Titolo
SENT. 166/96 A. PREVIDENZA ED ASSISTENZA SOCIALE - INDEBITO PENSIONISTICO PERCEPITO IN BUONA FEDE - LAMENTATA RIPETIBILITA' - DEDOTTA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 3 E 38, SECONDO COMMA, COST. - ERRATA INDIVIDUAZIONE DELLA NORMA IMPUGNABILE - MANIFESTA INAMMISSIBILITA'.
Testo
Manifesta inammissibilita' della questione per errata individuazione della norma impugnabile. Invero, l'art. 2033 cod. civ. per se stesso non e' censurabile in riferimento ad alcun parametro costituzionale, essendo improntato al principio di giustizia che vieta l'arricchimento senza causa a detrimento altrui, e riducendosi nel diritto previdenziale - dove tale principio e' mitigato da disposizioni ispirate a criteri di equita' e di solidarieta' - alla funzione di norma di chiusura, operante nei soli casi non soggetti a discipline speciali. (Nel caso di specie, "la questione sollevata dal giudice 'a quo' avrebbe dovuto appuntarsi sull'art. 80, terzo comma, del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422", cioe' sulla norma previdenziale che, escludendo l'art. 2033, citato, dal proprio ambito applicativo, lo rimette alla regola civilistica). red.: G. Leo
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Costituzione
art. 38
co. 2
Riferimenti normativi
codice civile
n. 0
art. 2033
co. 0
Titolo
SENT. 166/96 B. PREVIDENZA ED ASSISTENZA SOCIALE - INDEBITO PENSIONISTICO PERCEPITO IN BUONA FEDE (NELLA SPECIE: DOPPIA INTEGRAZIONE AL TRATTAMENTO MINIMO CORRISPOSTA AL TITOLARE DI PIU' PENSIONI, RISULTANTE NON DOVUTA SULLA SECONDA PENSIONE PER SUPERAMENTO DEI LIMITI DI REDDITO INDICATI NEL PRIMO COMMA DELL'ART. 6 DEL D.L. 12 SETTEMBRE 1983, N. 463, CONV. IN LEGGE 11 NOVEMBRE 1983, N. 638) - LAMENTATA RIPETIBILITA' - RITENUTA INGIUSTIFICATA DISPARITA' DI TRATTAMENTO "SIA NEI RAPPORTI INTERNI TRA PENSIONATI DELL'INPS, SIA NEI RAPPORTI ESTERNI DEI PENSIONATI INPS CON I PENSIONATI EX DIPENDENTI PUBBLICI" - INSUSSISTENZA - NON FONDATEZZA.
TestoNon e' fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimita' costituzionale - sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. - dell'art. 6, comma 11-'quinquies', del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (recante: "Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini"), convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638 - il quale, consentendo il recupero delle somme erogate in eccedenza senza limiti e condizioni, <
>, nel caso di doppia integrazione al trattamento minimo corrisposta al titolare di piu' pensioni, risultante non dovuta sulla seconda pensione per superamento dei limiti di reddito indicati nel comma 1, determinerebbe una ingiustificata disparita' di trattamento sia nei rapporti interni tra pensionati dell'INPS, sia nei rapporti esterni dei pensionati INPS con i pensionati ex dipendenti pubblici - in quanto, sotto il primo profilo, il 'tertium comparationis', cioe' l'art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88, non e' proponibile, sia perche' i pagamenti indebiti della cui ripetizione si controverte sono avvenuti nella massima parte prima dell'entrata in vigore di questa legge, sia soprattutto per la diversita' di fattispecie delle norme messe a confronto; e, sotto il secondo profilo, il termine di confronto, cioe' l'art. 206 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, sulle pensioni dei dipendenti statali, non e' idoneo perche', per costante giurisprudenza della Corte, non sono istituibili paragoni tra sistemi previdenziali diversi, tanto piu' che il sistema pensionistico dei dipendenti pubblici ignora l'istituto dell'integrazione al minimo. red.: G. Leo
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 3
Riferimenti normativi
decreto-legge
12/09/1983
n. 463
art. 6
co. 11
legge
11/11/1983
n. 638
art. 0
co. 0
Titolo
SENT. 166/96 C. PREVIDENZA ED ASSISTENZA SOCIALE - INDEBITO PENSIONISTICO PERCEPITO IN BUONA FEDE (NELLA SPECIE: DOPPIA INTEGRAZIONE AL TRATTAMENTO MINIMO CORRISPOSTA AL TITOLARE DI PIU' PENSIONI, RISULTANTE NON DOVUTA SULLA SECONDA PENSIONE PER SUPERAMENTO DEI LIMITI DI REDDITO INDICATI NEL PRIMO COMMA DELL'ART. 6 DEL D.L. 12 SETTEMBRE 1983, N. 463, CONV. IN LEGGE 11 NOVEMBRE 1983, N. 638) - LAMENTATA RIPETIBILITA' - DEDOTTA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DEI PENSIONATI AD AVERE ASSICURATI MEZZI ADEGUATI ALLE LORO ESIGENZE DI VITA - INSUSSISTENZA - NON FONDATEZZA.
TestoNon e' fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimita' costituzionale - sollevata in riferimento all'art. 38, secondo comma, Cost. - dell'art. 6, comma 11-'quinquies', del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (recante: "Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, il quale, nel caso di doppia integrazione al trattamento minimo corrisposta al titolare di piu' pensioni, risultante non dovuta sulla seconda pensione per superamento dei limiti di reddito indicati nel comma 1, consente il recupero delle somme erogate in eccedenza senza limiti e condizioni <
>, in quanto - premesso che la norma indubbiata contiene una lacuna di previsione relativamente ad un caso differenziato da una connotazione che lo colloca fuori dalla 'ratio' della norma stessa, e quindi tale da far apparire incongrua l'applicazione di questa, cioe' il caso in cui l'INPS continui a corrispondere l'integrazione della seconda pensione pur trovandosi in grado di accertare il superamento del limite di reddito - detta lacuna autorizza l'interprete ad operare una riduzione teleologica (funzionale alla 'ratio legis') della disposizione, introducendo una corrispondente eccezione conforme ad un principio direttivo del sistema dell'indebito previdenziale ricavabile dalle norme particolari che lo compongono. Principio che, nella specie, puo' essere specificato in via interpretativa, coordinando l'art. 6, comma 11-'quinquies' col precedente comma 4; ne discende, secondo un criterio di logica pratica o di ragionevolezza, che la ripetibilita' cessa laddove l'ente previdenziale abbia continuato il pagamento dell'integrazione al minimo pur avendo la disponibilita' delle informazioni necessarie per l'accertamento del reddito del pensionato, o in seguito alla tempestiva presentazione della dichiarazione sostitutiva del certificato fiscale, alla quale e' tenuto ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. n. 463 del 1983 o, altrimenti, per esempio, attraverso una comunicazione del datore di lavoro alle cui dipendenze il pensionato ha trovato occupazione, oppure perche' entrambe le pensioni sono pagate dall'ente stesso, che percio' e' in condizione di conoscere da se' se e quando l'importo della prima sia aumentato oltre il limite di reddito ostativo dell'integrazione al minimo della seconda. - Cfr., altresi', S. n. 431/1993, nella quale la Corte ha enucleato il seguente <> nel senso che, diversamente <>. Tale principio e' enunciato "in termini negativi e percio' bisognosi di specificazione in rapporto alle varie ipotesi". red.: G. Leo
Parametri costituzionali
Costituzione
art. 38
co. 2
Riferimenti normativi
decreto-legge
12/09/1983
n. 463
art. 6
co. 11
legge
11/11/1983
n. 638
art. 0
co. 0
N. 166
SENTENZA 16-24 MAGGIO 1996
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA,
prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo
CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo
MEZZANOTTE;
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma
11-quinquies del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure
urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento
della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica
amministrazione e proroga di taluni termini), convertito in legge 11
novembre 1983, n. 638, e dell'art. 2033 del codice civile, promossi
con ordinanze emesse il 7 aprile 1995 (n. 7 ordinanze) dalla Corte di
cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 856, 857, 858, 861, 862,
863 e 864 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno
1995;
Visti gli atti di costituzione di Bellodi Letizia, Zambonelli
Angiolina, Trezzi Virginio ed altra, Zamuner Mario, Roversi Bruno ed
altra, Giramonti Margherita e dell'INPS nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 16 aprile 1996 il giudice relatore
Luigi Mengoni;
Uditi gli avvocati Franco Agostini per Zambonelli Angiolina, Trezzi
Virginio ed altra, Salvatore Cabibbo per Zamuner Mario, Giovanni
Angelozzi per Giramonti Margherita, Carlo De Angelis e Giorgio
Starnoni per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1.1. - Nel corso di tre procedimenti nei quali è controverso il
diritto dell'INPS di ripetere da titolari di più pensioni somme
pagate a titolo di integrazione al minimo della seconda pensione, ma
non dovute a ragione del superamento dei limiti di reddito stabiliti
dall'art. 6, primo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463,
convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, la Corte di
cassazione, con tre ordinanze del 7 aprile 1995, pervenute alla Corte
costituzionale il 21 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 11-quinquies del
citato decreto-legge n. 463 del 1983, il quale dispone: "Le gestioni
previdenziali possono procedere al recupero sul trattamento di
pensione delle somme erogate in eccedenza anche in deroga ai limiti
posti dalla normativa vigente".
Il giudice rimettente premette, in linea di fatto, che le tre cause
riguardano la prima il periodo 1 maggio 1987-30 giugno 1989, la
seconda tutti gli anni successivi al 1983, la terza il periodo 1
gennaio 1988-31 dicembre 1989; in linea di diritto che, secondo la
giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione
(sentenza n. 1965 del 1995), in nessuna delle fattispecie sono
applicabili né l'art. 80 del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, né -
nella prima e nella terza per il tratto del periodo di riferimento
successivo al 28 marzo 1988 - l'art. 52 della legge 9 marzo 1989, n.
88, tali discipline essendo derogate, in materia di integrazioni al
minimo corrisposte indebitamente, dalla norma speciale dell'art. 6,
comma 11-quinquies del d.-l. n. 463 del 1983. Questa norma ammette
la ripetibilità indipendentemente da un errore commesso dall'INPS,
in considerazione della "fisiologica sfasatura temporale" tra il
momento in cui deve avvenire l'erogazione della pensione e il momento
in cui può essere accertato il venir meno del requisito reddituale.
Questo essendo il diritto applicabile, la citata disposizione
speciale viene impugnata per contrasto:
a) con l'art. 3 della Costituzione per la disparità di
trattamento sia rispetto alla disciplina, molto più favorevole ai
pensionati, dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989 relativo alle
pensioni di base dell'assicurazione generale obbligatoria, sia
rispetto al trattamento dei pensionati ex dipendenti pubblici
previsto dall'art. 206 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092,
interpretato autenticamente dall'art. 3 della legge 7 agosto 1985,
n. 428;
b) con l'art. 38, secondo comma, Cost., perché non regola la
ripetizione delle prestazioni indebite tenendo conto dei casi di
negligenza dell'ente nell'accertamento tempestivo dei presupposti del
diritto e stabilendo modalità di recupero tali da garantire la
sufficienza delle residue risorse pensionistiche alle esigenze di
vita dell'assicurato. All'argomento (tratto dalla sfasatura nel
rapporto erogazione dell'integrazione al trattamento minimo -
accertamento del reddito), con cui le Sezioni unite giustificano la
speciale disciplina impugnata, il giudice a quo obietta che
l'ignoranza della sopravvenuta condizione reddituale ostativa
dell'erogazione, protratta oltre il momento in cui tale condizione
diventa accertabile, si risolve, essa pure, per l'INPS in una falsa
rappresentazione della realtà, le cui conseguenze non possono essere
poste a carico di diritti costituzionalmente garantiti dall'art. 38
Cost.
1.2. - Nei giudizi davanti alla Corte costituzionale si sono
costituite le parti private, aderendo alle argomentazioni del giudice
rimettente e concludendo per la dichiarazione di illegittimità della
norma denunciata.
Da una delle difese si osserva, inoltre, che l'applicabilità nella
specie di tale norma - che il giudice a quo desume dalla citata
sentenza delle sezioni unite - contrasterebbe con la statuizione
delle sentenze nn. 1315 e 1966 del 1995, secondo cui, per individuare
quale delle norme di sanatoria, succedutesi nel tempo, debba trovare
applicazione, si deve avere riguardo al momento del pagamento
indebito, sicché nella specie sarebbe applicabile, quanto meno dopo
il 28 marzo 1989, la disciplina successiva alla norma impugnata.
In relazione ai principii di eguaglianza e di razionalità si
insiste sull'incoerenza della mancanza nell'art. 6, comma
11-quinquies, di limiti e condizioni alla ripetibilità rispetto
all'impostazione dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989.
1.3. - Si è pure costituito l'INPS chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso dell'Istituto, non esiste nell'ordinamento previdenziale
un principio di irripetibilità delle prestazioni indebite percepite
in buona fede dall'assicurato, contrapposto al principio dell'art.
2033 cod.civ. Esistono, invece, discipline differenziate a seconda
delle diversità delle fattispecie, discrezionalmente valutate dal
legislatore sia nel senso di non ammettere la rettificabilità degli
errori di un certo tipo del solvens, sia nel senso di ammetterla per
ogni tipo di errore, ma escludendo la ripetibilità nel concorso di
certe condizioni ex parte accipientis, sia infine nel senso di
ammettere la ripetibilità senza limiti e condizioni.
Di quest'ultima specie è la norma speciale impugnata. La censura
di violazione del principio dell'art. 3 Cost., desunta dal confronto
con la norma dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989, anzitutto
conferisce a questa legge efficacia retroattiva di cui non è
provvista, dato che per intero o per la maggior parte le prestazioni
indebite della cui ripetibilità si controverte sono state eseguite
anteriormente al 28 marzo 1989; in secondo luogo, e comunque, è
inammissibile perché l'art. 52 si riferisce alle prestazioni
pensionistiche di base o principali, dalle quali sono ben distinte,
le integrazioni al trattamento minimo. Queste non sono aggiuntive di
quella, ma sono componenti autonome del trattamento previdenziale
complessivo, essendo prive di base assicurativa, cioè non avendo a
fonte alcuna contribuzione.
Quanto alla censura riferita all'art. 38 Cost., l'INPS obietta che
da esso non si può ricavare un principio costituzionale di
irripetibilità di somme corrisposte indebitamente nell'ambito
pensionistico.
1.4. - Nel giudizio promosso dall'ordinanza iscritta in r.o. n.
858/1995 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione
sia dichiarata manifestamente infondata.
Ad avviso dell'interveniente il richiamo dell'art. 38 della
Costituzione non è motivato e comunque non è pertinente perché
"l'assicurazione dei mezzi di sussistenza non si attua attraverso
l'indebita percezione di un trattamento pensionistico non dovuto".
Quanto alla pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione si
obietta che le discipline con cui quella in esame è confrontata
riguardano situazioni giuridiche diverse e quindi insuscettibili di
essere assunte come tertia comparationis.
2.1. - Nel corso di altri procedimenti in cui è controverso il
diritto dell'INPS di ripetere da titolari di più pensioni somme
corrisposte a titolo di quote fisse di contingenza, non spettanti ai
sensi dell'art. 19 della legge 21 dicembre 1978, n. 843, secondo cui
il trattamento aggiuntivo collegato alle variazioni del costo della
vita è dovuto una sola volta, la Corte di cassazione, con quattro
ordinanze in data 7 aprile 1995, pervenute alla Corte costituzionale
il 21 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38,
secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale
dell'art. 2033 cod.civ., "in quanto sia ritenuto applicabile anche
alla indebita erogazione, ricevuta in buona fede, dei trattamenti
pensionistici aggiuntivi previsti dall'art. 19, primo comma, della
legge citata".
Premesso che in tutti i casi di specie le prestazioni indebite sono
state erogate in epoche in cui era vigente l'art. 80 del r.d. n.
1422 del 1924, il giudice rimettente, conformandosi alla sentenza n.
1315 del 1995 delle sezioni unite della Corte di cassazione, ritiene
inapplicabile il terzo comma di tale articolo, non trattandosi di
errore dell'INPS nella determinazione del quantum della prestazione,
bensì "di mero ritardo nell'accertamento di successive modificazioni
del diritto automaticamente operative nel senso della estinzione del
diritto originariamente esistente"; conseguentemente i pagamenti
effettuati in violazione dell'art. 19 della legge n. 843 del 1978
secondo tale giurisprudenza "sono ripetibili, anche in mancanza di un
formale provvedimento dell'Istituto comunicato all'interessato - in
applicazione dell'art. 2033 cod.civ.".
La norma del codice civile viene impugnata con censure analoghe a
quelle rivolte all'art. 6, comma 11-quinquies del d.-l. n. 463 del
1983, interpretato come disciplina conforme alla regola civilistica:
violazione dell'art. 3 della Costituzione per disparità di
trattamento tra pensionati INPS e pensionati ex dipendenti pubblici e
tra gli stessi pensionati INPS; violazione dell'art. 38 della
Costituzione per l'incidenza della diminuita tutela della buona fede
dell'accipiens, nelle ipotesi di errori commessi dall'ente erogatore,
su un trattamento diretto a soddisfare bisogni primari del pensionato
e della sua famiglia. Sono i medesimi valori, aggiunge l'ordinanza,
fatti salvi dalla sentenza n. 383 del 1990 di questa Corte,
interpretativa dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989.
2.2. - Nei giudizi davanti alla Corte costituzionale relativi alle
ordinanze iscritte in r.o. nn. 861, 862 e 863/1995, si sono
costituite le parti private aderendo alle argomentazioni del giudice
a quo e concludendo per la dichiarazione di illegittimità in parte
qua della norma impugnata.
Nelle memorie di costituzione si lamenta soprattutto
l'irrazionalità della previsione di un recupero automatico delle
somme indebitamente erogate, senza nessuno dei limiti che specificano
l'istituto della ripetizione dell'indebito nel sistema previdenziale.
Si è costituito pure l'INPS chiedendo che la questione sia
dichiarata infondata con argomentazioni analoghe a quelle svolte
nelle memorie di costituzione nei giudizi relativi alle ordinanze
precedenti.
2.3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione
sia dichiarata infondata e riservandosi di giustificare tale
conclusione con una memoria successiva.
3. - In prossimità dell'udienza di discussione alcune delle parti
costituite, l'INPS e l'Avvocatura dello Stato, hanno depositato
memorie aggiunte.
La difesa della parte privata nel giudizio promosso dall'ordinanza
iscritta in r.o. n. 856/1995 insiste specialmente sulla censura di
irrazionalità dell'art. 6, comma 11-quinquies in quanto "non
consente, diversamente dalle altre norme che disciplinano la materia
di tenere conto né della buona fede, né di eventuali "colpe"
dell'ente erogatore in caso di prolungamento della contestazione
dell'indebito".
Molto ampia è la memoria prodotta dalla difesa nei giudizi
relativi alle ordinanze iscritte in r.o. nn. 857 e 863/1995. Essa
traccia un quadro completo di tutte le disposizioni rinvenibili nel
variegato ordinamento previdenziale in materia di ripetizione delle
prestazioni indebite: quadro eccedente la presente materia del
contendere, ma delineato allo scopo di dimostrare l'assunto
dell'esistenza in questo ordinamento di una direttiva generale,
fondata sull'art. 38 Cost., contraria in ogni caso all'applicazione
pura e semplice della regola civilistica.
L'INPS ribadisce, in ordine ai primi tre giudizi, l'applicabilità,
in alternativa all'art. 6, comma 11-quinquies del d.-l. n. 463 del
1983, dell'art. 80 del r.d. n. 1422 del 1924, il quale nella specie
porta al medesimo risultato, l'irripetibilità essendo da esso
limitata ai casi di errore sul quantum della prestazione, non
sull'esistenza del diritto.
In ordine ai giudizi concernenti l'art. 2033 cod.civ. l'Istituto
obietta al giudice rimettente di avere trascurato di considerare che
in nessuna delle fattispecie vi è stato un pagamento erroneo
essendosi, invece, verificata la protrazione di fatto di un pagamento
non più dovuto, determinata dal tempo occorso a verificare milioni
di posizioni di pensionati alla luce del ius superveniens
rappresentato dall'art. 19 della legge n. 843 del 1978, senza che nei
diretti interessati potesse sorgere alcun ragionevole affidamento
circa l'effettiva spettanza delle somme corrisposte, dato il
sopravvenuto divieto legale di aggiunta dell'indennità di
contingenza alla seconda pensione.
Infine l'INPS sostiene che è ragionevole ammettere la ripetizione
non solo quando l'interessato non abbia adempiuto o abbia adempiuto
tardivamente l'obbligo di dichiarare i propri redditi, ma anche
quando li abbia dichiarati, giacché in tal caso è venuto meno il
suo diritto a riscuotere e, comunque, la buona fede circa l'effettivo
diritto alle somme percepite.
L'Avvocatura dello Stato, dopo avere illustrato le differenze di
fattispecie e di ratio legis che escludono la comparabilità della
norma impugnata con l'art. 52 della legge n. 88 del 1989, in ordine
ai casi citati dal giudice a quo a sostegno della propria tesi, in
cui l'indebita erogazione è proseguita per più esercizi pur dopo la
comunicazione della dichiarazione dei redditi attestante un reddito
eccedente i limiti di legge, osserva che "resta affidata al giudice
la valutazione se in tali casi il comportamento dell'ente erogatore
configuri un errore, consentendo così l'applicazione dei principii
generali in tema di ripetizione dell'indebito, dei quali è
espressione il citato art. 52 della legge del 1989, e che non possono
essere ritenuti derogati dalla norma speciale in esame", salva la
questione se in tali casi la percezione delle somme non dovute possa
dirsi avvenuta in buona fede.
Quanto all'impugnativa dell'art. 2033 cod. civ., l'interveniente
rileva che questa norma civilistica, sancendo il principio generale
della ripetibilità dell'indebito, non è in sé capace di porsi in
contrasto con norme costituzionali.
Considerato in diritto
1. - La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt.
3 e 38, secondo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale:
a) dell'art. 6, comma 11-quinquies del d.-l. 12 settembre 1983,
n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, in quanto - nel
caso di doppia integrazione al trattamento minimo corrisposta al
titolare di più pensioni, risultante non dovuta sulla seconda
pensione per superamento dei limiti di reddito indicati nel primo
comma - consente il recupero delle somme erogate in eccedenza senza
limiti e condizioni, "anche in deroga alla normativa vigente"
(ordinanze iscritte in r.o. nn. 856, 857, 858/1995);
b) dell'art. 2033 cod.civ., in quanto ritenuto applicabile anche
nel caso di cumulo dei trattamenti aggiuntivi collegati alle
variazioni del costo della vita, percepito in buona fede da titolari
di più pensioni in violazione dell'art. 19 della legge 21 dicembre
1978, n. 843, secondo cui tali trattamenti sono dovuti una sola volta
(ordinanze iscritte in r.o. nn. 861, 862, 863, 864/1995).
2. - I giudizi introdotti dalle sette ordinanze, avendo per oggetto
questioni identiche o analoghe, possono essere riuniti e decisi con
unica sentenza.
3.1. - Sul piano interpretativo il giudice a quo si adegua alla
giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione
(sentenze nn. 1315 e 1965 del 1995), che ha risolto le incertezze
applicative in ordine alla nuova disciplina dell'art. 52 della legge
9 marzo 1989, n. 88 (il cui secondo comma è stato modificato
dall'art. 13, primo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con
effetto dal 31 dicembre 1991: cfr. Corte cost., sent. n. 39 del
1993). Secondo tale giurisprudenza:
1) l'art. 52 non è norma di sanatoria, cioè non ha efficacia
retroattiva e nemmeno è applicabile come ius superveniens ai
rapporti di indebito previdenziale ancora pendenti alla data di
entrata in vigore della legge n. 88 del 1989: per stabilire quale
delle norme succedutesi nel tempo debba trovare applicazione, occorre
fare riferimento al momento del pagamento indebito;
2) il caso di pagamenti indebiti a titolo di integrazione al
trattamento minimo è regolato esclusivamente dall'art. 6, comma
11-quinquies del d.-l. n. 463 del 1983, il quale, poiché non
presuppone un errore del solvens, esclude l'applicabilità di norme
generali, anche sopravvenute, che assumano l'errore a loro
presupposto: perciò nei casi di specie si deve ritenere assorbita la
questione circa l'applicabilità degli artt. 80 del r.d. 28 agosto
1924, n. 1422, 52 della legge n. 88 del 1989, 13 della legge n. 412
del 1991.
Così interpretato in parte qua, il citato art. 6 viene censurato
anzitutto perché determinerebbe una ingiustificata disparità di
trattamento sia nei rapporti interni tra pensionati dell'INPS, sia
nei rapporti esterni dei pensionati INPS con i pensionati ex
dipendenti pubblici. Sotto il primo profilo, il tertium comparationis
addotto, cioè l'art. 52 della legge n. 88 del 1989, non è
proponibile, sia perché i pagamenti indebiti della cui ripetizione
si controverte sono avvenuti nella massima parte prima dell'entrata
in vigore di questa legge, sia soprattutto per la diversità di
fattispecie delle norme messe a confronto. Secondo l'interpretazione
accettata dal giudice a quo, l'art. 52 concerne la pensione-base o
principale e presuppone un errore dell'ente previdenziale sull'an o
sul quantum del relativo diritto; la norma impugnata, invece,
concerne l'integrazione al minimo, che non è un semplice aumento
della pensione principale, ma è una componente autonoma del
trattamento pensionistico complessivo, soggetta a una propria
disciplina caratterizzata, per quanto attiene specificamente
all'indebito, dall'irrilevanza dell'errore come condizione del
diritto di ripetizione. Sotto il secondo profilo, il termine di
confronto, cioè l'art. 206 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092,
sulle pensioni dei dipendenti statali, non è idoneo perché, per
costante giurisprudenza di questa Corte, non sono istituibili
paragoni tra sistemi previdenziali diversi, tanto più che il sistema
pensionistico dei dipendenti pubblici ignora l'istituto
dell'integrazione al minimo.
In secondo luogo si pretende violato l'art. 38 della Costituzione
in ragione "dell'incidenza del "recupero" sulle residue risorse
pensionistiche dell'interessato", al quale verrebbero sottratti i
mezzi occorrenti per soddisfare i bisogni primari suoi e della sua
famiglia. L'argomento scaturisce da una interpretazione
eccessivamente lata della disposizione impugnata, tale da coinvolgere
nella frase "in deroga ai limiti posti dalla normativa vigente" anche
l'art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che per i crediti di
restituzione derivanti all'INPS da prestazioni indebite non ammette
il pignoramento delle pensioni se non nei limiti di un quinto e,
comunque, fatto salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo:
limiti che, ai sensi dell'art. 1246, n. 3, cod.civ., valgono anche
per la compensazione del credito di restituzione mediante ritenute
sui ratei della pensione successivamente posti in pagamento. Ma se
la ratio dell'art. 6, comma 11-quinquies è costituita dalla
"fisiologica sfasatura temporale" tra il momento in cui la pensione
deve essere erogata e il momento in cui il superamento del limite
reddituale può essere accertato, di guisa che non è configurabile
un errore dell'ente quale presupposto del diritto di ripetizione,
questa ratio impone di intendere la "deroga alla normativa vigente"
limitatamente alle norme che regolano la fattispecie
dell'indebitoprevidenziale incentrandola sull'errore, mentre rimane
ferma la disciplina generale per quanto attiene alle modalità di
recupero delle somme pagate in eccedenza. Che la ripetizione delle
integrazioni non dovute debba procedere nel rispetto dei limiti
indicati dall'art. 69 della legge del 1969 sulle pensioni si evince
anche dal precedente comma 11-quater relativo al caso di dolo causam
dans dell'assicurato.
3.2. - Con questa precisazione il precetto dell'art. 38, secondo
comma, Cost., non è ancora del tutto soddisfatto. Coordinato col
principio di solidarietà ad esso sotteso (cfr. sentenza n. 240 del
1994, punto 6 in diritto), il precetto costituzionale esige un
bilanciamento di interessi, tra l'INPS - cioè la generalità dei
suoi iscritti, gravati dal pagamento indebito - e il pensionato che
l'ha percepito, incidente non solo sulle modalità di recupero delle
somme non dovute, ma sullo stesso diritto di ripetizione.
Come osserva il giudice rimettente, la "fisiologica sfasatura
temporale nel rapporto erogazione-accertamento del reddito", nella
quale le Sezioni unite ripongono la ragione giustificativa della
speciale disciplina in esame, si consuma nel momento in cui
sopravviene per l'INPS la possibilità di verificare il superamento
del limite reddituale nell'anno precedente: da questo momento "la
protratta ignoranza delle condizioni di fatto o di diritto ostative
alla erogazione si risolve essa pure per l'Ente in una falsa
rappresentazione della realtà". Il rilievo non vale certo a
cancellare le diversità di fattispecie e di disciplina che
impediscono il confronto dell'art. 6, comma 11-quinquies del d.-l. n.
463 del 1983 con l'art. 52 della legge n. 88 del 1989 ai fini
dell'art. 3 Cost., ma svela nel primo una lacuna di previsione
relativamente a un caso differenziato da una connotazione che lo
colloca fuori dalla ratio della norma, e quindi tale che
l'applicazione di questa appare incongrua: il caso in cui l'INPS
continui a corrispondere l'integrazione della seconda pensione pur
trovandosi in grado di accertare il superamento del limite di
reddito.
In relazione alla norma analoga dell'art. 10, ultimo comma, del
r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, nel testo modificato dall'art. 8 del
d.-l. n. 463 del 1983, questo caso, in cui il pagamento indebito è
imputabile a un errore dell'INPS o comunque non è addebitabile al
percipiente, è già stato individuato da alcune sentenze della Corte
di cassazione (nn. 11634 del 1992, 9916 del 1993) come estraneo
all'ambito normativo della disposizione citata e assoggettato alla
regola dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989. Tale soluzione è
impedita dalla più recente giurisprudenza delle Sezioni unite, che
non solo nega la retroattività dell'art. 52, ma ne esclude in
generale l'applicabilità ai casi di indebito previdenziale previsti
dal d.-l. n. 463 del 1983 o dall'art. 7, primo comma, della legge 29
dicembre 1990, n. 407. Rimane però percorribile un diverso tipo di
soluzione ermeneutica fondata sulla lacuna di previsione che emerge
nella normativa speciale in esame: la lacuna autorizza l'interprete a
operare una riduzione teleologica (cioè funzionale alla ratio legis)
della disposizione introducendo una corrispondente eccezione conforme
a un principio direttivo del sistema dell'indebito previdenziale
ricavabile dalle norme particolari che lo compongono. In termini
negativi, e perciò bisognosi di specificazione in rapporto alle
varie ipotesi, questo "principio di settore" è stato enucleato dalla
sentenza n. 431 del 1993 di questa Corte nel senso che, diversamente
"dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità
dell'indebito, trova applicazione la diversa regola, propria di tale
sottosistema, che esclude la ripetizione in presenza di una
situazione di fatto... avente come minimo comun denominatore la non
addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta".
Nel contesto della questione che ci occupa tale principio può
essere specificato in via intepretativa coordinando l'art. 6, comma
11-quinquies col precedente quarto comma: dal combinato disposto si
argomenta, secondo un criterio di logica pratica o di ragionevolezza,
che la ripetibilità cessa là dove l'ente previdenziale abbia
continuato il pagamento dell'integrazione al minimo pur avendo la
disponibilità delle informazioni necessarie per l'accertamento del
reddito del pensionato, o in seguito alla tempestiva presentazione
della dichiarazione sostitutiva del certificato fiscale, alla quale
è tenuto ai sensi dell'art. 6, quarto comma, del d.-l. n. 463 del
1983, o altrimenti, per esempio attraverso una comunicazione del
datore di lavoro alle cui dipendenze il pensionato ha trovato
occupazione, oppure perché entrambe le pensioni sono pagate
dall'ente stesso, che perciò è in condizione di conoscere da sé se
e quando l'importo della prima sia aumentato oltre il limite di
reddito ostativo dell'integrazione al minimo della seconda.
Non varrebbe obiettare che in questi casi il percipiente potrebbe
tuttavia versare in mala fede. L'irrilevanza dello stato di buona o
mala fede si argomenta indirettamente dal principio - ora esplicitato
dall'art. 13, primo comma, della legge n. 412 del 1991 - secondo cui
nel caso di omessa o incompleta segnalazione da parte del pensionato
di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non
siano già conosciuti dall'ente competente, le somme indebitamente
percepite sono ripetibili per questo solo fatto, indipendentemente
dalla prova della mala fede dell'interessato (che sarà rilevante, ai
sensi dell'art. 2033 cod.civ., solo ai fini del diritto agli
interessi dal giorno del pagamento). Simmetricamente, la medesima
regola di irrilevanza dell'elemento soggettivo deve valere
nell'ipotesi inversa all'effetto della non ripetibilità.
Il limite, così individuato, della ripetibilità sancita dalla
disposizione denunziata non può trovare applicazione immediata dal
momento in cui si determinano per l'INPS le condizioni di
verificabilità del reddito dell'assicurato. Perché i dati
disponibili siano effettivamente acquisiti dall'Istituto e immessi
nei circuiti delle verifiche contabili sono necessari tempi tecnici,
che il giudice valuterà avuto riguardo eventualmente ai termini
indicati dall'art. 13, secondo comma, della legge n. 412 del 1991,
non applicabile ratione temporis nei casi di specie, ma utilizzabile
come criterio di orientamento.
4. - La questione sub b) è manifestamente inammissibile per errata
individuazione della norma impugnabile.
L'art. 2033 cod.civ. per se stesso non è censurabile in
riferimento ad alcun parametro costituzionale, essendo improntato al
principio di giustizia che vieta l'arricchimento senza causa a
detrimento altrui. Nel diritto previdenziale questo principio è
mitigato da disposizioni ispirate a criteri di equità e di
solidarietà, sicché l'art. 2033 si riduce alla funzione di norma di
chiusura, operante nei soli casi non soggetti a discipline speciali.
Nel caso di cui si controverte la norma previdenziale che,
escludendolo dal proprio ambito applicativo, lo rimette alla regola
civilistica è stata individuata dal giudice a quo - in conformità
delle sentenze nn. 903 e 1315 del 1995 delle Sezioni unite della
Corte di cassazione - nell'art. 80, terzo comma, del r.d. n. 1422 del
1924: su questa norma, non sull'art. 2033 cod.civ., avrebbe dovuto
appuntarsi la questione sollevata dal giudice a quo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in
motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6,
comma 11-quinquies del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (Misure
urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento
della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica
amministrazione e proroga di taluni termini), convertito in legge 11
novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38,
secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le
ordinanze in epigrafe, iscritte in r.o. nn. 856, 857, 858 del 1995;
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2033 cod.civ., sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione,
dalla medesima Corte con le ordinanze in epigrafe, iscritte in r.o.
nn. 861, 862, 863, 864 del 1995.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 maggio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Mengoni
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 24 maggio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola