N. 149
SENTENZA 4 MAGGIO-5 MAGGIO 1995
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE;
Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi
MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano
VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO,
dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 251, secondo
comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa
il 20 luglio 1994 dal Pretore di Torino nel procedimento civile
vertente tra Angerame Lucia e Di Ciommo Luciano ed altra iscritta al
n. 619 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno
1994;
Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice
relatore Antonio Baldassarre.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un giudizio promosso per ottenere il risarcimento dei
danni da responsabilità civile per circolazione di veicoli, nel
quale un teste, ammonito a prestare giuramento secondo la formula
stabilita dall'art. 251, secondo comma, del codice di procedura
civile, si è rifiutato di giurare adducendo che le sue convinzioni
religiose gli impedivano di prestare qualsiasi giuramento, il Pretore
di Torino ha sollevato, d'ufficio, la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice di procedure
civile, nella parte in cui tale norma prevede che il giudice
istruttore "ammonisce il teste sull'importanza religiosa, se
credente, e morale del giuramento" e gli legge la seguente formula:
"Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete
davanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire la
verità, null'altro che la verità" e non prevede che il teste debba
pronunciare, così come avviene nel processo penale (art. 497, comma
2, del codice di procedura penale), la seguente formula: "Consapevole
della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia
deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere
nulla di quanto è a mia conoscenza", oltreché nella parte in cui
prevede che il testimone pronunci le parole "lo giuro".
Dopo aver ricordato che, prima dell'entrata in vigore del nuovo
codice di procedura penale (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447) la
formula di giuramento del testimone nel processo civile e in quello
penale era la medesima e che il nuovo codice del 1988 ha introdotto
una norma (art. 497 cod. proc. pen. ) priva dell'ammonizione del
teste e contenente una formula di impegno senza riferimenti
religiosi, il giudice a quo muove dal rilievo che, con la sentenza n.
117 del 1979, questa Corte, parificando le formule di giuramento
utilizzate nel processo civile e in quello penale, sulla base della
considerazione che identici erano gli scopi perseguiti dal
legislatore con il giuramento del teste (maggior sprono a dire la
verità) e identiche erano le conseguenze sul piano penale, ha
aggiunto le parole "se credente" sia in relazione all'ammonimento del
teste sull'importanza religiosa dell'atto, sia in relazione al
giuramento prestato davanti a Dio. Ma, continua il giudice a quo,
tale decisione non ha risolto il problema di veder esclusa dal
processo la testimonianza di coloro che per convinzioni religiose si
rifiutano di prestare giuramento con qualsiasi formula e di evitare a
chi sta per prestare la testimonianza i turbamenti di coscienza
legati al fatto che egli non crede alla sacramentalità del
giuramento comunque prestato.
Più precisamente, ad avviso del giudice rimettente, la Corte con
quella decisione, mentre ha risolto il problema dell'obiezione di
coscienza al giuramento dei soli testimoni non credenti, ha invece
lasciato irrisolto il problema dei testimoni credenti che, per motivi
di fede o in adesione ai princip/' della propria confessione
religiosa, ricusino di prestare giuramento con qualunque formula
ovvero con una formula, come quella attuale del processo civile,
contenente un esplicito riferimento alla divinità. Di tali problemi
si sono dati carico vari giudici che negli anni successivi hanno
sollevato questioni di costituzionalità - volte a sostituire il
"giuramento" con altre formule come l'"impegno", la "promessa" e
simili - che la Corte, con sentenza n. 234 del 1984, ha dichiarato
inammissibili, in quanto le modifiche richieste comportavano "una
pluralità di scelte discrezionali individuabili dal solo
legislatore".
Tuttavia, ora, continua il giudice a quo, avendo adottato l'art.
497, comma 2, cod. proc. pen. , che ha sostituito alla formula del
"giuramento" una di "impegno" scevra dal riferimento alla divinità,
il legislatore ha operato la sua scelta almeno per quanto riguarda il
processo penale, creando così una differenza incostituzionale con il
processo civile a causa della mancata previsione in quest'ultimo di
una formula di impegno del teste a dire la verità identica a quella.
Questa omissione, ad avviso del giudice rimettente, determina una
disparità in conseguenza della quale l'art. 252, secondo comma, cod.
proc. civ., si pone in contrasto con l'art. 19 della Costituzione,
dove è garantita la libertà di coscienza religiosa, sotto un
triplice profilo: a) rispetto a colui che, pur credente, è impedito
dal suo credo religioso di prestare comunque il giuramento; b)
rispetto a coloro che, pur credenti, non venerano la stessa divinità
cui fa riferimento il legislatore nella norma impugnata; c) rispetto
a coloro che, in quanto non credenti, sono comunque costretti a far
riferimento a formule sacramentali, quali il giuramento, che creano
ad essi conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle
convinzioni del non credente. Infine, sempre secondo il giudice a
quo, l'art. 251, secondo comma, cod. proc. civ., sembra contrastare
anche con l'art. 24 della Costituzione, poiché, finendo con
l'escludere dal processo la testimonianza di coloro che per
convinzioni religiose non possono giurare e, quindi, testimoniare,
determina un'irragionevole compressione del diritto alla prova,
nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa.
A conclusione della sua ordinanza di rimessione, il giudice a quo
motiva sulla rilevanza osservando che, a seguito dell'eventuale
pronunzia di accoglimento, il giudice del processo principale
potrebbe richiamare il teste ex art. 257 cod. proc. civ., ovvero
potrebbe sempre sentirlo d'ufficio ex art. 317 cod. proc. civ. e
invitarlo, così, a pronunziare la formula di impegno stabilita
dall'art. 497, comma 2, cod. proc. pen. Inoltre, sempre nell'ipotesi
di una pronunzia favorevole di codesta Corte, lo stesso teste, oltre
a risparmiarsi le conseguenze penali del suo mancato giuramento,
potrebbe esser finalmente sentito ex art. 253 cod. proc. civ. e la
sua testimonianza non andrebbe perduta.
Considerato in diritto
1. - Adito per ottenere il risarcimento dei danni da
responsabilità civile, il Pretore di Torino, dopo che un testimone
si era rifiutato di prestare giuramento adducendo un impedimento di
coscienza a causa delle proprie convinzioni religiose, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 19 e 24 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell'art. 251, secondo comma, del codice
di procedura civile, nella parte in cui prevede che il giudice
istruttore "ammonisce il testimone sulla importanza religiosa, se
credente, e morale del giuramento" e gli legge la formula:
"Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete
davanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire la
verità, null'altro che la verità", anziché disporre, come
nell'art. 497, comma 2, del codice di procedura penale, che il
giudice istruttore "lo invita a rendere la seguente dichiarazione:
"Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con
la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non
nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza"; nonché nella parte
in cui lo stesso art. 251, secondo comma, del codice di procedura
civile, prevede che "il testimone presta il giuramento pronunciando
le parole: "lo giuro".
2. - La questione è fondata, dal momento che le norme contestate
si pongono in contrasto con gli artt. 3 e 19 della Costituzione.
Come questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. sentenza n.
467 del 1991, nonché sentenza n. 422 del 1993), "poiché la
coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio
creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali
dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti
inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una
protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle
libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi
nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di
preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle
potenzialità di determinazione della coscienza medesima". Ciò
significa - si legge ancora nella sentenza ora citata - che, se pure
a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla
con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a
graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare
pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei
servizi di interesse generale, la libertà di coscienza - specie se
correlata all'espressione dei propri convincimenti morali o
filosofici (art. 21 della Costituzione) ovvero, come nel caso, alla
propria fede o credenza religiosa (art. 19 della Costituzione) -
dev'essere protetta in misura proporzionata "alla priorità assoluta
e al carattere fondante" ad essa riconosciuta nella scala dei valori
espressa dalla Costituzione italiana.
In tema di giuramento dei testimoni, tali princip/', di validità
generale, sono stati affermati da questa Corte in varie occasioni.
Una prima volta, chiamata a giudicare della compatibilità del
richiamo, operato proprio dalla norma ora impugnata (art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ.), alla responsabilità che il
testimone assume davanti a Dio rispetto alla tutela accordata
dall'art. 19 della Costituzione alla libertà di coscienza dei non
credenti, quale libertà "negativa" di professare una fede o
un'opinione religiosa, questa Corte, con la sentenza n. 117 del 1979,
ha riconosciuto che l'imposizione a tutti indiscriminatamente di una
formula di giuramento comportante l'assunzione di responsabilità
davanti a Dio può provocare nei non credenti "turbamenti, casi di
coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà
alle proprie convinzioni", così da rappresentare un ingiustificato
ostacolo alla piena garanzia del valore costituzionale della libertà
di coscienza. In conseguenza della decisione ora ricordata e
dell'addizione dell'inciso "se credente" da essa operata in
riferimento al giuramento di fronte a Dio, la formula del giuramento
del testimone nel processo civile (e, a seguito della dichiarazione
di invalidità consequenziale, anche nel processo penale, come
regolato dal codice di procedura previgente), ha assunto un duplice e
distinto significato: per i credenti il giuramento ha una valenza sia
religiosa che morale, con conseguente assunzione di responsabilità
tanto avanti a Dio quanto avanti agli uomini; per i non credenti lo
stesso giuramento ha una valenza esclusivamente morale, comportante
un'assunzione di responsabilità soltanto verso gli uomini.
In una successiva occasione, che costituisce precedente specifico
della decisione in esame, la Corte, chiamata a giudicare della
legittimità costituzionale del dovere del testimone di prestare
giuramento tanto nel processo civile (art. 251 cod. proc. civ.)
quanto in quello penale (artt. 142 e 449 cod. proc. pen. previgente),
ha implicitamente riconosciuto il conflitto di tale dovere con la
libertà di coscienza del testimone la cui religione di appartenenza
faccia divieto di prestare comunque giuramento e, persino, di
pronunziare le parole "lo giuro", ma, rilevando che la decisione
comportava una pluralità di soluzioni alternative, fra le quali
soltanto il legislatore, nell'esercizio del suo insindacabile potere
discrezionale, era autorizzato a scegliere (come la sostituzione del
"giuramento" con formule diverse, quali l'"impegno" o la "promessa";
la previsione di una formula unica ovvero la predeterminazione di due
o più formule alternative la cui scelta fosse personalmente
demandata al testimone, etc.), ha dichiarato, con la sentenza n. 234
del 1984, l'inammissibilità delle questioni allora sollevate.
Analoga pronunzia è stata resa da questa Corte, l'anno dopo,
riguardo a un'identica questione sollevata nei confronti delle norme
sul giuramento del testimone nel processo penale (v. ordinanza n. 278
del 1985).
3. - Successivamente alle decisioni ora ricordate, il legislatore,
adottando il nuovo codice di procedura penale, è intervenuto sul
problema escludendo l'opzione, pur non incompatibile con i princip/'
costituzionali, implicante la predeterminazione legislativa di
formule di "impegno" o di "promessa" accanto a quella di "giuramento"
al fine di lasciare alla libertà dei singoli testimoni la scelta
dell'una o dell'altra formula in armonia con le proprie convinzioni
morali o religiose. In luogo di questa opzione, vigente in altri
ordinamenti, il facitore del codice di procedura penale del 1988 ha
scelto la soluzione legislativa di un'unica formula (art. 497 cod.
proc. pen. ) contenente l'"impegno" solenne del teste a dire la
verità, nella quale, "in omaggio alla tutela della libertà di
coscienza", come si legge nella "Relazione al progetto", il
testimone, dopo essere stato avvertito dal giudice relativamente
all'obbligo di dire la verità e alle responsabilità previste dalla
legge penale per i testimoni falsi o reticenti, è invitato a rendere
la seguente dichiarazione: "Consapevole della responsabilità morale
e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire
tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia
conoscenza".
In conseguenza di questa scelta del legislatore, limitata al solo
processo penale, il giudice a quo ritiene che si sia creata
nell'ordinamento un'irragionevole differenziazione in danno della
disciplina normativa prevista per l'esame dei testimoni nel processo
civile, disciplina tuttora basata sulla formula di giuramento comune
ai due processi anteriormente all'emanazione del nuovo codice di
procedura penale. Infatti, secondo il giudice rimettente, si è
venuta a determinare una differente tutela del valore costituzionale
della libertà di coscienza nei preliminari della testimonianza nei
due distinti procedimenti, per il fatto che, diversamente da quanto
è garantito ai testimoni nel processo penale, a coloro che sono
chiamati a testimoniare nel processo civile non è evitato il rischio
di essere sottoposti a gravi turbamenti di coscienza a causa del
conflitto interno fra il dovere civile di contribuire
all'accertamento della verità giudiziale e il dovere morale di
osservare un imperativo religioso da essi condiviso (con conseguente
pregiudizio, nei casi di rifiuto a testimoniare, nei confronti del
diritto di difesa, sotto specie di diritto alla prova).
Ed invero l'asimmetria sussistente nell'ordinamento quanto alla
differente tutela accordata alla libertà di coscienza del testimone
nel processo penale e in quello civile manifesta un'irragionevole
disparità di trattamento in relazione alla protezione di un diritto
inviolabile dell'uomo, la libertà di coscienza, che, come tale,
esige una garanzia uniforme o, almeno, omogenea nei vari ambiti in
cui si esplica.
Né, d'altra parte, può logicamente affermarsi che la diversità
di trattamento contestata sia giustificabile in dipendenza della
differente struttura dei due procedimenti, dal momento che, come ha
già implicitamente ammesso questa Corte con la sentenza n. 117 del
1979 allorché ha esteso la declaratoria d'incostituzionalità della
disciplina processual-civilistica a quella processual-penalistica, il
trattamento normativo del giuramento del testimone nei due distinti
procedimenti concerne aspetti comuni o, comunque, omogenei. Infatti,
come ha correttamente ricordato il giudice a quo , identica è nei
due casi la ratio legis (spronare il teste a dire la verità) e
identiche sono le conseguenze penali per chi si rifiuta, nell'uno o
nell'altro dei processi, di prestare giuramento.
Il particolare profilo sottoposto al presente giudizio, cioè
l'irragionevole disparità di trattamento in relazione alla garanzia
della libertà di coscienza religiosa, non consente di oltrepassare i
confini del giuramento del testimone e di affrontare il problema del
giuramento in generale (anche alla luce dell'art. 54 della
Costituzione). Tuttavia non è senza significato sottolineare che la
soluzione prescelta dal legislatore per il processo penale - nella
specie assunta come tertium comparationis - rappresenta
un'attuazione, fra quelle possibili, del "principio supremo della
laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato
delineata nella Carta costituzionale della Repubblica": un principio
che "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione,
in regime di pluralismo confessionale e culturale" (v. sentenza n.
203 del 1989, nonché sentenze nn. 195 del 1993 e 259 del 1990).
Pertanto, al fine di assicurare tale pari tutela al valore della
libertà di coscienza riguardo all'obbligo del testimone di
impegnarsi a dire la verità, si impone l'estensione all'art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ., della disciplina e della formula
previste dall'art. 497, comma 2, cod. proc. pen. , le quali sono
scevre da qualsiasi riferimento a prestazioni di giuramento. Di modo
che, a seguito di questa pronunzia di accoglimento, l'art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ., risulta così formulato: "Il giudice
istruttore avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e
delle conseguenze penali delle dichiarazioni false e reticenti e lo
invita a rendere la seguente dichiarazione: "Consapevole della
responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione,
mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto
è a mia conoscenza".
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 251, secondo
comma, del codice di procedura civile:
a) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore
"ammonisce il testimone sull'importanza religiosa, se credente, e
morale del giuramento e sulle", anziché stabilire che il giudice
istruttore "avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e
delle";
b) nella parte in cui prevede che il giudice istruttore "legge
la formula: "Consapevole della responsabilità che con il giuramento
assumete davanti a Dio, se credente, e agli uomini, giurate di dire
la verità, null'altro che la verità", anziché stabilire che il
giudice istruttore "lo invita a rendere la seguente dichiarazione:
"Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con
la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non
nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza";
c) nella parte in cui prevede: "Quindi il testimone, in piedi,
presta il giuramento pronunciando le parole: "lo giuro".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 maggio 1995.
Il Presidente e redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 5 maggio 1995.
Il direttore della cancelleria: DI PAOLA