Ritenuto in fatto
1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di
Siena - investito dal Pubblico Ministero della emissione di un
decreto di archiviazione in relazione a un giudizio concernente il
delitto di cui all'art. 314 c.p., il quale era stato iniziato a
séguito di una notitia criminis emersa nel corso di intercettazioni
telefoniche autorizzate in relazione ad altro giudizio relativo
all'accertamento del reato di cui all'art. 648 c.p. - ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 270, primo comma,
c.p.p., il quale consente la utilizzazione dei risultati delle
intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono
state disposte solo se risultino indispensabili per l'accertamento di
delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Secondo
il giudice a quo, tale divieto assoluto di utilizzazione dei
risultati delle intercettazioni in altri procedimenti contrasterebbe
con gli artt. 3 e 112 della Costituzione.
Premesso che per il reato di cui all'art. 314 c.p. è competente
per materia il Tribunale e che, pertanto, egli stesso, anziché
accogliere la richiesta di archiviazione, dovrebbe emettere sentenza
di incompetenza e trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica,
il giudice a quo ritiene che gli sia tuttavia inibito emettere anche
una sentenza di tale tipo, non potendo egli legittimamente utilizzare
la notitia criminis in ragione del disposto di cui all'art. 270,
primo comma, c.p.p., il quale vieta l'utilizzabilità dei risultati
delle intercettazioni in procedimenti (e non già in processi)
diversi, salvo che quei risultati siano indispensabili per
l'accertamento di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in
flagranza (ipotesi che non si verifica nel giudizio a quo). Infatti,
ad avviso del giudice rimettente, l'estensione del divieto di
utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni alle indagini
preliminari, e cioè a una fase pre- ed extra-processuale avente la
finalità di cui all'art. 326 c.p.p., vanifica completamente lo scopo
di acquisizione degli elementi necessari al p.m. per le
determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale e, di
conseguenza, rende impossibile al p.m. stesso tali determinazioni in
relazione a elementi rilevabili dalla stessa intercettazione oppure
acquisibili per effetto delle indagini consequenziali, anche se
coattivamente disposte dal Giudice per le indagini preliminari
investito della richiesta di archiviazione.
Sotto tale profilo, continua il giudice a quo, si può prospettare
la lesione del principio, disposto dall'art. 112 della Costituzione,
relativo alla obbligatorietà dell'azione penale da parte del p.m.,
obbligatorietà che non è limitata a determinati tipi di reati e,
men che meno, a quelli per i quali è obbligatorio l'arresto in
flagranza, ma è estesa a tutti i reati. Contro tale principio
sembra, dunque, porsi l'art. 270, alinea, c.p.p., in quanto il p.m.,
di fronte a una notitia criminis emersa da intercettazioni disposte
in un certo processo, non potrebbe attivare le indagini di cui
all'art. 326 c.p.p. (certamente essenziali e strumentali all'obbligo
di esercizio dell'azione penale) e neppure potrebbe esercitare
direttamente l'azione penale stessa.
Sempre secondo il giudice a quo, l'art. 270, primo comma, c.p.p.,
così come sopra interpretato, contrasterebbe anche con "il principio
del divieto di illogica differenziazione di cui all'art. 3 Cost.,
alla luce della corretta mancata limitazione ai soli reati per i
quali è obbligatorio l'arresto in flagranza da parte dello stesso
principio di cui all'art. 112 Cost.".
2. - È intervenuto nel presente giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata.
Premesso che non può dubitarsi della legittimità della
esclusione (e della limitazione) del valore probatorio delle
intercettazioni in procedimenti diversi da quello nel quale furono
autorizzate, l'Avvocatura dello Stato osserva che il divieto di cui
all'art. 270 c.p.p. "afferisce al piano dell'efficacia probatoria e
non a quello, del tutto diverso, della acquisizione degli elementi
necessari al pubblico ministero per le determinazioni inerenti
all'esercizio dell'azione penale". Conseguentemente, "in nessun caso
può ritenersi pregiudicato il potere-dovere del pubblico ministero,
di fronte ad una notitia criminis relativa ad un reato per il quale
non è obbligatorio l'arresto, di attivare le indagini di cui
all'art. 326 c.p.p.". Ad avviso dell'Avvocatura, infatti, le notizie
ricavabili da intercettazioni costituiscono pur sempre fatti storici
rilevanti al fine di promuovere le indagini necessarie ad accertare
la possibile esistenza di reati e ad esercitare l'azione penale.
Esclusa, dunque, la violazione dell'art. 112 della Costituzione,
l'Avvocatura conclude contestando anche la fondatezza del richiamo,
peraltro estremamente generico, all'art. 3 della Costituzione.
Considerato in diritto
1. - L'art. 270, primo comma, c.p.p., il quale dispone che "i
risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in
procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo
che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i
quali è obbligatorio l'arresto in flagranza", è sospettato
d'illegittimità costituzionale dal Giudice per le indagini
preliminari presso la Pretura di Siena per violazione dell'art. 112
della Costituzione ("il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare
l'azione penale") e del divieto di illogica disparità stabilito
dall'art. 3 della Costituzione. Secondo il giudice a quo, la
disposizione impugnata - nel vietare che i risultati delle
intercettazioni telefoniche disposte nell'ambito di un determinato
processo possano essere utilizzati "in procedimenti diversi", e
pertanto anche nella fase pre- ed extra-processuale delle indagini
preliminari, - vanificherebbe il principio costituzionale
dell'obbligatorietà dell'azione penale e contrasterebbe, inoltre,
con il principio "del divieto di illogica differenziazione di cui
all'art. 3 Cost., alla luce della corretta mancata limitazione ai
soli reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza da
parte dello stesso principio di cui all'art. 112 Cost.".
2. - Deve innanzitutto essere dichiarata la inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento
all'art. 3 della Costituzione, in quanto, in difetto di adeguata
motivazione, non può individuarsi in modo univoco il contenuto e il
senso della censura proposta.
3. - La questione di legittimità costituzionale in riferimento
all'art. 112 della Costituzione non è fondata.
L'art. 270 c.p.p. costituisce l'attuazione in via legislativa del
bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti: il
diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle
loro comunicazioni e l'interesse pubblico a reprimere i reati e a
perseguire in giudizio coloro che delinquono.
Sin dalla sentenza n. 34 del 1973, questa Corte ha affermato che
la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro
mezzo di comunicazione costituiscono un diritto dell'individuo
rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere
espressamente qualificato dall'art. 15 della Costituzione come
diritto inviolabile.
La stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei
valori di personalità - che inducono a qualificarlo come parte
necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il
quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i
postulati della dignità umana - comporta una duplice
caratterizzazione della sua inviolabilità. In base all'art. 2 della
Costituzione, il diritto a una comunicazione libera e segreta è
inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non
può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora
un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al
sistema democratico voluto dal Costituente. In base all'art. 15 della
Costituzione, lo stesso diritto è inviolabile nel senso che il suo
contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da
alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell'inderogabile
soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente
rilevante, sempreché l'intervento limitativo posto in essere sia
strettamente necessario alla tutela di quell'interesse e sia
rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai
requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura
limitativa sia disposta con atto motivato dell'autorità giudiziaria.
Non v'è dubbio - e questa Corte l'ha affermato più volte (v.
sentt. nn. 34 del 1973, 120 del 1975, 98 del 1976 e 223 del 1987) -
che l'esigenza di amministrare la giustizia e, in particolare, quella
di reprimere i reati corrisponda a un interesse pubblico primario,
costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente
inderogabile. Allo stesso modo, non si può dubitare - e questa Corte
non ha mai dubitato - che tale interesse primario giustifichi anche
il ricorso a un mezzo dotato di formidabile capacità intrusiva,
quale l'intercettazione telefonica. Tuttavia, proprio perché si
tratta di uno strumento estremamente penetrante e in grado di
invadere anche la privacy di soggetti terzi, del tutto estranei ai
reati per i quali si procede, e proprio perché la Costituzione
riconosce un particolare pregio all'intangibilità della sfera
privata negli aspetti più significativi e più legati alla vita
intima della persona umana, le restrizioni alla libertà e alla
segretezza delle comunicazioni conseguenti alle intercettazioni
telefoniche sono sottoposte a condizioni di validità particolarmente
rigorose, commisurate alla natura indubbiamente eccezionale dei
limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile,
quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 della
Costituzione).
In base a tali premesse, questa Corte (v., in particolare, sent.
n. 34 del 1973) ha sottolineato con forza tanto che l'atto
dell'autorità giudiziaria con il quale vengono autorizzate le
intercettazioni telefoniche deve essere "puntualmente motivato" o,
per usare un'altra espressione presente nella stessa sentenza, deve
avere una "adeguata e specifica motivazione", quanto che
l'utilizzazione in giudizio come elementi di prova delle informazioni
raccolte con le intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito
di un processo deve essere circoscritta alle informazioni
strettamente rilevanti al processo stesso.
Nel collegare questa affermazione direttamente agli artt. 2 e 15
della Costituzione, questa Corte ha chiaramente presupposto che la
predetta garanzia sia una immediata conseguenza del principio
costituzionale che le intercettazioni telefoniche debbano essere
disposte senza eccezioni con atto motivato dell'autorità
giudiziaria, poiché è da quest'ultimo che deriva direttamente il
vincolo che nell'atto giudiziale di autorizzazione delle
intercettazioni siano quantomeno predeterminati sia i soggetti da
sottoporre al controllo, sia i fatti costituenti reato per i quali in
concreto si procede. Infatti, giova sottolineare che l'art. 15 della
Costituzione - oltre a garantire la "segretezza" della comunicazione
e, quindi, il diritto di ciascun individuo di escludere ogni altro
soggetto diverso dal destinatario della conoscenza della
comunicazione - tutela pure la "libertà" della comunicazione:
libertà che risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o,
comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di
divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è
venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di
intercettazioni al fine dell'accertamento in giudizio di determinati
reati. Di qui consegue che l'utilizzazione come prova in altro
procedimento trasformerebbe l'intervento del giudice richiesto
dall'art. 15 della Costituzione in un'inammissibile autorizzazione in
bianco", con conseguente lesione della "sfera privata" legata alla
garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di
riservatezza incombente su tutti coloro che ne siano venuti a
conoscenza per motivi di ufficio.
Dalla tutela della libertà di comunicazione deriva dunque che, in
via di principio, è vietata l'utilizzabilità dei risultati di
intercettazioni validamente disposte nell'ambito di un determinato
giudizio come elementi di prova in processi diversi, per il semplice
fatto che, ove così non fosse, si vanificherebbe l'esigenza più
volte affermata da questa Corte che l'atto giudiziale di
autorizzazione delle intercettazioni debba essere puntualmente
motivato nei sensi e nei modi precedentemente chiariti.
4. - Interpretato come divieto di utilizzabilità, quali fonti di
prova in procedimenti diversi, dei risultati delle intercettazioni
legittimamente disposte in un determinato giudizio, l'art. 270, primo
comma, c.p.p., appare nel suo complesso come l'immediata attuazione
in via legislativa dei principi costituzionali sopra enunciati. Il
giudice a quo, tuttavia, muovendo dal rilievo che l'espressione
"procedimenti" denota un campo semantico comprensivo della fase pre-processuale delle indagini preliminari, ritiene che l'art. 270, primo
comma, c.p.p., possa essere interpretato in un senso più ampio,
comportante anche la preclusione dell'utilizzazione delle
informazioni raccolte attraverso intercettazioni legittimamente
disposte in un determinato procedimento come fonti da cui
eventualmente desumere una notitia criminis. Sulla base di questa
interpretazione, lo stesso giudice a quo dubita che siffatta
preclusione sia conforme a Costituzione, poiché, a suo avviso,
quest'ultima vanificherebbe il principio costituzionale della
obbligatorietà dell'azione penale, disposto dall'art. 112 della
Costituzione.
Occorre premettere che, fermo restando che l'eventuale
utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti
diversi da quello per cui sono state disposte deve commisurarsi con i
principi costituzionali sopra enunciati, per altro verso, l'ipotetica
estensione di tale divieto al di là del campo probatorio rientra nel
discrezionale apprezzamento del legislatore allorché determina la
conformazione del processo penale sulla base dei principi ispiratori
da esso prescelti, sempreché questi, naturalmente, non siano
contrari alla Costituzione. Il limite che in tale direzione incontra
il legislatore è, come sempre si richiede in questi casi, quello
della non irragionevolezza delle sue scelte e della coerenza della
disciplina predisposta con il sistema di cui quella è parte e con i
relativi principi ispiratori. È su questa base, quindi, che va
apprezzata la validità dell'interpretazione proposta dal giudice a
quo e, prima ancora, la plausibilità della stessa.
Sotto il profilo ora indicato, va sottolineato che la stessa
lettura integrale dell'art. 270 c.p.p. induce a escludere la
plausibilità dell'interpretazione proposta dal giudice rimettente.
In particolare, occorre considerare che l'art. 270, al secondo comma,
stabilisce che "ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i
verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati
presso l'autorità competente per il diverso procedimento". E, subito
dopo, aggiunge: "si applicano le disposizioni dell'articolo 268,
commi 6, 7 e 8". Ebbene, oltre a sottolineare che il rinvio a queste
ultime disposizioni, le quali concernono le garanzie della difesa per
l'acquisizione delle intercettazioni degli atti del procedimento,
presuppone chiaramente la pendenza di un diverso procedimento
all'interno del quale utilizzare le intercettazioni legittimamente
disposte in altro procedimento, si può affermare con certezza che la
previsione dell'applicazione della procedura stabilita nell'art. 268
ai commi citati ha un senso unicamente nella prospettiva che ai
risultati delle intercettazioni telefoniche si attribuisca efficacia
probatoria. E ciò è confermato dal terzo comma dello stesso
articolo impugnato, il quale attribuisce al pubblico ministero e ai
difensori delle parti "la facoltà di esaminare i verbali e le
registrazioni in precedenza depositate nel procedimento in cui le
intercettazioni furono autorizzate". In altri termini, l'art. 270,
visto nell'insieme dei suoi commi, mostra di presupporre che il
divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni
legittimamente disposte in un determinato procedimento debba esser
riferito soltanto a processi diversi e all'utilizzabilità degli
stessi risultati come elementi di prova.
Né, invece, può riconoscersi valore decisivo al rilievo che la
dizione originariamente contenuta nella rubrica dell'art. 270 era
"utilizzazione in altri processi" e che questa nel corso dei lavori
preparatori è stata successivamente sostituita con la diversa
dizione "utilizzazione in altri procedimenti". Infatti, a parte che
tale modifica è stata presumibilmente apportata, non già al fine di
modificare il significato della disposizione, ma al solo scopo di
uniformare la dizione della rubrica al testo contenuto nel primo
comma dell'articolo, occorre considerare che argomenti meramente
lessicali, come quello ora esaminato, possono avere un significato
soltanto nel caso che risultino suffragati da sicuri argomenti di
ordine sistematico o attinenti alla ratio delle disposizioni considerate. Tuttavia, nell'ipotesi esaminata, non solo ciò non si
verifica, ma all'argomento testuale addotto dal giudice a quo se ne
può contrapporre uno opposto della stessa natura, consistente nel
rilievo che nel nuovo codice di procedura penale il termine
"utilizzazione" è normalmente riferito alle sole prove (v., ad
esempio, artt. 191, 238, quarto comma, 526 e 606, lettera c).
5. - Su tali basi e in linea con la giurisprudenza consolidata
formatasi sotto il codice precedente, può concludersi che il divieto
disposto dall'art. 270 c.p.p. è estraneo al tema della possibilità
di dedurre "notizie di reato" dalle intercettazioni legittimamente
disposte nell'ambito di altro procedimento. La conoscenza di fatti
astrattamente qualificabili come illeciti penali che venga acquisita
attraverso intercettazioni legittimamente autorizzate o, all'interno
del medesimo procedimento, per altri reati, non impone al P.M.
l'inizio di un procedimento, ma consente piuttosto che egli proceda
ad accertamenti volti ad acquisire nuovi elementi di prova sulla cui
base soltanto potrà successivamente proporre l'azione penale. Tanto
più ciò vale in un sistema nel quale si prevede che "il P.M. e la
polizia giudiziaria acquisiscono le notizie di reato di propria
iniziativa" (art. 330 c.p.p.), e si attribuisce rilevanza pure a
eventuali notizie di reato apprese dal pubblico ministero al di fuori
dell'esercizio delle proprie funzioni (v. art. 70 del R.D. 30 gennaio
1941, n. 12, come sostituito dall'art. 20 del d.P.R. 22 settembre
1948, n. 449).
In definitiva, dovendosi escludere che il divieto di utilizzazione
in altri procedimenti dei risultati delle intercettazioni telefoniche
legittimamente disposte in un determinato processo possa estendersi,
stando a una corretta interpretazione dell'art. 270 c.p.p., anche
all'utilizzazione degli stessi risultati al fine dell'eventuale e
successiva proposizione dell'azione penale, vengono meno in radice i
dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal giudice a quo.