafo 4, dell'Instructio, art. 1 delle Norme della
Congregazione per la disciplina dei sacramenti del 10 luglio 1940);
f) dal divieto per le parti e per i loro difensori di assistere
all'assunzione delle prove testimoniali (art. 128 dell'Instructio);
g) dalle limitazioni a testimoniare poste a carico degli
scomunicati (art. 119 dell'Instructio);
h) dall'inesistenza di sanzioni - che non siano di natura meramente
spirituale - per le ipotesi di mancata presentazione dei testimoni, di
rifiuto di rispondere alle domande e di falsa testimonianza;
i) dal potere del Pontefice di rendere definitive decisioni ancora
impugnabili, con conseguente discrezionale esclusione della garanzia
del doppio grado di giurisdizione;
l) dall'insuscettibilità delle sentenze ecclesiastiche in materia
matrimoniale di passare in giudicato (canone 1903, art. 217, paragrafo
1, dell'Instructio).
Tale sistema, che - osservano le Sezioni unite - trae la propria
giustificazione e la propria interna coerenza, "fuori discussione in
questa sede", dalla natura sacramentale del matrimonio canonico, appare
per più versi difforme da quello che la Costituzione vuole assicurato,
e che risulta invece ispirato ai criteri fondamentali
dell'imparzialità, della indipendenza (art. 101 Cost.) e della
precostituzione del giudice (art. 25 Cost.), nonché del potere di
ciascuno di agire in giudizio e di esercitare, in ogni stato e grado
del procedimento - partecipando ad ogni atto di esso - il diritto
inviolabile di difesa, e di vedere altresì definitivamente accertata
la conformità o meno di una determinata situazione alle norme
dell'ordinamento (art. 24, commi primo e secondo, Cost.).
Per stabilire se, sotto questi aspetti, la questione sia
proponibile innanzi alla Corte costituzionale, "non interessa stabilire
- precisa ancora l'ordinanza di rinvio - se nel processo svoltosi
dinanzi ai tribunali ecclesiastici che ha dato luogo alla presente
controversia, abbiano o meno trovato puntuale applicazione tutte le
surricordate norme canoniche". La prospettata violazione del diritto
alla tutela giurisdizionale - si afferma - è ricollegabile invero non
ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie concreta, sibbene
alla strutturazione generale del sistema che, nella sua
istituzionalità, sembra insuscettibile di garantire congruamente
quella tutela.
Né in contrario - si aggiunge - gioverebbe richiamare il
"carattere sostitutivo", per i matrimoni canonici trascritti agli
effetti civili, (che la motivazione della sentenza di questa Corte n. 1
del 1977 pone in risalto) della giurisdizione di nullità dei tribunali
ecclesiastici. Proprio in quanto nella materia in esame la
giurisdizione statuale è sostituita da quella ecclesiastica - le cui
singole caratteristiche cospirano tutte a delineare un sistema
profondamente diverso - viene infatti in evidenza il problema della
difformità tra l'ordinamento canonico ed il tipo di tutela previsto
dalla Costituzione.
Che, poi, il diritto alla tutela giurisdizionale, parametro della
legittimità delle norme impugnate, abbia dignità di "principio
supremo", è punto sul quale - aggiungono le Sezioni unite - ogni
decisione va lasciata alla Corte costituzionale. È comunque
significativo - si aggiunge - che la Corte costituzionale, in una delle
sentenze surrichiamate (n. 98 del 1965), ha già inquadrato quello alla
tutela giurisdizionale fra i "diritti inviolabili dell'uomo"
riconosciuti e garantiti dall'art. 2 della Costituzione.
La seconda questione di legittimità costituzionale, questione che
- si precisa ancora nell'ordinanza - dà per scontata la conformità
alla Costituzione della riserva di giurisdizione in favore dei
tribunali ecclesiastici, verte sui limiti dei poteri del giudice
chiamato a dare esecutività, nell'ordinamento dello Stato, alle
sentenze dei tribunali ecclesiastici. Le norme impugnate, secondo
l'interpretazione datane da una consolidata giurisprudenza, altro non
consentono al giudice italiano, una volta verificata la regolarità,
puramente formale, della documentazione rimessagli dal tribunale della
Segnatura apostolica, se non di prendere atto dell'esistenza del
provvedimento emesso nell'ordinamento canonico, e che va reso
esecutivo, senza che si possa compiere alcun esame, neppur sommario,
delle modalità della procedura svoltasi innanzi al giudice
ecclesiastico e delle questioni di diritto sostanziale da esso decise.
Al giudice italiano è, dunque, precluso di accertare se nel
procedimento in cui è stata resa la sentenza di nullità del
matrimonio, sia stato assicurato l'effettivo rispetto del
contraddittorio e del diritto di difesa; se la sentenza sia o no
definitiva; se siano stati realmente effettuati, da parte del tribunale
della Segnatura, i controlli (circa la conformità della sentenza alle
norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla
citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti),
controlli previsti dal comma quinto dell'art. 34 del Concordato; se,
infine, le disposizioni contenute nella sentenza di nullità, siano
conformi (come previsto dall'art. 797, n. 7, del codice di procedura
civile, e segnatamente dall'art. 31 delle preleggi) al principio del
rispetto dell'ordine pubblico italiano. Anche a questo riguardo al
giudice a quo appare quindi dubbia la compatibilità delle norme
impugnate con il "principio supremo" del diritto di agire e difendersi
in giudizio, dinanzi a qualsiasi organo fornito dei poteri tipici della
giurisdizione, che dagli artt. 2, 24 e 101 della Costituzione deve
ritenersi garantito al cittadino anche in tema di riconoscimento di
sentenze rese in altri ordinamenti.
Un "ulteriore profilo" di contrasto delle denunciate norme con
"principi supremi del sistema costituzionale" viene infine ravvisato
dalle Sezioni unite nel fatto che le disposizioni medesime, imponendo
al giudice statale di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche
anche se fondate su cause di nullità non previste dalla legge dello
Stato, e in particolare (come nel caso di specie) sulla riserva
mentale, "senza possibilità di rilevarne il conflitto con l'ordine
pubblico italiano", sembrano introdurre nell'ordinamento dello Stato
"un tipo di matrimonio contrastante con quello previsto dalla
Costituzione, in violazione dei canoni relativi all'eguaglianza dei
cittadini senza distinzione di religione, ed al concetto medesimo di
matrimonio accolto dalla Carta fondamentale (artt. 2, 3, 7 e 29
Cost.)". Anche a questo proposito, circa la natura "suprema" dei
principi invocati, il giudice a quo ritiene di non poter trarre
conclusioni definitive, rimettendosi alla decisione della Corte
costituzionale. Ricorda comunque che, riguardo alla scelta del regime
matrimoniale, civile o canonico, questa Corte ha affermato (sentenze
nn. 31 e 32 del 1971 e 175 del 1973) che tale libertà di scelta può
riconoscersi conforme all'art. 3 della Costituzione, "purché nel
regime prescelto non si abbia violazione di altri precetti
costituzionali supremi".
Dopo aver posto in evidenza "le differenze di fondo, certamente
esistenti fra i due tipi di matrimonio", canonico e civile, e la
diversità che nei due ordinamenti caratterizza la regolamentazione
delle cause di nullità, viene sottolineato come, mentre l'ordinamento
dello Stato considera primaria l'esigenza di salvaguardare la "società
naturale fondata sul matrimonio" (art. 29 della Costituzione) e il
mantenimento del rapporto familiare, anche se costituito in virtù di
un atto invalido (come le norme del codice civile in materia, specie
quelle sulla "sanatoria" delle nullità, per più versi largamente
concorrono a dimostrare), nell'ordinamento canonico per contro, in
ragione della natura sacramentale del matrimonio, riveste decisiva
importanza "la verifica della puntuale adesione della volontà del
nubente a ciascuno dei caratteri tipici del sacramento". Cosicché né
l'oggetto del consenso, né il protrarsi della convivenza impediscono
l'accertamento di una eventuale mancata corrispondenza fra la volontà
di ciascuno dei nubenti e le finalità sacramentali, ancorché tale
difformità, come nel caso (che è quello che si verifica nella
fattispecie) della riserva mentale, sia rimasta del tutto sconosciuta
all'altro coniuge, con la possibile conseguenza che in base alla
regolamentazione canonica, in forza delle norme impugnate, può
liberarsi dal vincolo, anche agli effetti civili, deducendo la nullità
del matrimonio, proprio il coniuge che abbia posto a suo tempo le
relative condizioni, vedendo così premiata la sua mala fede.
Sotto tutti gli aspetti considerati, perciò - concludono le
Sezioni unite - le questioni sollevate, anche per gli argomenti offerti
dalle numerose conferme di ordine dottrinale, devono ritenersi non
manifestamente infondate.
2. - Innanzi a questa Corte si sono costituiti sia la Di Filippo
che il Gospodinoff. E anche intervenuta, per il Presidente del
Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato.
Per i motivi esposti nell'ordinanza di rimessione, ai quali si
riporta integralmente, la difesa della Di Filippo chiede che le norme
impugnate vengano riconosciute illegittime. Dal canto suo la difesa del
Gospodinoff chiede invece che la Corte dichiari la questione sollevata
inammissibile, e comunque infondata. In via pregiudiziale, infatti,
sostiene che le eccezioni prospettate dalla Cassazione sarebbero
irrilevanti perché astratte e formulate senza specifico riferimento
alla concreta vicenda procedurale.
Nel merito, la difesa del Gospodinoff fa richiamo alle sentenze di
questa Corte n. 31 del 1971 e n. 175 del 1973, secondo le quali né la
semplice differenza di regime riscontrabile fra matrimonio civile e
matrimonio canonico né la rilevanza della giurisdizione canonica
nell'ordinamento italiano comporterebbero violazione di principi
supremi. Aggiunge che non dovrebbe essere dimenticato che fra i
principi qualificanti il vigente sistema costituzionale rientra
certamente l'art. 7, primo comma, della Costituzione, il quale
riconosce che "lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine
indipendenti e sovrani". Di tutto ciò, del resto, si avrebbe conferma
nella stessa più recente sentenza n. 1 del 1977, là dove questa Corte
afferma che "le disposizioni dell'art. 34 del Concordato e della legge
n. 810 del 1929 godono attualmente della copertura costituzionale
fornita dall'art. 7, secondo comma, della Costituzione".
Secondo la difesa del Gospodinoff, anche il dubbio prospettato
dall'ordinanza di rinvio riguardo alla diversa disciplina delle cause
di nullità del matrimonio civile e del matrimonio canonico dovrebbe
ritenersi già risolto dalla precedente giurisprudenza di questa Corte.
Non si vedrebbe, tuttavia, in qual modo la dichiarazione di nullità
del matrimonio - prevista dall'ordinamento canonico - per simulazione,
possa ledere i principi supremi dell'ordinamento costituzionale. Si
tratta infatti di una causa di nullità che, sia pure con disciplina
parzialmente diversa, è ammessa ora, dopo la riforma del diritto di
famiglia, anche dall'art. 123 del codice civile.
A sua volta, nel chiedere che le eccezioni di illegittimità
costituzionale formulate dalle Sezioni unite della Corte di cassazione
vengano respinte perché infondate, l'Avvocatura dello Stato fa
richiamo, oltre che alla sentenza n. 175 del 1973, alla sentenza n. 30
del 1971 di questa Corte. Sia l'una che l'altra, infatti, col
riconoscere la legittimità della riserva per le cause di nullità dei
matrimoni canonici trascritti agli effetti civili alla giurisdizione
canonica, avrebbero implicitamente riconosciuto anche la sufficienza
delle garanzie processuali previste da quell'ordinamento. Alla luce di
queste pronunce, perciò, il rilievo mosso nell'ordinanza di rinvio
alle disposizioni impugnate in base alla pretesa minore tutela
giurisdizionale che il processo canonico offrirebbe alle parti,
dovrebbe ritenersi superato.
Secondo l'Avvocatura, inoltre, se è vero, come ha argomentato il
giudice a quo, che la Corte costituzionale nel giudicare, nelle
sentenze n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973, riguardo ai rapporti fra
Stato italiano e Comunità europee, della legittimità costituzionale
della rinuncia dello Stato all'esercizio della propria giurisdizione in
favore di quella di un altro ordinamento, ha fatto ricorso al criterio
della verifica del grado di efficienza del sistema di tutela
giurisdizionale garantito dall'ordinamento non statale, non è men vero
che il ricorso a tale criterio postula l'esclusività della
giurisdizione dell'altro ordinamento. Nei casi di specie, invece, non
si ha una esclusività (della giurisdizione canonica) ma piuttosto una
alternatività fra le due giurisdizioni (civile o canonica) in funzione
della libera scelta dei nubenti. Secondo le norme concordatane,
infatti, alla giurisdizione canonica restano soggetti solo coloro che,
pur potendo, come cittadini italiani, contrarre matrimonio civile,
secondo le leggi dello Stato, decidono, invece, in base alle proprie
convinzioni religiose, di celebrare il matrimonio - pur essendo in
grado di conoscere la diversa disciplina a cui è sottoposto - secondo
il regime concordatario.
Quanto, poi, alla lamentata preclusione di ogni potere al giudice
italiano nel procedimento di esecutività delle sentenze e dei
provvedimenti ecclesiastici, la difesa del Presidente del Consiglio
osserva che, secondo i principi generali vigenti in materia di
riconoscimento di sentenze di autorità giudiziarie estere, il giudice
italiano non può certo conoscere il merito della causa, né tanto meno
esigere una identità di regole procedurali tra il diritto nazionale e
quello applicato nella sentenza da delibare, potendo solo controllare
il rispetto dell'ordine pubblico.
Infine l'Avvocatura ricorda che la normativa denunciata è oggetto
di esame in sede di trattative per la revisione del Concordato, operata
la quale i dubbi di legittimità costituzionale sollevati non avranno
più ragion d'essere.
In una elaborata memoria la difesa del Gospodinoff approfondisce,
per ciascuna delle questioni sollevate, le critiche volte alla
motivazione dell'ordinanza di rinvio. Nelle sue conclusioni, tuttavia,
pur nel ribadire l'incensurabilità, sotto tutti gli aspetti, delle
disposizioni impugnate sotto il profilo della legittimità
costituzionale, osserva che la Corte, pur non ritenendo
costituzionalmente illegittimo il sistema vigente, potrebbe se mai,
come in altri casi e per altre materie ha fatto, enunciare ipotesi
"più adeguate" sotto il profilo costituzionale.
Riguardo alla prima eccezione, concernente la riserva in favore
della giurisdizione matrimoniale ecclesiastica, in relazione al difetto
di garanzie riscontrato nel processo canonico, la difesa del
Gospodinoff, richiamando diverse decisioni della Corte di cassazione
successive all'ordinanza di rinvio, sostiene anzitutto che l'eccezione
stessa dovrebbe essere ritenuta senz'altro irrilevante, giacché,
investendo il sistema nel suo complesso, non si traduce (come invece
questa nuova giurisprudenza della Corte di cassazione richiede) "nella
denuncia di disposizioni effettivamente applicate nel procedimento in
corso o applicabili nelle ulteriori vicende processuali", ma tende "a
prospettare solo l'eventuale lesione di diritti altrui, o ipotetiche
violazioni di diritti (propri) peraltro non verificatesi nel caso
concreto".
Secondo la memoria, altro assurdo, a cui la logica dell'ordinanza
di rinvio porterebbe, nell'ipotesi in cui la questione - così come
formulata, "in ragione di alcune norme processuali canoniche" - fosse
riconosciuta fondata, starebbe poi in ciò: che in presenza delle nuove
norme processuali canoniche, che, con il codice di cui si prevede
imminente la pubblicazione, dovrebbero sostituirsi a quelle vigenti (e
che non sarebbe lecito presumere in contrasto con i principi del
diritto di difesa e della tutela giurisdizionale), la competenza
esclusiva del giudice canonico in materia matrimoniale dovrebbe, dopo
la sua abolizione, ritornare in vita.
Anche nel merito, comunque, gli argomenti esposti nell'ordinanza di
rinvio, non reggerebbero alla critica. Non sarebbe esatto, in primo
luogo, che con la sentenza n. 175 del 1973 questa Corte si sia limitata
ad escludere che la riserva di giurisdizione in questione sia in
contrasto con il principio (art. 1 della Costituzione) della sovranità
dello Stato, lasciando impregiudicati i punti dell'attuale
controversia. Nel giudizio che in quella sentenza trovò la sua
soluzione, infatti, la riserva di giurisdizione dei tribunali
ecclesiastici sulle cause attinenti alla nullità del matrimonio
canonico trascritto agli effetti civili, era stata infatti contestata
dal giudice a quo (tribunale di Rovigo), oltre che per violazione del
principio di eguaglianza, con motivazioni sostanzialmente non dissimili
da quelle fatte poi proprie dalle Sezioni unite, anche per violazione
del diritto di difesa e del principio della precostituzione del giudice
(artt. 3, 24 e 25 Cost.), e anche sotto questi aspetti le questioni
sollevate furono disattese.
Non pertinente, poi, sarebbe il richiamo (fulcro di tutto il
ragionamento del provvedimento di rimessione) alle decisioni di questa
Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sui rapporti con le Comunità
europee, e al "grado di efficienza" attribuito dalle norme degli
ordinamenti comunitari alle garanzie assicurate dalla giurisdizione
della Corte di giustizia delle Comunità. Il parallelismo di situazioni
ravvisato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione fra Corte di
giustizia delle Comunità e tribunali ecclesiastici, valido sotto il
profilo negativo (della estraneità degli organi di giurisdizione fra i
quali il paragone si istituisce, rispetto alla giurisdizione dello
Stato, e della carenza di giurisdizione statuale in determinate
materie), non sarebbe valido, invece, riguardo agli aspetti positivi.
Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità hanno, infatti,
nell'ordinamento dello Stato una efficacia diretta e immediata, senza
che perciò sia previsto alcun controllo giurisdizionale, né la
necessità di interventi e accertamenti da parte del giudice italiano.
Le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio sono invece
soggette allo speciale procedimento di delibazione, di carattere
contenzioso, affidato alla Corte d'appello. E senza la dichiarazione di
esecutività, da parte della Corte d'appello - dichiarazione che non
può pronunciarsi (come la giurisprudenza ha costantemente
riconosciuto) se fra le parti interessate non si sia instaurato un
legittimo contraddittorio - non hanno nel nostro ordinamento alcuna
efficacia.
Ad ogni modo, secondo la difesa del Gospodinoff, da un esame da
essa portato fino ai più particolari aspetti del processo matrimoniale
canonico, nessuna delle censure mosse alle varie norme in cui esso si
articola e ai principi di cui sono espressione (sia per ciò che
riguarda l'indipendenza del giudice, sia per quanto attiene alla
capacità a stare in giudizio, al contraddittorio e al diritto di
difesa), si dimostrerebbe fondata. Fermo il punto, naturalmente, che in
tale esame non possono assumersi a parametro di raffronto né i singoli
precetti della Costituzione, né, tanto meno, le disposizioni di leggi
ordinarie sul processo e l'ordinamento giudiziario dello Stato (altro
errore, questo, nel quale sarebbe largamente incorso il giudice a quo)
ma, di fronte alla "copertura" assicurata alla "riserva di
giurisdizione matrimoniale dei tribunali ecclesiastici" dall'art. 34
del Concordato e quindi dall'art. 7, comma secondo, della Costituzione,
solo i "principi supremi dell'ordinamento costituzionale". Fermo
altresì il punto che, come numerose sentenze di questa Corte anche
confermano, il principio della tutela giurisdizionale (certamente
accolto dalla nostra Costituzione) e le modalità del suo esercizio
(che possono essere diverse da ordinamento a ordinamento purché
rimanga salvo il principio di quella tutela) si pongono su piani
diversi, che non tollerano commissioni, e che comunque nulla c'è, nel
sistema processuale canonico, di effettivamente incompatibile con le
esigenze (le sole sicuramente fondamentali) della "terzietà del
giudice" e della "sostanziale possibilità di contraddittorio fra le
parti".
Nell'ordinanza di rinvio, inoltre, non si sarebbe tenuto alcun
conto dell'influenza che anche nel processo matrimoniale canonico e
nella giurisprudenza ecclesiastica hanno avuto, e non potevano non
avere, i nuovi principi proclamati dalle costituzioni e dai decreti del
Concilio Vaticano II, entrati in vigore nel 1965.
Dovrebbe anche tenersi presente, infine, che nella normativa
concordataria la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali
ecclesiastici è inscindibile dalla disciplina sostanziale del
matrimonio. Non potrebbe quindi ammettersi che, riconosciuta
illegittima, e conseguentemente abolita, radicalmente, la riserva di
giurisdizione in questione, siano i giudici dello Stato a giudicare
della validità del matrimonio-sacramento, e a dichiarare la nullità
canonica del matrimonio. Ciò sarebbe in contrasto con l'art. 7, comma
primo, della Costituzione. Nella normativa concordataria, infatti, il
matrimonio-sacramento è il presupposto degli effetti civili del
matrimonio, ma sotto il profilo della disciplina formale e sostanziale
è estraneo al diritto statale. Il sistema ha quindi una sua logica che
non consente di toccare una parte senza che il tutto venga ad essere
svuotato di contenuto.
Secondo la memoria della difesa del Gospodinoff, anche nella
questione concernente i poteri della Corte d'appello nel giudizio per
l'esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale,
a parametro di raffronto vengono, dall'ordinanza di rinvio, assunte
disposizioni di legge - quelle degli artt. 797 cod. proc. civ. (sulle
condizioni della delibazione) e 31 preleggi (sul principio dell'ordine
pubblico) - che, a parte le deroghe che il primo di essi trova nelle
convenzioni internazionali, certamente non esprimono "principi supremi
dell'ordinamento costituzionale", né di questi possono sostanziare il
contenuto.
Riguardo all'ulteriore profilo della questione, inerente alla
esecutività di sentenze di nullità fondate su cause diversamente
disciplinate nell'ordinamento della Chiesa e nell'ordinamento dello
Stato, nella memoria si obietta, in via pregiudiziale, che la rilevanza
della questione stessa nel giudizio a quo sarebbe solo apoditticamente
affermata e che l'ordinanza di rinvio non conterrebbe alcun accenno
alla fattispecie sostanziale e processuale oggetto della controversia.
Nel merito, comunque, anche sotto questo profilo, le tesi accolte nel
provvedimento di rimessione troverebbero ampia confutazione nella
precedente giurisprudenza di questa Corte. La difesa del Gospodinoff
nega inoltre che gli articoli del codice civile sulla disciplina del
matrimonio, richiamati in proposito nell'ordinanza di rinvio, possano
farsi assurgere al rango di "principi supremi dell'ordinamento
costituzionale". Né sarebbe riferibile alla questione l'art. 29 della
Costituzione, il quale, riconoscendo i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio, col presupporre un saldo
fondamento, costituito per l'appunto dal matrimonio, in quanto valido,
attiene al rapporto (validamente costituito), non all'atto costitutivo,
che mantiene quindi le sue peculiari caratteristiche. In conclusione,
si afferma che il vigente sistema altro in fondo non è se non
l'attuazione del pluralismo garantito dalla Costituzione e che i
principi essenziali della Costituzione non possono non comprendere la
libertà religiosa e quindi la libertà di scelta tra i diversi tipi di
matrimonio e di opzione anche per il matrimonio canonico con le
conseguenze che ne derivano, anche in ordine alla giurisdizione e alle
controversie in materia di nullità.
3. - Sotto tutti i profili sopra delineati, in alcuni casi, e sotto
alcuni di essi, in altri, le stesse questioni sollevate dalle Sezioni
unite civili della Corte di cassazione riguardo alla riserva alla
giurisdizione ecclesiastica delle controversie sulla nullità dei
matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, ed ai poteri del
giudice italiano nello speciale procedimento di delibazione per il
conferimento dell'esecutività alle sentenze ecclesiastiche
dichiarative della nullità medesima, vengono sottoposte al giudizio di
questa Corte, con tredici ordinanze, anche dalla Corte di appello di
Milano. Queste ordinanze, emesse su istanza di parte, o d'ufficio,
rispettivamente, il 15 aprile, il 3 giugno (due) e il 14 ottobre 1977;
il 30 giugno (tre) e il 13 ottobre 1978; il 23 marzo, il 27 aprile e il
18 maggio 1979, e, infine, il 25 gennaio e il 15 febbraio 1980,
provengono da altrettanti procedimenti promossi per la declaratoria di
esecutività di sentenze di tribunali ecclesiastici dichiarative della
nullità dei matrimoni di Rodi Renato e Del Bono Maria Luisa, Galeazzi
Bruno e Cornali Silvia, Vignetta Silvio e Darosi Iolanda, Marazzi
Giacomo e Ricchi Faustina, Mazza Ermanno e Di Cintio Carmela, Califano
Prisco e Califano Carmela, Cola Romano e Guerriero Paola, Bertoli
Silvano e Biffi Piera, Gallinoni Vincenzo e Pagani Paola, Ruggiero
Vincenzo e Crotti Emiliana, Cugnasca Enrico e Levy Nella, Sabelli
Fioretti Claudio e Oldrini Francesca, Bosoni Achille e Marchese Bruna.
Quanto ai motivi della rimessione delle questioni, essi presentano
un contenuto testuale pressoché identico. Inoltre, come appare anche
dai richiami fatti all'ordinanza pronunciata dalle Sezioni unite, i
motivi stessi (pur se la Corte d'appello di Milano, nell'indicare le
"norme della Costituzione che si assumono violate" fa riferimento anche
all'art. 102, non richiamato dalle Sezioni unite), sostanzialmente
coincidono con quelli accolti dalla Corte di cassazione. In tutte le
ordinanze non si manca peraltro di esprimere (con riferimento ai
rilievi formulati in proposito, rispetto al precedente giudizio, dalla
sentenza n. 1 del 1977 di questa Corte) circa la questione concernente
i poteri del giudice italiano nello "speciale procedimento di
delibazione" delle sentenze dei tribunali ecclesiastici, l'intento di
sollevarla come "autonoma questione".
Inoltre, a differenza dalle Sezioni unite civili della Corte di
cassazione, la Corte d'appello di Milano non prospetta in termini
dubitativi, ma recisamente afferma che il diritto alla tutela
giurisdizionale si colloca fra i principi supremi dell'ordinamento
costituzionale.
4. - Alle norme dell'art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810
(nella parte in cui inserisce nell'ordinamento dello Stato i commi
quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato) e del correlativo
art. 17 della legge matrimoniale, muovono censura anche cinque
ordinanze della Corte d'appello di Roma, emesse, nel corso di
altrettanti procedimenti per la esecutività di sentenze di tribunali
ecclesiastici, rispettivamente il 15 e il 31 marzo, il 3 maggio e il 6
maggio (due) 1977.
Di tali ordinanze, quelle in data 15 e 31 marzo 1977 risultano
pronunciate nel corso di alcuni dei procedimenti in cui sorsero le
questioni che, così come allora proposte, questa Corte dichiarò
inammissibili con la sentenza n. 1 del 1977. In una di esse,
pronunciata in relazione alla dichiarata nullità del matrimonio fra
Filippucci Lorenzo e Donati Paola, premessi ampi riferimenti sullo
svolgimento della procedura per la esecutività della sentenza e sulle
istanze e deduzioni in essa avanzate, le norme impugnate vengono
contestate, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 101 e 102
della Costituzione, solo sul punto relativo alla carenza di poteri del
giudice italiano in sede di giudizio per la esecutività dei
provvedimenti delle autorità ecclesiastiche.
Abbandonata la tesi - già sostenuta nella precedente ordinanza di
rinvio - secondo la quale la legittimità costituzionale della riserva
alla giurisdizione ecclesiastica delle controversie sulla nullità dei
matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, potrebbe
contestarsi, con riguardo all'intero complesso delle norme dettate in
materia dall'ordinamento canonico, sia processuali che sostanziali, in
re matrimoniali, la Corte d'appello osserva che ci si deve invece
limitare ad esaminare, di volta in volta, "se i provvedimenti
ecclesiastici di cui si chiede l'esecutività abbiano violato i sommi
principi della Costituzione italiana". All'effettuazione di una
indagine in tal senso - prosegue l'ordinanza - ostano tuttavia, secondo
la costante interpretazione datane dalla giurisprudenza, le norme
impugnate. Riguardo alle quali (escluso che possa farsi utile
riferimento agli artt. 797 e seguenti del codice di procedura civile,
giacché lo schema che essi delineano non è il solo previsto dal
nostro ordinamento in materia di riconoscimento di procedure
giurisdizionali straniere, ma trova numerose deroghe nelle convenzioni
internazionali) il giudice a quo si domanda se, sotto questo profilo,
esse non siano in contrasto con i principi supremi dell'ordinamento
costituzionale. L'individuazione e la enunciazione di tali principi -
afferma il giudice a quo - spetta in via esclusiva alla Corte
costituzionale. Non potrebbe tuttavia tacersi che le norme in questione
(come è dato arguire dal progetto di riforma del Concordato elaborato
dall'apposita Commissione e presentato alle Camere) dimostrano di aver
fatto il loro tempo.
In un'altra ordinanza, pronunciata riguardo al matrimonio fra
Papaleo Saverio e Medugno Liliana, dichiarato nullo dal tribunale
ecclesiastico "ex capite simulationis totalis consensus ex parte viri",
nel censurare, anche in questa occasione, in riferimento agli artt. 1,
2, 3, 7, 10, 11, 24, 29, 101 e 102 della Costituzione, la inaccettabile
angustia dei poteri che le disposizioni concordatarie lasciano in
materia al giudice italiano, il giudice a quo, fra l'altro, fa
insistente richiamo al principio dell'ordine pubblico. Affermato
nell'art. 797, n. 7 del codice di procedura civile, e prima di esso, in
termini amplissimi, nell'art. 31 delle preleggi, il limite inderogabile
dell'ordine pubblico (in contrasto con il quale né le leggi o gli atti
di uno Stato estero, né gli ordinamenti o gli atti di qualsiasi
istituzione od ente, "possono avere effetto nel territorio dello
Stato") costituirebbe, infatti, una espressione primaria del principio
di sovranità, e non potrebbe quindi avere, rispetto al diritto
canonico, una consistenza minore di quella che ha rispetto al diritto
straniero. Tanto più, poi, quando il diritto canonico viene applicato
- come nei casi in questione - ai "cives fideles", come tali soggetti
anche a tutte le leggi dello Stato.
Fermo il punto che ogni indagine relativa ai principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale "è riservata per eccellenza alla
cognizione" di questa Corte, la Corte d'appello osserva che tuttavia, a
suo avviso, la mancata opposizione, nella normativa in esame, del
limite costituito dal rispetto dell'ordine pubblico, non contrasta con
un singolo precetto, ma con lo spirito informatore di una pluralità di
assunti costituzionali: tutti quelli, cioè, a cui, nel formulare la
questione, ha creduto di dover fare riferimento.
Quanto alla "pregiudizialità della decisione sulla questione di
costituzionalità rispetto al provvedimento che la Corte d'appello è
chiamata ad emettere", secondo l'ordinanza essa sarebbe nel caso
evidente. Ed invero, essendo stato il matrimonio dichiarato nullo (come
appare dalla sentenza trasmessa dal tribunale della Segnatura) dopo una
convivenza protrattasi per dodici anni e la nascita di un figlio,
"perché al tempo della sua celebrazione uno dei nubendi si era
determinato a contrarlo per mere finalità di interesse economico",
sicuramente il limite dell'ordine pubblico, se applicabile, non avrebbe
consentito di dare esecutività alla sentenza.
Con la terza e la quarta delle suindicate ordinanze, in riferimento
agli artt. 2, 3, 7, 24, primo e secondo comma, 25, 101 e 102 della
Costituzione, in un caso, e in riferimento ai soli artt. 24, 25, 101 e
102 della Costituzione, nell'altro, la Corte di appello di Roma,
sospendendo i procedimenti per la esecutività delle sentenze
dichiarativi della nullità dei matrimoni concordatari rispettivamente
di Cioci Nazareno e Oliva Lidia, e di Paolini Lorenzo e Berlen Elena,
sottopone al giudizio di questa Corte sia la questione attinente alla
carenza di adeguate garanzie nel sistema della giurisdizione
ecclesiastica, sia quella concernente i limiti dei poteri del giudice
italiano all'atto della declaratoria di esecutività di sua competenza.
Anche se si dovesse ritenere - si afferma in proposito in entrambi i
provvedimenti - che il suddetto sistema processuale sia, nel suo
complesso, atto a salvaguardare il principio costituzionale della piena
tutela giurisdizionale, permarrebbe comunque il dubbio di
illegittimità costituzionale sotto il profilo dell'impossibilità di
verifica, nei singoli casi, dell'avvenuta osservanza del principio
stesso.
Con la quinta ordinanza (anch'essa emanata, come la prima, in
seguito ad altra promotrice di uno dei giudizi risolti da questa Corte
con la sentenza di inammissibilità n. 1 del 1977) vengono infine
sollevate (in relazione al matrimonio, dichiarato nullo dal tribunale
ecclesiastico, fra Mimmi Augusto e Olivieri Claudia) le questioni
attinenti al sistema della giurisdizione ecclesiastica e ai poteri del
giudice italiano (formulate in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24,
primo e secondo comma, 25, 101, 102 e seguenti della Costituzione)
prospettando anche (in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 29 e 31 Cost.)
il profilo concernente le divergenze fra gli ordinamenti canonico e
civile in materia di nullità del matrimonio.
Affermata, con motivazioni pressoché identiche, la rilevanza, nei
giudizi a quibus, delle questioni sollevate, la Corte d'appello di
Roma, a sostegno della non manifesta infondatezza delle questioni
stesse, adduce, in queste tre ultime ordinanze, argomenti che
sostanzialmente riproducono quelli posti a base delle ordinanze delle
Sezioni unite civili della Corte di cassazione e della Corte d'appello
di Milano.
5. - Delle parti dei giudizi pendenti innanzi alle Corti d'appello
di Milano e di Roma, si sono costituiti innanzi a questa Corte, Rodi
Renato, Mazza Ermanno, Filippucci Lorenzo, Donati Paola, Cioci
Nazareno, Oliva Lidia, Medugno Liliana, Papaleo Saverio e Olivieri
Claudia. Le difese della Donati, della Oliva, della Medugno e della
Olivieri chiedono che le norme impugnate "e ogni altra coinvolta",
siano dichiarate costituzionalmente illegittime. Le difese del Rodi,
del Mazza, del Filippucci, del Cioci e del Papaleo chiedono, invece,
che le questioni sollevate siano dichiarate, a seconda, inammissibili,
non fondate, o addirittura manifestamente infondate.
Gli atti di deduzioni, a sostegno della inammissibilità della
questione relativa alla pretesa carenza di garanzie nel sistema della
giurisdizione ecclesiastica, si rifanno anzitutto all'affermazione
della sentenza di questa Corte n. 1 del 1977 circa la "speciale
garanzia" e la "copertura costituzionale", di cui godono le
disposizioni dell'art. 34 del Concordato. Un secondo argomento (che si
riannoda alle affermazioni dell'ordinanza di rinvio della Corte
d'appello di Roma nel giudizio che vede parte il Filippucci, ma che
viene ripreso anche dalle difese del Cioci e del Rodi) si fonda sulla
pretesa "assoluta erroneità e irrilevanza" di una condanna globale del
sistema processuale canonico e sulla necessità, che ne seguirebbe, di
constatare, caso per caso, dove e come, nei processi svoltisi inter
partes, quelle norme dell'ordinamento canonico, sostanziali e
processuali, di cui si assume il contrasto con i principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale, abbiano trovato concreta applicazione.
Tesi, questa, che alle parti avverse (Oliva e Medugno) non sembra
concludente e sostenibile, giacché - si obietta - la mera possibilità
di violazione di diritti di una parte già comporta la violazione certa
delle norme costituzionali poste a garanzia e tutela dei diritti
stessi. D'altronde, il segreto, che caratterizza il procedimento
ecclesiastico, e le esigenze, di ordine totalmente diverso, cui i due
ordinamenti, canonico e civile, sono ispirati e finalizzati,
costituirebbero degli ostacoli insuperabili ad una effettiva verifica.
Anche nel merito, a sostegno della infondatezza della questione, si
fa anzitutto richiamo (difese di Filippucci, Rodi, Cioci e Papaleo)
alla "copertura costituzionale" apprestata alle norme concordatarie
dall'art. 7, comma secondo, della Costituzione. I principi del
contraddittorio, del diritto di difesa, della tutela processuale e
sostanziale delle parti vengono nel diritto canonico e nella prassi
giudiziaria - come si esemplifica (difese di Papaleo, Cioci, Rodi) con
particolari riferimenti all'andamento dei processi di nullità
matrimoniale nei casi in questione - strettamente osservati. Si afferma
altresì (difesa di Filippucci, Rodi, Cioci) che nelle ordinanze di
rinvio la Corte di cassazione e le Corti d'appello avrebbero
interpretato erroneamente alcuni istituti canonici, senza tener conto
del "novus ordo" scaturito dal Concilio Ecumenico Vaticano II. In
contrario, però, la difesa della Olivieri si sofferma su molteplici
aspetti del processo matrimoniale canonico: giudice non precostituito
(presenza, accanto all'officiale, di altri due giudici che lo stesso
officiale "designare potest"); amovibilità (sufficienza, per poter
rimuovere un giudice, di un semplice accordo tra i vescovi della
Conferenza regionale episcopale, in base, bensì, ad una gravis causa,
che peraltro potrà essere rappresentata anche da una opinione
teologica, e senza neppure un procedimento disciplinare); trattamento
deteriore per le parti, se si tratti di acattolici; facoltà del
vescovo, nei casi c.d. "excepti", di dichiarare nullo un matrimonio
senza previo processo, né possibilità di appello successivo; mancata
assicurazione di un effettivo contraddittorio; mancanza di efficaci
sanzioni a carico dei testimoni falsi o reticenti, inadeguatezza del
sistema a garantire l'oggettivo interesse della legge di fronte a
eventuali collusioni delle parti dirette a vanificare la stabilità del
matrimonio (cosa, questa, tanto più grave, in quanto quella
iurisdictio è chiamata a risolvere questioni vertenti su tipici
diritti indisponibili, come quelli relativi a status personali);
esclusione del principio del giudicato, con la conseguenza che - in
contrasto non solo con la certezza del diritto, ma anche con l'ordine
della famiglia - può persino accadere che la nuova famiglia formata
dal coniuge che aveva ottenuto la nullità, sia distrutta da una nuova
sentenza che a distanza di anni ritenga invece valido il precedente
matrimonio. Tutte norme che nel loro ordine trovano fondamento nella
"ratio sacramenti" e nel fine supremo della "salus aeterna animarum",
ma che, nella loro incidenza sull'ordinamento dello Stato, si pongono
in netta antitesi con i principi della Costituzione.
Sul punto relativo ai poteri del giudice dell'esecutività, si nega
(difesa Papaleo) che il principio dell'ordine pubblico possa farsi
rientrare fra i "principi supremi dell'ordinamento costituzionale". Le
disposizioni degli artt. 796 e seguenti cod. proc. civ., sulla
delibazione delle sentenze di autorità giudiziarie di Stati esteri,
non hanno una portata generale, giacché ammettono deroghe, in virtù
di normative speciali, frutto di intese o accordi di carattere
internazionale, anche se (a differenza dalle norme concordatarie) privi
di una specifica "copertura costituzionale". Non è utile, perciò,
farvi riferimento. Si replica (difesa della Olivieri) che l'interdire
alla Corte d'appello non soltanto di procedere ad un riesame del merito
e della legittimità delle pronunce ecclesiastiche in materia
matrimoniale, ma financo di esperire i controlli di cui all'art. 797
cod. proc. civ., compreso quello della contrarietà all' "ordine
pubblico", comporta, a danno dei nostri organi giurisdizionali, una
vera e propria deminutio.
Riguardo, infine, al profilo attinente al diverso regime delle
cause di nullità del matrimonio, si obietta (difesa Papaleo) che il
vizio di consenso funziona da causa di nullità del matrimonio tanto
nel diritto canonico quanto nel diritto civile; che anche a questo
proposito la normativa differenziata trova giustificazione nell'art. 7,
comma secondo, della Costituzione; e che le stesse sentenze di nullità
del matrimonio per simulazione, alla luce delle modifiche apportate,
con la riforma del diritto di famiglia, all'art. 123 del codice civile,
non può dirsi che ledano i principi dell'ordinamento costituzionale.
Fra l'altro, poi, i giudici a quibus (secondo le difese di Filippucci,
Rodi, Cioci) non avrebbero considerato adeguatamente l'attuale
concezione della legge italiana in tema di indissolubilità
matrimoniale. In contrario si afferma (difesa Oliva) che solo
escludendo la legittimità costituzionale delle norme impugnate, in
ordine, quanto meno, alla esecutività di determinate categorie di
sentenze di nullità, potrebbe, almeno in parte, ovviarsi all'attuale
anacronismo. Si afferma, altresì (difesa Olivieri), che il contrasto
fra l'art. 29 della Costituzione e il principio canonistico della
nullità del matrimonio per simulazione di una sola delle parti, o
perché una sola delle parti ha negato in scrinio pectoris uno dei beni
del matrimonio canonico, ha un fondamento ancora più forte di quel che
potrebbe apparire dalle motivazioni dei provvedimenti di rimessione.
Conclusione che anch'essa trova conferma nelle profonde trasformazioni
registratesi, negli ultimi decenni, sotto i più vari aspetti, in seno
alla società civile, e che si riflettono nelle tante, e note,
innovazioni legislative riguardo a matrimonio e famiglia.
In quasi tutti i giudizi promossi con le suddette ordinanze delle
Corti d'appello di Milano e di Roma è intervenuta, per il Presidente
del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato. Le richieste
espresse circa la dichiarazione di infondatezza e le argomentazioni
esposte negli atti di intervento ripetono pressoché alla lettera
quelli dell'intervento nel giudizio promosso dalle Sezioni unite della
Corte di cassazione.
In una successiva memoria la difesa del Filippucci ricorda che
nell'ordinanza di rinvio, pronunciata nel giudizio in cui il Filippucci
è parte, la Corte d'appello di Roma (dopo aver constatato, fra
l'altro, che con l'esibizione degli atti della causa trattata innanzi
ai tribunali ecclesiastici si era dimostrato che il procedimento si era
svolto nel pieno ossequio dei principi del contraddittorio e della
difesa) aveva respinto la tesi del contrasto con la Costituzione
dell'intero complesso dell'ordinamento canonico in re matrimoniali, e
riconosciuta invece la necessità che il giudice dell'esecutività
esamini, di volta in volta, la conformità dei singoli provvedimenti
ecclesiastici, sottoposti al suo esame, ai sommi principi della
Costituzione italiana. Con ciò - si sottolinea - la Corte d'appello
anticipava quello che sarebbe stato l'indirizzo poi seguito (e in
proposito si citano numerose sentenze) nel riconoscere irrilevante la
suddetta questione, dalla Corte di cassazione.
Secondo la memoria, peraltro, l'altra questione che, di
conseguenza, il giudice a quo si limita a proporre - quella cioè
attinente all'asserita preclusione di ogni potere del giudice italiano
nel procedimento di esecutività - sarebbe infondata. Essa infatti
risulta sollevata sul presupposto che in base all'art. 34 del
Concordato e all'art. 17 della legge matrimoniale, le uniche indagini
consentite alla Corte d'appello fossero quelle attinenti al controllo
della propria competenza territoriale, della natura concordataria del
matrimonio de quo, e della autenticità del decreto trasmesso dal
tribunale della Segnatura apostolica. Se è vero - si aggiunge - che in
questo senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza, di
legittimità e di merito, al punto che in proposito si è giunti a
parlare di "diritto vivente", è anche vero che tale giurisprudenza
potrebbe mutare, cedendo di fronte ad una diversa interpretazione che
si riveli maggiormente fondata. Alcune affermazioni della sentenza n. 1
e dell'ordinanza n. 2 del 1977 della Corte costituzionale,
sembrerebbero aprire la via ad un nuovo e più aperto indirizzo.
In un'altra memoria, presentata dalla difesa del Rodi, si oppone la
irrilevanza della prima questione. In proposito, ricordati i nuovi
orientamenti delineatisi nell'attuale giurisprudenza della Corte di
cassazione, con richiamo alle norme dell'art. 797 cod. proc. civ. sulle
condizioni per il riconoscimento delle sentenze straniere, si osserva
come non si possa rifiutare la esecutività di una sentenza straniera
soltanto perché alcune norme di quell'ordinamento giudiziario
straniero e anche del suo ordinamento giuridico in genere, possano
essere in contrasto con l'ordine pubblico italiano, se in concreto -
nel caso specifico - l'ordine pubblico italiano, processuale o
sostanziale, non risulti essere stato violato. Nel merito, comunque, un
esame, ampiamente svolto nella memoria, delle diverse norme del
processo matrimoniale canonico, rispetto alle quali nell'ordinanza di
rinvio si è denunciata l'assenza delle garanzie richieste dai
"principi supremi" del nostro ordinamento costituzionale, non
lascerebbe dubbi circa l'infondatezza della questione. La questione,
anzi non sarebbe stata neppure proposta se la Corte milanese, anziché
limitarsi a considerare le fonti anteriori, avesse tenuto conto delle
nuove norme introdotte nell'ordinamento canonico dopo il Concilio
Vaticano II. Sulla seconda questione (poteri del giudice
dell'esecutività) nella memoria si ripropongono le tesi già sostenute
dalla difesa del Filippucci. In particolare, per il profilo concernente
le pretese insuperabili divergenze fra gli ordinamenti canonico e
civile riguardo al regime delle nullità del matrimonio, soprattutto
per ciò che riguarda il "simulato consenso", si osserva anzitutto che
i cittadini italiani, i quali, potendo contrarre matrimonio civile,
hanno scelto liberamente la forma del matrimonio concordatario, hanno
voluto contrarre matrimonio secondo la legge canonica e deliberato
così essi stessi di assoggettarsi a questa legge. Peraltro, sostenere
che il concetto del matrimonio accolto dalla Carta fondamentale, sia
ispirato all'esigenza di tutelare la famiglia valorizzando "il dato
oggettivo della dichiarazione fonte di autoresponsabilità e del
consenso che si rinnova nella comunanza di vita", sembra oggi piuttosto
avventato, dal momento che è in vigore una legge ritenuta conforme a
Costituzione dalla Corte costituzionale, e confermata dal referendum
per la quale il matrimonio, anche se celebrato nella forma
concordataria, è solubile con il divorzio. Tanto più, poi, che, in
base alla legge del 1970 sui casi di scioglimento del matrimonio e alla
legge del 1975 per la riforma del diritto di famiglia, la separazione
personale tra i coniugi, presupposto del divorzio, può essere ora
chiesta e ottenuta (a differenza da quanto in precedenza stabiliva il
codice civile) dallo stesso coniuge che con il suo comportamento abbia
reso intollerabile la prosecuzione della convivenza. Anche per questo
il richiamo dell'ordinanza di rinvio all'art. 29 della Costituzione
sarebbe del tutto ininfluente.
6. - L'art. 1 della legge n. 810 del 1929, che rende esecutivo
l'art. 34 del Concordato, e l'art. 17 della legge n. 847 del 1929 sono
stati impugnati innanzi a questa Corte, con ordinanza 14 aprile 1977,
dalla Corte d'appello di Palermo, in quanto, in ordine alla efficacia
delle dispense ecclesiastiche dal matrimonio rato e non consumato,
apprestando lo strumento formale della relativa declaratoria di
esecutività, escludono la garanzia della tutela giurisdizionale di
diritti soggettivi e l'esercizio della difesa secondo i principi
dell'ordinamento statale.
La questione, formulata in riferimento agli artt. 2, 24 e 102 della
Costituzione, è sorta nel corso dello stesso procedimento (per
l'esecutività di un rescritto pontificio di concessione di dispensa
super matrimonio rato et non consummato, di Amodeo Francesco e Gioia
Maria Aurora) nel quale con altra precedente ordinanza (emessa il 23
aprile 1976) la stessa Corte d'appello aveva già sollevato, nei
confronti delle medesime norme, analoga eccezione. Avendo questa
Corte, nel giudizio allora così promosso, con l'ordinanza n. 2 del
1977, rilevato che "in ordine alla pregiudizialità della sollevata
questione rispetto al provvedimento da emettere", si era omesso "di
prendere in considerazione il caso definito col rescritto pontificio e
le forme e le modalità del relativo procedimento e di esaminare, in
particolare, se la pronunciata dispensa corrisponda ad una richiesta di
entrambe le parti o di una sola di esse", e ordinato perciò la
restituzione degli atti al giudice a quo affinché, con particolare
riguardo a tali profili, "motivi sulla rilevanza", la questione viene
riproposta in termini più ampi, e con più dettagliati riferimenti al
caso di specie.
Prospettati rispetto alle norme procedurali per la dispensa dal
matrimonio rato e non consumato, i motivi della non manifesta
infondatezza delle questioni (carenza di garanzie nel procedimento
ecclesiastico e carenza di poteri del giudice italiano nel procedimento
di esecutività) ricalcano, nelle linee essenziali, quelli esposti
dalla Corte di cassazione e dalle Corti di appello di Milano e Roma (in
riferimento alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sulle
controversie in materia di nullità), negli altri giudizi surriferiti.
Dopo avere ricordato le fonti (canone 1973 del codex ed Instructio "Ad
unam sacram"del 7 maggio 1923 della Congregazione per la disciplina dei
Sacramenti, integrata e parzialmente emendata con successive
Instructiones del 27 marzo 1929 e del 7 marzo 1972, in coordinazione
con il canone 1963 e con l'art. 206 dell'altra Instructio, "Provida
Mater", del 15 maggio 1936) delle norme del procedimento che secondo il
diritto canonico può dar luogo alla dispensa in questione, il giudice
a quo osserva che in una delle suddette Instructiones, quella del 1972,
tale procedimento è espressamente qualificato "non iudicialis, sed
administrativus", e che il provvedimento di dispensa che eventualmente
lo conclude è incontroversamente un provvedimento di grazia sovrana,
discrezionale e inoppugnabile, mentre, per converso, in caso di
avvenuta consumazione, è suscettibile di caducazione. In coerenza con
tali caratteri del procedimento, in esso le parti intervengono come
titolari, non di diritti, ma di mere aspettative (allo scioglimento o
al mantenimento del vincolo); non possono essere assistite da
difensori; non hanno la disponibilità delle prove (potendo solo
ricorrere al vescovo contro i provvedimenti da cui si ritengono lese);
non prendono neppure cognizione degli atti, tutti coperti da segreto,
se non, eventualmente, nei limiti di eccezionali concessioni.
Anche per quel che attiene alla dispensa super matrimonio rato et
non consummato, dunque, la disciplina del procedimento canonico
differisce radicalmente da quella corrispondente dell'ordinamento
giuridico italiano e da quella, in genere, di ogni altro moderno
ordinamento statale. E tuttavia - si aggiunge - in forza delle norme
di cui si è chiesta la verifica di legittimità costituzionale, i
provvedimenti delle autorità ecclesiastiche, emanati secondo quella
disciplina, acquistano esecutività nel nostro Stato, attraverso un
procedimento che li sottrae agli stessi ordinari controlli stabiliti
(artt. 797 e segg. cod. proc. civ.) per la dichiarazione di efficacia
delle sentenze straniere. Ciò potrebbe ammettersi, secondo il giudice
a quo, dato il carattere sacramentale che per la Chiesa e i fedeli ha
il matrimonio, se il matrimonio concordatario fosse un matrimonio
meramente canonico, ma per le forme con cui si celebra, oltre che per
gli effetti, esso è, invece, anche un matrimonio civile. Il rilievo
attribuito dall'art. 7 della Costituzione alle norme concordatarie,
d'altronde, non basta ad escludere che taluna di esse, se in contrasto
con i principi supremi della stessa Costituzione, possa essere ritenuta
incompatibile con l'ordinamento giuridico italiano.
Riguardo alla "rilevanza", nell'ordinanza di rinvio si sottolinea
che il giudizio deferito alla Corte costituzionale investe le norme in
forza delle quali i rescritti pontifici di dispensa super rato possono
acquistare per l'ordinamento dello Stato efficacia esecutiva. Il
rapporto di pregiudizialità, rispetto alla decisione che il giudice a
quo è chiamato ad emettere nel caso in esame, è dunque evidente. La
dichiarazione di esecutività della dispensa pronunciata dall'autorità
ecclesiastica nei confronti dell'Amodeo e della Gioia non potrebbe aver
luogo se non nel presupposto della vigenza delle norme suddette: in
caso contrario, dovrebbe essere rifiutata.
Quanto poi alle concrete modalità di svolgimento del procedimento
innanzi alle autorità ecclesiastiche che nel caso ha dato luogo alla
dispensa, la Corte palermitana riferisce che, a quanto risulta dal
rescritto trasmesso dal tribunale della Segnatura, la Congregazione per
la disciplina dei sacramenti fu investita della procedura non
direttamente, ma (come l'ordinamento canonico espressamente prevede)
attraverso un provvedimento del tribunale ecclesiastico regionale, il
quale, adito in un primo tempo per la dichiarazione di nullità del
matrimonio "ex capite impotentiae utriusque partis", avendo constatato
come ciò "non plene constaret", aveva deciso di rimettere gli atti,
per la eventuale dispensa, alla Congregazione, la quale aveva espresso
parere favorevole alla dispensa, concessa con rescritto del Pontefice.
Riguardo all'eventualità - su cui l'ordinanza n. 2 del 1977 di
questa Corte aveva richiamato l'attenzione del giudice a quo - di un
accordo delle parti per ottenere la dispensa, la Corte d'appello
riconosce che un accordo siffatto, se accertato, avrebbe potuto essere
considerato un utile termine di riferimento nella valutazione della
congruità della tutela giurisdizionale e delle difese svolte in
concreto nel processo canonico. Nel caso, però, dai documenti prodotti
si ricava che l'istanza di parte, necessaria per la pronuncia di
dispensa, formulata dall'Amodeo, "non ebbe mai l'adesione della Gioia".
Osserva altresì che dagli atti parrebbe che gli assunti dell'Amodeo
circa la doppia impotenza relativa e la conseguente mancata
consumazione del matrimonio siano stati contestati dalla Gioia e che
questa si sia doluta di non essere stata messa in grado di provare
dinanzi all'autorità ecclesiastica che il matrimonio era stato
consumato. Si tratta però di risultanze soltanto generiche, mentre la
possibilità di attingere più complete informazioni sia sullo
svolgimento dei suddetti procedimenti canonici, sia sul merito delle
questioni in essi dibattute, attraverso un esame diretto degli atti, è
esclusa - sottolinea il giudice a quo - oltre che dalla mancanza tra i
due ordinamenti di qualsiasi tramite di collegamento (al di fuori di
quello stabilito, per la trasmissione dei provvedimenti ecclesiastici
destinati ad avere effetti civili, dal tribunale della Segnatura alla
Corte d'appello) dal ricordato vincolo del segreto. Sarebbe pertanto
vano, oltre che inammissibile, conclude l'ordinanza, far ricorso, per
acquisire gli atti del procedimento canonico al giudizio civile, ad una
richiesta al tribunale della Segnatura.
Questione sostanzialmente analoga, nel corso del procedimento per
l'esecutività della dispensa super rato accordata dalla Congregazione
per la disciplina dei sacramenti riguardo al matrimonio fra Bisello
Giorgio Alberto e Tuccio Adriana Maria, è stata sollevata, su istanza
di parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101 e 102 della
Costituzione, nei confronti dei commi quarto, quinto e sesto dell'art.
34 del Concordato, immessi nell'ordinamento giuridico italiano con
l'art. 1 della legge n. 810 del 1929, con ordinanza in data 24 aprile
1977 della Corte d'appello di Milano.
Nelle premesse di fatto, l'ordinanza indica i provvedimenti
trasmessi dal tribunale della Segnatura, e fa cenno delle fasi già
svoltesi del procedimento di esecutività, e delle istanze in esso
avanzate. Ai fini della non manifesta infondatezza, la Corte d'appello
di Milano, pur facendo specificamente richiamo alla prima (emessa nel
1976) delle due surricordate ordinanze della Corte d'appello di
Palermo, riproduce, anche in questa occasione, con identico contenuto
testuale, la motivazione degli altri provvedimenti di rimessione da
essa emanati a proposito della riserva alla giurisdizione dei tribunali
ecclesiastici delle controversie in materia di nullità.
7. - Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo si è
costituito innanzi a questa Corte l'Amodeo, sostenendo, in via
pregiudiziale, l'inammissibilità, e, nel merito, l'infondatezza delle
eccezioni di incostituzionalità.
Secondo la difesa dell'Amodeo, infatti, le questioni sollevate
sarebbero irrilevanti ai fini del decidere:
a) perché il giudice a quo, anzitutto, non avrebbe tenuto nella
dovuta considerazione (in relazione anche ai principi enunciati nella
sentenza n. 175 del 1973) i rilievi mossi da questa Corte, nella
sentenza n. 1 del 1977, alle ordinanze di rinvio, circa i modi in cui
le questioni sottoposte al suo giudizio riguardo alla riserva di
giurisdizione sulle controversie in materia di nullità, erano state
allora formulate, e mancando quindi di riproporre, come sarebbe stato
necessario, un contrasto dell'art. 1 della legge n. 810 del 1929 (nella
parte in cui immette nel nostro ordinamento il quarto comma dell'art.
34 del Concordato in relazione alla "riserva" in favore dei dicasteri
ecclesiastici per la dispensa dal matrimonio rato e non consumato) con
supremi principi costituzionali);
b) in secondo luogo perché il giudice a quo, tralasciando di
esaminare - come nell'ordinanza di questa Corte, di restituzione degli
atti, n. 2 del 1977, gli era stato richiesto - "il caso definito col
rescritto pontificio e le forme e le modalità del relativo
procedimento", non avrebbe tenuto conto che tale procedimento si era
svolto in modo ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che sotto
quello processuale; che in tutte le fasi di esso il diritto di difesa
della convenuta Gioia era stato pienamente rispettato, ed inoltre, in
particolare, che all'atto della contestazione della lite il "dubbio"
era stato concordato sui due punti dell'esistenza dell'impedimento di
impotenza relativa e della inconsumazione del matrimonio, senza che né
la convenuta né il suo patrono nulla obiettassero, e che la Gioia
aveva chiesto e ottenuto un supplemento di istruttoria per l'audizione
di un ginecologo, poi regolarmente escusso.
Nel merito, la difesa dell'Amodeo, dopo aver ricordato che
attraverso il procedimento di delibazione previsto dall'art. 801 cod.
proc. civ. (per l'attribuzione di efficacia ai provvedimenti stranieri
di volontaria giurisdizione) è ammissibile l'introduzione
nell'ordinamento interno di provvedimenti che, seppur non
giurisdizionali, sono a volte esercizio di attribuzioni sovrane più di
quel che non accada per la normale attività giudiziaria, osserva che
la pretesa violazione del supremo principio costituzionale della
garanzia dei diritti del cittadino, non può farsi dipendere
esclusivamente dalla natura (giurisdizionale o amministrativa) del
provvedimento, ma se mai andrebbe attribuita al procedimento che lo
precede, in quanto esso non sia sufficientemente garantito
dall'arbitrio dell'autorità decidente. Nel caso, però - afferma la
difesa dell'Amodeo - ciò deve senz'altro escludersi, posto che tutto
il procedimento canonico per la concessione del rescritto pontificio è
strettamente previsto e codificato in norme scritte (dalle modalità di
difesa delle parti all'autorità che lo emette), e che il "potere di
grazia", che nel rescritto si esercita, non è certo fondato,
nell'accertamento della "iusta causa dispensationis", su un'ampia
discrezionalità. Anche il giudice italiano, del resto, secondo le
norme (di cui mai sotto questo aspetto si è messa in dubbio la
legittimità) della legge n. 898 del 1970 sui casi di scioglimento del
matrimonio, nel concedere lo scioglimento del vincolo (in tutti i casi,
compreso quello della inconsumazione), pur di fronte alla prova
dell'assunto, è tenuto sempre ad accertare - questa volta sì con ampi
poteri discrezionali - che sia cessata tra i coniugi la comunione
spirituale e materiale. Inoltre, se è vero che nel procedimento
canonico per la concessione della dispensa non è prevista, per la
parte contraria, una vera e propria possibilità di impugnazione, è
anche vero che la norma generale del non passaggio in giudicato,
applicabile anche in questa materia, consente pur sempre la revisione
del rescritto. In definitiva, perciò, secondo la difesa dell'Amodeo, i
motivi posti a base dell'ordinanza di rinvio non reggono alla critica,
al punto da indurre a concludere che nell'emanarla, di fatto, si sia
andati al di là dei poteri che, anche nell'iniziativa dell'incidente
di legittimità costituzionale, spettano all'autorità giudiziaria.
Sia nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo sia in
quello promosso dalla Corte d'appello di Milano è intervenuta, per il
Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato. Le
deduzioni e conclusioni degli atti di intervento sono identiche a
quelle svolte e precisate, riguardo alle questioni sorte sulla
giurisdizione matrimoniale dei tribunali ecclesiastici in materia di
nullità, nei giudizi promossi dalla Corte di cassazione e dalle Corti
d'appello di Milano e Roma.
8. - Alla pubblica udienza del 9 dicembre 1981, dopo che il giudice
Antonino De Stefano ha svolto la relazione, gli avvocati Mauro Mellini
(per Oliva Lidia, Medugno Liliana e Di Filippo Gigliola) e Paolo Barile
(per Di Filippo Gigliola) hanno ribadito i motivi dedotti a sostegno
della fondatezza delle questioni sollevate nei relativi giudizi; mentre
gli avvocati Cesare Mirabelli (per Filippucci Lorenzo), Corrado
Bernardini (per Cioci Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato e Mazza
Ermanno), Leo Leli (per Papaleo Saverio), Pietro Gismondi e Filippo
Satta (per Gospodinoff Aldomir) e l'avvocato dello Stato Giorgio
Azzariti hanno insistito per la inammissibilità delle questioni
medesime, e in subordine per la loro infondatezza.
Considerato in diritto:
1. - La Corte è chiamata, dalle ventuno ordinanze dei giudici a
quibus, i cui termini e le cui motivazioni sono esposti in narrativa, a
pronunciarsi sulle seguenti questioni:
A) Se la riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici
delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici
trascritti agli effetti civili, operata dall'art. 1 della legge 27
maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati
annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e
l'Italia, l'11 febbraio 1929), nella parte in cui dà piena ed intera
esecuzione ai commi quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato,
nonché dall'art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (recante
disposizioni per l'applicazione del Concordato, nella parte relativa al
matrimonio: c.d. legge matrimoniale), contrasti con il "principio
supremo dell'ordinamento costituzionale dello Stato" posto a garanzia
del diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli articoli 2,
3, 7, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, in considerazione dei
peculiari ed essenziali aspetti - evidenziati nelle motivazioni delle
ordinanze di rinvio - che, riguardo alla posizione dei giudici, ai
diritti e alle facoltà delle parti, al regime delle testimonianze,
allo svolgimento del procedimento, alla insuscettibilità di passare in
giudicato delle sentenze pronunciate in materia, caratterizzano,
secondo le norme vigenti, il sistema del processo matrimoniale
canonico.
B) Se, ove ritenuta non fondata la questione, come dianzi esposta,
inerente alla riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici
delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici
trascritti agli effetti civili, le stesse norme sopra indicate - in
quanto consentono al giudice dello Stato, una volta verificata la
regolarità formale della documentazione trasmessagli dal tribunale
della Segnatura, soltanto di prendere atto dell'esistenza del
provvedimento emesso nell'ordinamento canonico, rendendolo esecutivo
agli effetti civili, precludendogli così di accertare: se nel
procedimento canonico, in cui è stata resa la sentenza di nullità,
sia stato assicurato l'effettivo rispetto del contraddittorio e del
diritto di difesa, se la sentenza sia o meno definitiva, se il
tribunale della Segnatura abbia effettivamente esperito i controlli ad
esso demandati, se, infine, le disposizioni contenute nella sentenza
non siano contrarie all'ordine pubblico italiano - non contrastino con
i "principi supremi" desumibili dagli artt. 1, 2, 3, 7, 10, 11, 24, 25,
101 e 102 della Costituzione, con particolare riguardo al diritto di
agire e difendersi in giudizio, principi garantiti anche in tema di
riconoscimento di sentenze rese in altri ordinamenti; e se, nell'ambito
della medesima questione, le denunciate norme non contrastino con
principi supremi del sistema costituzionale, desumibili dagli artt. 2,
3, 7, 24, 25, 29, 31, 101 e 102 della Costituzione, anche sotto un
ulteriore profilo, e cioè in quanto - imponendo al giudice dello Stato
di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche fondate su cause di
nullità non previste dalla legge dello Stato, senza possibilità di
rilevarne il conflitto con l'ordine pubblico italiano - introdurrebbero
nell'ordinamento dello Stato un tipo di matrimonio contrastante con
quello previsto dalla Costituzione, in violazione dei canoni relativi
all'uguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione, ed al
concetto medesimo di matrimonio accolto dalla Costituzione.
C) Se la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici della
concessione della dispensa "super rato et non consummato" in ordine a
matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, operata dalle norme
sopra indicate, non contrasti con "il principio supremo
dell'ordinamento costituzionale dello Stato", posto a garanzia del
diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli artt. 2, 3, 7,
24, 25, 101 e 102 della Costituzione, in quanto la dispensa medesima
costituisce esercizio di un sovrano potere di grazia e si esplica
attraverso un provvedimento di natura amministrativa, discrezionale ed
insindacabile, adottato in esito ad un procedimento istruttorio di tipo
inquisitorio - espressamente definito dalle stesse disposizioni che lo
regolano "non iudicialis sed administrativus"- in cui le autorità
competenti esercitano a loro volta ampi poteri discrezionali, mentre le
parti sono prive dei diritti, in senso proprio, di azione e di difesa,
giacché la concessione e il diniego della dispensa sono oggetto di
mere aspettative, e nella relativa procedura mancano alle parti la
disponibilità delle prove, la possibilità di impugnazione e la
pubblicità degli atti, ed è vietata l'assistenza di avvocati e
procuratori.
D) Se, ove ritenuta non fondata la questione come dianzi esposta,
le norme sopra indicate non contrastino con gl'invocati supremi
principi anche in ragione dei particolari limiti che, nello speciale
procedimento da esse disciplinato per il conferimento al provvedimento,
con cui viene accordata la dispensa super rato et non consummato, della
esecutività agli effetti civili, vengono posti ai poteri di cognizione
del giudice dello Stato, cui è inibito qualsiasi controllo sullo
svolgimento del procedimento canonico e qualsiasi sindacato volto ad
accertare che il provvedimento ecclesiastico non contenga disposizioni
contrarie all'ordine pubblico italiano.
2. - Le ordinanze di rimessione sottopongono alla Corte questioni
identiche o connesse; pertanto i relativi giudizi vengono riuniti per
esser decisi con unica sentenza.
3. - Da alcune parti costituite in giudizio è stata
preliminarmente eccepita, come riferito in narrativa, la
inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione innanzi
enunciata sub A) obiettandosi che essa è stata sollevata sulla base di
un'astratta comparazione dei sistemi processuali di due diversi
ordinamenti giuridici, dello Stato e della Chiesa, senza accertare se
le norme canoniche, la cui presenza nell'attuale ordinamento del
processo matrimoniale canonico renderebbe, secondo i giudici a quibus,
costituzionalmente illegittima la contestata riserva alla giurisdizione
dei tribunali ecclesiastici, avessero trovato effettiva applicazione
nelle specifiche vicende processuali relative alle sentenze di nullità
matrimoniale, delle quali si chiede l'esecutività.
L'eccezione va disattesa. Come esattamente si afferma
nell'ordinanza emessa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione,
"la prospettata violazione del diritto alla tutela giurisdizionale è
ricollegabile non ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie
concreta, sibbene alla strutturazione generale del sistema che, nella
sua istituzionalità, sembra insuscettibile di garantire congruamente
quella tutela"; per cui "non interessa stabilire se nel procedimento
svoltosi dinanzi i tribunali ecclesiastici, che ha dato luogo alla
presente controversia, abbiano o meno trovato puntuale applicazione
tutte le norme canoniche dianzi ricordate". In realtà, le norme che
vengono sottoposte alla pronuncia di questa Corte non sono né
potrebbero essere - le norme canoniche, ma quelle (art. 1 della legge
n. 810 del 1929 e art. 17 della legge n. 847 del 1929) che, dando
esecuzione ed attuazione alle norme concordatarie (commi quarto, quinto
e sesto dell'art. 34), precludono alla giurisdizione statuale la
cognizione delle controversie in materia di nullità dei matrimoni
canonici trascritti agli effetti civili e disciplinano il procedimento
inteso a conferire esecutività nell'ordinamento dello Stato alle
sentenze ecclesiastiche di nullità di tali matrimoni. Palese è,
pertanto, l'incidenza delle denunciate norme nei giudizi a quibus, che
non potrebbero più proseguire, e raggiungere lo scopo cui sono
preordinati, qualora la questione, sollevata nel corso dei giudizi
medesimi, fosse dichiarata fondata. Il prospettato dubbio di
legittimità costituzionale investe direttamente le norme in parola,
assumendosi un loro contrasto con i principi supremi scaturenti dalla
Costituzione a presidio del diritto alla tutela giurisdizionale in
tutte le sue possibili estrinsecazioni, per il fatto stesso che esse
sostituiscono, in subiecta materia, alla giurisdizione statuale - il
cui sistema, secondo quanto la Costituzione vuole assicurato, deve
ispirarsi ai criteri fondamentali dell'imparzialità, della
indipendenza e della precostituzione del giudice, nonché del potere di
ciascuno di agire in giudizio e di esercitare in ogni stato e grado del
procedimento il diritto inviolabile di difesa - la giurisdizione
ecclesiastica, le cui singole caratteristiche cospirerebbero tutte a
delineare un sistema non soltanto profondamente diverso, ma soprattutto
non riconducibile ai menzionati criteri. Ed è solo a sostegno di
quest'ultimo assunto che le norme canoniche indicate nelle ordinanze di
rimessione vengono appunto evocate dai giudici a quibus, quali sintomi
rivelatori dell'addotta inconciliabilità del sistema processuale
canonico, che esse stesse concorrono a caratterizzare, con il sistema
processuale statuale, dominato dalla preminente garanzia del diritto
alla tutela giurisdizionale: onde non si pone il problema della loro
concreta specifica incidenza nei giudizi da cui muove la questione.
4. - Nel merito, la questione puntualizzata sub A) non è fondata.
Va preliminarmente ricordato che questa Corte ha già più volte
affermato, a partire dalle sentenze nn. 30, 31 e 32 del 1971, che le
norme del Concordato, immesse nell'ordinamento italiano dalla legge n.
810 del 1929, pur fruendo della "copertura costituzionale" fornita
dall'art. 7 della Costituzione, non si sottraggono al sindacato di
legittimità costituzionale, che in tal caso, peraltro, resta limitato
e circoscritto al solo accertamento della loro conformità o meno ai
"principi supremi dell'ordinamento costituzionale"; accertamento, cui
la Corte procede mantenendosi sempre nell'ambito della questione così
come le è stata deferita e in riferimento a principi che siano
desumibili dai parametri costituzionali indicati dal giudice a quo.
In siffatta prospettiva e nei cennati limiti, la Corte, appunto con
la sentenza n. 30 del 1971, dichiarava non fondata la questione di
legittimità costituzionale avente ad oggetto, sempre per il tramite
dell'art. 1 della legge n. 810 del 1929, gli stessi commi quarto,
quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato, del cui esame è ora
investita, denunciati allora "con riferimento all'art. 102, comma
secondo, della Costituzione, in quanto cioè i tribunali ecclesiastici
competenti a pronunziarsi sulla nullità dei matrimoni concordatari
sarebbero giudici speciali non previsti dalla Costituzione stessa". La
Corte ritenne, invece, che non fosse violato il principio della unità
della giurisdizione dello Stato, cui appare ispirato l'indicato
precetto costituzionale, in quanto il "rapporto fra organi della
giurisdizione ordinaria e organi della giurisdizione speciale deve
ricercarsi nel quadro dell'ordinamento giuridico interno, al quale i
tribunali ecclesiastici sono del tutto estranei".
Successivamente, la riserva alla cognizione esclusiva dei tribunali
ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni
canonici trascritti agli effetti civili, operata dai ripetuti commi
quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato, era nuovamente
sottoposta all'esame di questa Corte, in riferimento agli artt. 1,
comma secondo, 3, comma primo, 11, 24, commi primo e secondo, 25, comma
primo, 101, comma primo, 102, commi primo e secondo, della
Costituzione. Anche questa volta la questione veniva dichiarata non
fondata, con la sentenza n. 175 del 1973. Circa l'addotta
incompatibilità della giurisdizione dei tribunali ecclesiastici in
subiecta materia con il principio della sovranità dello Stato
italiano, veniva affermato che "una inderogabilità assoluta della
giurisdizione statale non risulta da espresse norme della Costituzione,
né è deducibile, con particolare riguardo alla materia civile, dai
principi generali del nostro ordinamento, nel quale ipotesi di deroga
sono stabilite da leggi ordinarie". Considerava poi la Corte che
"riconosciuta la compatibilità con il nuovo ordinamento costituzionale
di una deroga alla giurisdizione che sia razionalmente e politicamente
giustificabile", la deroga introdotta dalle denunciate norme trovava
appunto giustificazione "nel complesso sistema che, riconoscendo
effetti civili al matrimonio così come disciplinato dal diritto
canonico, non irrazionalmente devolve ai tribunali ecclesiastici la
cognizione delle cause di nullità del matrimonio". Nella pronuncia di
non fondatezza così motivata restavano assorbiti, ad avviso della
Corte, anche i diversi profili dedotti dal giudice a quo con
riferimento agli artt. 24, 25 e 102, comma secondo, della Costituzione.
Soggiungeva in proposito la Corte, in relazione all'addotta violazione
del principio del giudice naturale, di cui all'art. 25 della
Costituzione, che dovendosi considerare "giudice naturale" quello
"precostituito per legge", tale espressamente risultava essere il
tribunale ecclesiastico proprio in quanto designato dalle norme
impugnate.
Nella coeva sentenza n. 176 del 1973 la Corte poi, nel dichiarare
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2
della legge 1 dicembre 1970, n. 898, recante disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio, sollevata in riferimento agli artt. 7 e
138 della Costituzione, in relazione appunto all'art. 34 del Concordato
ed alla legge di esecuzione n. 810 del 1929, nonché agli artt. 5 e 17
della legge n. 847 del 1929, affermava che la riserva di giurisdizione
ai tribunali ecclesiastici delle cause di nullità dei matrimoni
canonici trascritti agli effetti civili, ed il connesso riconoscimento
di effetti civili alle sentenze dichiarative di tale nullità, "sono
coerenti con l'impegno assunto di considerare l'atto del matrimonio,
validamente sorto nell'ambito dell'ordinamento canonico, quale
presupposto cui attribuire - dopo l'intervenuta trascrizione - gli
effetti civili".
La legittimità costituzionale della riserva disposta dall'articolo
34 del Concordato a favore della giurisdizione ecclesiastica è stata,
dunque, già riconosciuta da questa Corte - come vien ricordato anche
nella sentenza n. 1 del 1977 - in relazione a principi supremi che sono
stati desunti da parametri costituzionali in gran parte coincidenti con
gli stessi parametri invocati nella presente controversia. Ai parametri
suddetti i giudici a quibus fanno invero riferimento per assumere che
la riserva de qua agitur concreti, in relazione alle peculiari
caratteristiche che diversificano il sistema processuale canonico da
quello statuale, una violazione del diritto alla tutela
giurisdizionale. Diritto, questo, che la Corte ha già annoverato "fra
quelli inviolabili dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art.
2" (sent. n. 98 del 1965), e che non esita ora ad ascrivere tra i
principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è
intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare
a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio.
Non può dunque rifiutarsi ingresso alla proposta questione intesa a
verificare se con tale principio supremo contrastino le denunciate
norme concordatarie, pur assistite da copertura costituzionale. Come
già messo in luce dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le
suddette disposizioni hanno sostituito, in subiecta materia, la
giurisdizione ecclesiastica alla giurisdizione statuale. Ma non per
questo ne risulta vulnerato il principio supremo del diritto alla
tutela giurisdizionale, atteso che, nelle controversie relative alla
nullità di matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, un
giudice e un giudizio sono pur sempre garantiti: e si tratta di organi
e di procedimenti, la cui natura giurisdizionale è suffragata da una
tradizione plurisecolare. Certo, non può negarsi che l'organizzazione
e l'esercizio della funzione giurisdizionale, in re matrimoniali,
nell'ordinamento della Chiesa appaiono, sotto taluni aspetti, ispirati
a criteri non sempre conformi a quelli che caratterizzano
l'organizzazione e l'esercizio della funzione giurisdizionale
nell'ordinamento dello Stato; anche se il divario si attenua alla luce
dei principi proclamati dalle costituzioni e dai decreti del Concilio
Vaticano II. Ma va, da un canto, ricordato che le difformità traggono
per lo più la loro ragion d'essere dalle stesse finalità spirituali
cui è preordinato l'ordinamento della Chiesa, il quale, pur con i
connotati esplicitamente riconosciuti dal primo comma dell'art. 7 della
Costituzione, si modella nondimeno siccome un ordinamento per sua
stessa natura dissimile da quello dello Stato. D'altro canto, il
diritto alla tutela giurisdizionale si colloca al dichiarato livello di
principio supremo solo nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, cui
si è innanzi accennato; ma tale qualifica non può certo estendersi ai
vari istituti in cui esso concretamente si estrinseca e secondo le
mutevoli esigenze storicamente si atteggia, pur se taluni di questi
istituti siano garantiti da precetti costituzionali. Con i quali ultimi
una volta riconosciuto indenne il principio supremo - non è consentito
accertare se specificamente contrastino, in ragione della diversa
disciplina dei corrispondenti istituti del processo matrimoniale
canonico, le denunciate norme concordatarie, atteso che a questo minor
livello opera, come più volte affermato da questa Corte, la copertura
costituzionale dalla quale esse sono assistite.
Pertanto la Corte, nel confermare la sua precedente giurisprudenza
in materia, ritiene che anche sotto il profilo esaminato in questa
occasione la riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di
nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, pur con
le innegabili diversità che nei vari istituti processuali tale
giurisdizione presenta rispetto alla giurisdizione statuale, non è
incompatibile con l'ordinamento costituzionale. Detta riserva appare
poi funzionalmente connessa alla disciplina del negozio matrimoniale
canonico, cui il medesimo art. 34 del Concordato riconosce, mediante la
trascrizione del relativo atto, efficacia civile. Se il negozio cui si
attribuiscono effetti civili, nasce nell'ordinamento canonico e da
questo è regolato nei suoi requisiti di validità, è logico
corollario che le controversie sulla sua validità siano riservate alla
cognizione degli organi giurisdizionali dello stesso ordinamento,
conseguendo poi le relative pronunce dichiarative della nullità la
efficacia civile attraverso lo speciale procedimento di delibazione,
anch'esso strutturato dall'art. 34 del Concordato. In ciò va ravvisata
appunto quella giustificazione razionale e politica della deroga alla
giurisdizione statuale, cui questa Corte, come dianzi ricordato, si è
riferita nella sentenza n. 175 del 1973. La riserva in parola
costituisce perciò uno dei cardini del vigente sistema concordatario
matrimoniale, e di ciò era ben consapevole il Costituente allorché
nel secondo comma dell'art. 7 della Costituzione ha fatto esplicita
menzione dei Patti Lateranensi.
Né a diversa conclusione potrebbero indurre gli argomenti svolti
nelle ordinanze di rimessione, secondo cui ogni rinunzia dello Stato
alla propria giurisdizione postula necessariamente - ai fini
dell'accertamento della sua compatibilità con i principi supremi
dell'ordinamento costituzionale - la puntuale verifica del grado di
tutela assicurato dal sistema giurisdizionale che viene a sostituirsi a
quello statuale. In proposito i giudici a quibus si appellano alla
verifica circa l'ampiezza della tutela giurisdizionale che gli
ordinamenti delle Comunità europee assicurano contro gli atti dei loro
organi eventualmente lesivi di diritti dei singoli soggetti, sulla
quale ha fatto leva la sentenza n. 98 del 1965, con cui questa Corte ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata in riferimento agli artt. 102 e 103 della Costituzione, con
riguardo alla pretesa specialità della Corte di giustizia delle
Comunità come organo di giurisdizione, e al contenuto della tutela
giurisdizionale dalla medesima garantita. Ma come giustamente obietta
la difesa di una parte costituita in giudizio (Gospodinoff), non può
instaurarsi sotto il dedotto profilo un parallelismo di situazioni tra
Corte di giustizia delle Comunità europee e tribunali ecclesiastici,
in quanto l'elemento discriminatore che a tal proposito si rivela
decisivo, e che giustifica nel richiamato precedente la operata
verifica del "grado di efficienza" del sistema giurisdizionale
comunitario, è appunto - in relazione alle caratteristiche del
processo di integrazione europea - la diretta efficacia
nell'ordinamento dello Stato (in forza degli artt. 44 e 92 del Trattato
che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, reso
esecutivo con legge 25 giugno 1952, n. 766, nonché degli artt. 187 e
192 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea, e 159 e
164 del Trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia
atomica, entrambi resi esecutivi con legge 14 ottobre 1957, n. 1203)
delle sentenze che promanano dalla Corte di giustizia, senza che sia
previsto alcun controllo giurisdizionale ad opera del giudice italiano.
Le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio sono, invece,
soggette ad uno "speciale procedimento di delibazione affidato alla
Corte d'appello", nel quale "l'intervento del giudice italiano in certa
misura si realizza, sia pure con cognizione limitata"(sentenza di
questa Corte n. 175 del 1973). L'affinità, da species a genus, che
tale procedimento rivela rispetto al normale giudizio di delibazione
delle sentenze straniere, quale disciplinato dall'art. 797 cod. proc.
civ., conferma che, ai fini della presente pronuncia sull'asserito
contrasto della riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di
nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, con il
supremo principio del diritto alla tutela giurisdizionale, sarebbe
ininfluente ed esorbitante la proposta verifica dell'adeguatezza della
tutela medesima, quale in concreto assicurata dalla giurisdizione
ecclesiastica. Se poi i limiti posti ai poteri del giudice italiano
chiamato a rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio, incidano, come ipotizza la sentenza di questa Corte n. 1
del 1977, sull'adeguatezza della tutela giurisdizionale, è dubbio che
ricade nell'ambito della questione puntualizzata sub B), sulla quale la
Corte passa a pronunciarsi, una volta dichiarata non fondata la
questione sub A).
5. - La seconda questione di legittimità costituzionale, enunciata
sub B), "dà per scontata - come leggesi nell'ordinanza emessa dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione - la conformità alla
Costituzione della riserva di giurisdizione in favore dei tribunali
ecclesiastici e considera invece i limiti dei poteri del giudice
dell'esecutività, quali risultano dalla consolidata interpretazione
data dalla giurisprudenza alle norme in esame".
Nella interpretazione delle denunciate norme, accolta dai giudici a
quibus, la pronuncia di esecutività sarebbe contraddistinta da una
sorta di "automaticità". Infatti la Corte d'appello potrebbe
verificare soltanto la mera regolarità formale della documentazione
proveniente dal tribunale della Segnatura, mentre le sarebbe precluso
qualsiasi sindacato sul procedimento svoltosi innanzi al giudice
ecclesiastico. In particolare il giudice italiano non potrebbe
accertare: a) l'effettivo rispetto del contraddittorio e del diritto di
difesa nel procedimento in cui è stata resa la sentenza di nullità;
b) la definitività di tale sentenza; c) la reale effettuazione, da
parte del tribunale della Segnatura, dei controlli, previsti dal quinto
comma dell'art. 34 del Concordato, sulla osservanza nel processo
matrimoniale canonico delle norme relative alla competenza del giudice,
alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle
parti; d) se la sentenza di nullità contenga disposizioni contrarie
all'ordine pubblico italiano, in contrasto con il disposto dell'art.
797, n. 7, del codice di procedura civile.
La Corte preliminarmente rileva che, ancor prima della
Costituzione, autorevole dottrina contestava la tesi, seguita in
giurisprudenza, della "automaticità" della pronuncia, interpretando le
norme regolatrici del procedimento per la esecutività delle sentenze
ecclesiastiche di nullità di matrimoni canonici trascritti agli
effetti civili (quinto e sesto comma dell'art. 34 del Concordato e art.
17 della legge matrimoniale), nel senso che la Corte di appello fosse
tenuta ad accertare la conformità delle sentenze medesime ai principi
dell'ordine pubblico. Entrata in vigore la Costituzione, si sottolineò
in dottrina l'esigenza che l'applicazione della normativa concordataria
si adeguasse ai principi dell'ordinamento costituzionale, e che
pertanto, in siffatta prospettiva, il procedimento ex art. 17 della
legge matrimoniale dovesse garantire il contraddittorio e la
conformità delle sentenze ecclesiastiche ai principi dell'ordine
pubblico. Né sono mancate negli ultimi anni sentenze, anche della
Corte di cassazione, ispirate ad una interpretazione delle denunciate
norme diversa da quella che costituisce la base di partenza delle
ordinanze di rimessione. Così, nel riflesso che il procedimento in
parola configuri un adattamento dell'ordinario giudizio di delibazione
delle sentenze straniere alla speciale materia oggetto delle norme
pattizie, è stato ritenuto che alla Corte d'appello sono devoluti,
oltre che i controlli formali, anche il riscontro degli adempimenti
corrispondenti alle prime quattro condizioni previste dall'art. 797 del
codice di procedura civile, nonché l'accertamento che la sentenza
ecclesiastica non contrasti con l'ordine pubblico italiano, nei limiti
consentiti dalla copertura costituzionale delle norme concordatarie.
Peraltro, poiché tale "giurisprudenza innovatrice", cui si rifanno
alcune parti costituite in giudizio per concludere a favore della non
fondatezza della questione, non può allo stato dirsi decisamente
prevalente su quella, mantenutasi costante nell'arco di più decenni,
dalla quale muovono le ordinanze di rimessione, la Corte si attiene, ai
fini della pronuncia sulle denunciate norme, alla interpretazione che
di queste viene addotta dai giudici a quibus, e tra questi, in
particolare, delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione.
In siffatti termini la questione è fondata. Le norme denunciate,
interpretate come dianzi esposto, incidono profondamente e radicalmente
sui poteri che in via generale sono attribuiti al giudice, in
correlazione con i prescritti accertamenti, allorché sia chiamato a
dichiarare l'efficacia nell'ordinamento dello Stato italiano di
sentenze emesse in ordinamenti a questo estranei. Ed invero, nello
speciale procedimento da esse disciplinato, la mutilazione e la
vanificazione dei cennati poteri del giudice italiano, la preclusione
di qualsiasi sindacato che esorbiti dall'accertamento della propria
competenza e dalla semplice constatazione che la sentenza di nullità
sia anche accompagnata dal decreto del tribunale della Segnatura
apostolica e sia stata pronunciata nei confronti di matrimonio canonico
trascritto agli effetti civili, degradano la funzione del procedimento
stesso ad un controllo meramente formale. Così strutturato, nella sua
concreta applicazione lo speciale procedimento di delibazione elude due
fondamentali esigenze, che il giudice italiano nell'ordinario giudizio
di delibazione è tenuto a soddisfare, prima di dischiudere ingresso
nel nostro ordinamento a sentenze emanate da organi giurisdizionali ad
esso estranei: l'effettivo controllo che nel procedimento, dal quale
è scaturita la sentenza, siano stati rispettati gli elementi
essenziali del diritto di agire e resistere a difesa dei propri
diritti, e la tutela dell'ordine pubblico italiano onde impedire
l'attuazione nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute nella
sentenza medesima, che siano ad esso contrarie.
Sia l'una che l'altra esigenza si ricollegano e muovono da
principi, ai quali si ispirano i parametri costituzionali invocati dai
giudici a quibus. Il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa
dei propri diritti - strettamente connesso ed in parte coincidente con
il diritto alla tutela giurisdizionale cui si è fatto dianzi
riferimento - trova la sua base soprattutto nell'art. 24 della
Costituzione. La inderogabile tutela dell'ordine pubblico, e cioè
delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base
degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel
suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società, è imposta
soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata
nel comma secondo dell'art. 1, e ribadita nel comma primo dell'art. 7
della Costituzione. Entrambi questi principi vanno ascritti nel novero
dei "principi supremi dell'ordinamento costituzionale", e pertanto ad
essi non possono opporre resistenza le denunciate norme, pur assistite
dalla menzionata copertura costituzionale, nella parte in cui si
pongono in contrasto con i principi medesimi: nella parte, cioè, in
cui non dispongono che il giudice italiano, nello speciale procedimento
da esse disciplinato, sia tenuto a quegli accertamenti, e sia all'uopo
munito dei relativi poteri, volti ad assicurare il rispetto delle
fondamentali esigenze dianzi indicate.
Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1
della legge n. 810 del 1929, limitatamente all'esecuzione data al sesto
comma dell'art. 34 del Concordato, nonché del secondo comma dell'art.
17 della legge n. 847 del 1929, nella parte in cui tali norme non
prevedono che alla Corte d'appello, all'atto di rendere esecutiva la
sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di matrimonio
canonico trascritto agli effetti civili, spetta accertare che nel
procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato
alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei
propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni
contrarie all'ordine pubblico italiano.
Resta in conseguenza assorbito, per effetto della dichiarata
illegittimità costituzionale delle denunciate norme in parte qua,
l'ulteriore profilo, dedotto nell'ambito della medesima questione,
circa la incompatibilità con i principi supremi desumibili dagli artt.
2, 3, 7, 24, 25, 29, 31, 101, 102 della Costituzione, delle stesse
norme, in quanto, precludendo al giudice dello Stato di accertare
l'eventuale contrasto con l'ordine pubblico italiano, gl'impongono di
rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche fondate su cause di
nullità non previste dalla legge dello Stato, introducendo così
nell'ordinamento dello Stato un tipo di matrimonio contrastante con
quello previsto dalla Costituzione.
6. - La Corte passa quindi ad esaminare la questione concernente la
riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici della concessione
della dispensa super rato et non consummato, in ordine a matrimonio
canonico trascritto agli effetti civili, sollevata, come riferito in
narrativa, dalle Corti d'appello di Palermo e di Milano, e
puntualizzata sub C). Dalle ordinanze di rimessione si assume che i
commi quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato (cui l'art. 1
della legge n. 810 del 1929 ha dato esecuzione) e l'art. 17 della legge
n. 847 del 1929, nel disporre la cennata riserva, violerebbero il
diritto alla tutela giurisdizionale, desumibile dagli artt. 2, 3, 7,
24, 25, 101, 102 della Costituzione, in quanto la dispensa medesima
viene concessa discrezionalmente, a conclusione di un procedimento di
natura amministrativa.
La difesa di una parte costituita in giudizio (Amodeo) ha eccepito
la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della proposta
questione, non avendo il giudice a quo (Corte di appello di Palermo)
tenuto conto che, nella specie, il procedimento canonico concluso con
la dispensa, della quale si chiede la esecutività, si era svolto, a
suo dire, in modo ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che
sotto quello processuale, e che in tutte le fasi di esso era stato
pienamente rispettato il diritto delle parti alla difesa. Ma
nell'ordinanza di rinvio si denuncia il contrasto tra la struttura del
procedimento canonico e i principi che nell'ordinamento statale
presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti e all'esercizio
della difesa, a prescindere dalle peculiarità dello svolgimento del
procedimento medesimo nella fattispecie in esame. L'eccezione va
pertanto disattesa per le stesse ragioni, in base alle quali la Corte
ha respinto l'analoga eccezione mossa in punto di rilevanza della
questione enunciata sub A).
Nel merito la questione è fondata.
Rileva la Corte, che nell'ordinamento canonico, a norma del can.
1119 del Codex, "matrimonium non consummatum... dissolvitur... per
dispensationem a Sede Apostolica ex iusta causa concessam, utraque
parte rogante vel alterutra, etsi altera sit invita". Il provvedimento
di dispensa incide sul rapporto e non sull'atto, in quanto scioglie con
effetto ex nunc un rapporto matrimoniale instaurato sulla base di un
matrimonio validamente contratto. La richiesta della dispensa è
direttamente rivolta al Sommo Pontefice: "per supplicem petitionem
imploratur gratia ex benigna Summi Pontificis concessione obtinenda"
(cfr. Instructio del 7 marzo 1972 della Congregazione per la disciplina
dei sacramenti). Il relativo procedimento è di competenza
dell'anzidetta Congregazione, ma l'istruttoria di norma e demandata
agli Episcopi dioccesani, i quali provvedono ad instruere processum e a
trasmettere quindi il proprio voto pro rei veritate alla stessa
Congregazione per la decisione finale, che viene adottata con rescritto
pontificio. La già citata Instructio avverte che "processus super
matrimonio rato et non consummato non est iudicialis sed
administrativus, ac proinde differt a processu iudiciali pro causis
nullitatis matrimonii".
Pertanto, pur dando atto che il procedimento per ottenere la
dispensa super rato è minuziosamente disciplinato da apposite norme,
che l'istruttoria viene dall'Ordinario diocesano affidata ad un
tribunale, con l'intervento del Defensor vinculi e con la possibilità
per ambo le parti di farsi assistere da consulenti, che il "voto" viene
espresso sulla base delle risultanze istruttorie, non può certo, sulla
scorta anche delle testuali precisazioni fornite dalla richiamata
normativa, riconoscersi carattere giurisdizionale, né al procedimento
né al provvedimento concessivo che lo conclude.
Ora le denunciate norme - con il riservare ai "dicasteri
ecclesiastici" la competenza a pronunciarsi in via amministrativa sulla
risoluzione del rapporto matrimoniale validamente instaurato, mediante
un provvedimento amministrativo che, attraverso il procedimento di
esecutività disciplinato dalle norme medesime, acquista efficacia
anche nell'ordinamento dello Stato, facendo cessare gli effetti civili
del matrimonio canonico regolarmente trascritto ed incidendo così
sulla condizione giuridica dei coniugi - configurano un'alternativa
alla giurisdizione statuale. Allo Stato, invero, appartiene - come
ribadito da questa Corte con la sentenza n. 169 del 1971 - la
disciplina del vincolo matrimoniale, derivi esso da matrimonio civile o
da matrimonio canonico trascritto agli effetti civili; ed ai tribunali
dello Stato la legge 1 dicembre 1970, n. 898, ha demandato di giudicare
con carattere di generalità, tanto nei casi di "scioglimento del
matrimonio contratto a norma del codice civile" (art. 1), quanto nei
casi di "cessazione degli effetti civili" di matrimonio "celebrato con
rito religioso e regolarmente trascritto" (art. 2). E tra i casi per
cui può chiedersi a questi tribunali "lo scioglimento o la cessazione
degli effetti civili del matrimonio" figura anche l'ipotesi che "il
matrimonio non è stato consumato" (art. 3, n. 2, lett. f della citata
legge).
Ben vero che - secondo quanto affermato da questa Corte con la
sentenza n. 176 del 1973, nella quale, peraltro, come già detto, la
questione verteva sulla legittimità costituzionale della legge n. 898
del 1970 e non della normativa concordataria con la quale quest'ultima
veniva messa a raffronto - la introduzione, nella legge medesima, "di
una serie di cause di cessazione degli effetti civili del matrimonio
concordatario lascia intatte le riserve dell'art. 34 del Concordato",
tra le quali figura appunto la riserva per la dispensa dal matrimonio
rato e non consumato. Ma tale riserva, concretando un'alternativa alla
giurisdizione dei tribunali dello Stato, non può sottrarsi, benché
disposta con norma concordataria, fornita quindi di copertura
costituzionale, alla richiesta verifica se nel suo ambito sia
ugualmente assicurato quel diritto alla tutela giurisdizionale, cui
questa Corte, come dianzi affermato, riconosce dignità di supremo
principio dell'ordinamento costituzionale. E la risposta al quesito non
può non essere negativa, essendo incontestabile che la tutela
giurisdizionale dei diritti, pur considerata nel suo nucleo più
ristretto ed essenziale, non possa certo realizzarsi in un
procedimento, il cui svolgimento e la cui conclusione trovano
dichiaratamente collocazione nell'ambito della discrezionalità
amministrativa, e nel quale non vengono quindi garantiti alle parti un
giudice e un giudizio in senso proprio. A differenza di quanto si è,
invece, constatato, nelle pagine che precedono, per le controversie
relative alla nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti
civili, per le quali la riserva, ugualmente disposta dall'art. 34 del
Concordato, opera in favore di organi e di procedimenti aventi natura
giurisdizionale. Riserva, quest'ultima, a sostegno della quale, per di
più, militano le giustificazioni, dianzi ricordate, d'ordine razionale
e politico, sulle quali poggia il vigente sistema concordatario
matrimoniale, e che non possono, invece, essere ugualmente addotte per
la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici, ai fini della
successiva loro efficacia civile, dei provvedimenti di dispensa super
rato. Infatti la dispensa non concerne - come già si è detto - l'atto
del matrimonio, bensì il rapporto matrimoniale, nel presupposto della
validità dell'atto.
La constatata violazione del supremo principio del diritto alla
tutela giurisdizionale, desunto dai parametri costituzionali invocati
dai giudici a quibus, che vuole siano in ogni caso assicurati, a
chiunque e per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio - tanto
più allorché si tratti, come nella specie, di mutamento giuridico non
realizzabile nel nostro ordinamento se non attraverso una pronuncia
costitutiva del giudice (sentenza n. 176 del 1973) - comporta la
dichiarazione della illegittimità costituzionale delle denunciate
norme, nella parte in cui le stesse prevedono che la dispensa dal
matrimonio rato e non consumato, ottenuta attraverso l'apposito
procedimento amministrativo canonico, possa produrre effetti civili
nell'ordinamento dello Stato.
Resta in conseguenza assorbita la questione puntualizzata sub D),
in ordine alla legittimità costituzionale dei limiti posti ai poteri
di cognizione del giudice dello Stato nello speciale procedimento per
conferire esecutività agli effetti civili al provvedimento di dispensa
super rato, procedimento che per effetto della presente pronuncia non
ha più ragion d'essere.