Ritenuto in fatto
1.1. - Con ricorso depositato il 20 aprile 1995, il procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha sollevato conflitto
di attribuzione nei confronti del Ministro dell'interno e del
Ministro di grazia e giustizia, in relazione al decreto n. 687 del 24
novembre 1994 (Regolamento recante norme dirette ad individuare i
criteri di formulazione del programma di protezione di coloro che
collaborano con la giustizia e le relative modalità di attuazione),
emanato dal Ministro dell'interno di concerto con il Ministro di
grazia e giustizia e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 294 del 17 dicembre 1994.
In particolare, il ricorrente chiede che questa Corte, ritenuto
ammissibile il conflitto, annulli gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del
citato decreto, per violazione degli artt. 13, 101, 104, 108 e 112
della Costituzione.
1.2. - Il ricorrente, premesso che il decreto impugnato, emanato
di concerto e a firma congiunta dei Ministri sopra indicati, è stato
adottato in attuazione dell'art. 10, comma 3, del decreto-legge 15
gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri di persona a
scopo di estorsione e per la protezione di coloro che collaborano con
la giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo
1991, n. 82, osserva che le norme contenute nei menzionati articoli
del provvedimento "incidono nella sfera delle attribuzioni del
pubblico ministero, quali a lui riconosciute dalla Carta
costituzionale, e violano gli articoli 13, 101, secondo comma, 104,
108 e 112 di tale Carta, sia sotto l'aspetto di interferenze e
condizionamenti frapposti all'indipendenza ed autonomia della
magistratura e all'esercizio dell'attività giudiziaria, sia sotto
quello della violazione di norme primarie, come quelle delle
preleggi, dell'Ordinamento giudiziario, per le quali è fatta
espressa riserva di legge dall'articolo 108 della Costituzione, e del
codice processuale penale, alcuni articoli del quale sono stati
modificati o derogati da tale regolamento".
Per tali ragioni, il ricorrente sostiene che, nella specie,
legittimato a denunciare il conflitto sia proprio il pubblico
ministero, organo competente, nell'esercizio delle funzioni
giurisdizionali, a dichiarare la volontà del potere cui appartiene.
In ordine alle considerazioni svolte da questa Corte
nell'ordinanza n. 16 del 1979, si osserva che proprio successive
pronunzie della Corte stessa e gli approfonditi rilievi di
qualificata dottrina autorizzano a ritenere fondatamente che ormai la
legittimazione a sollevare conflitto, in una riconsiderazione
dell'indirizzo assunto, possa e debba essere riconosciuta anche al
rappresentante del pubblico ministero, quantomeno ove vengano
denunciate violazioni degli artt. 112 o 108 della Costituzione.
D'altronde, l'attività del pubblico ministero si presenta, sotto
molteplici aspetti, con caratteri squisitamente propri, autonomi e
decisori, né può essere tralasciato che, proprio secondo la Corte
costituzionale, anche il pubblico ministero è una "autorità
giudiziaria" e che la funzione requirente è ricompresa tra le
attribuzioni riferibili al potere giudiziario.
1.3. - Ciò posto, il ricorrente rileva che le disposizioni
dell'art. 2 (nonché dell'art. 4) del regolamento prevedono e
prescrivono:
1) l'indicazione dei principali fatti criminosi sui quali il
soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni e i motivi per i
quali esse sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o
per il giudizio;
2) la precisazione circa la risultanza di "elementi che
confermano l'attendibilità delle dichiarazioni acquisite";
3) l'allegazione alla proposta del verbale delle dichiarazioni
preliminari alla collaborazione, con l'indicazione tra l'altro,
quantomeno sommaria, dei dati utili alla ricostruzione dei fatti di
maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza il
collaboratore, oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro
autori;
4) per le ipotesi di dichiarante non indagato, il verbale di
informazioni ai fini delle indagini.
Tali disposizioni - ad avviso del ricorrente - appaiono violare
l'art. 112 della Costituzione, in relazione agli artt. 73 e 74
dell'Ordinamento giudiziario (ove si riconosce che il pubblico
ministero "promuove la repressione dei reati") ed agli artt. 358 e
326 del codice processuale penale.
Se il pubblico ministero può raccogliere le dichiarazioni rese
dalla persona sottoposta ad indagini, dall'imputato o dal
collaborante non imputato o indagato solo con le formalità previste
dal codice di procedura penale, la sua attività è finalizzata alle
determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale; è di tutta
evidenza, allora, che imporre al pubblico ministero di raccogliere
dichiarazioni a fini diversi e di portarle a conoscenza di un organo
amministrativo appare lesivo delle sue attribuzioni ed in aperta
violazione dell'art. 112 della Costituzione.
Peraltro, quanto alla indicazione dei "motivi per i quali" le
dichiarazioni "sono ritenuto attendibili e importanti per le indagini
o per il giudizio", è una valutazione esclusiva del pubblico
ministero ed attinente esclusivamente all'attività giudiziaria, per
cui non è suscettibile di spiegazioni all'organo amministrativo,
che, dal canto suo, deve solo stabilire le misure di protezione e di
assistenza, i criteri di formulazione del programma e le sue
modalità di attuazione, e non giudicare se il collaboratore sia
attendibile e quale importanza abbia per le indagini o per il
giudizio.
Inoltre, prosegue il ricorrente, la prescritta trasmissione di
copia del verbale di dichiarazioni preliminari alla commissione si
traduce in una indebita compressione della potestà del pubblico
ministero di disporre la segretazione di atti di indagine. Né appare
possibile superare tale profilo di contrasto, ritenendo che il
presupposto dell'esercizio del potere di cui al comma 3, lettera a),
dell'art. 329 del codice di procedura penale (la ritenuta necessità
per la prosecuzione delle indagini) coincida con quello della riserva
di trasmissione (le specifiche ed eccezionali esigenze di
inopportunità) di cui alla prima parte del comma 2 dell'art. 2 in
esame: e ciò sia in ragione della obiettiva diversità semantica
delle formule normative, sia in considerazione della diversità di
efficacia temporale dell'esercizio dell'uno e dell'altro potere del
pubblico ministero, sia, infine, perché la norma di cui al comma 4
dell'art. 2 esige che in ogni caso la proposta menzioni il contenuto
del verbale di dichiarazioni preliminari.
Altri motivi di conflitto sorgono dal comma 3 dell'art. 1 circa
l'utilizzazione da parte della commissione degli atti e delle
informazioni trasmessi ex art. 118 del codice di procedura penale:
utilizzazione ottenuta violando tale norma, che prevede la
trasmissione da parte dell'autorità giudiziaria al Ministro
dell'interno, e non alla commissione, che ottiene così gli atti e le
informazioni per via trasversa.
In definitiva, conclude sul punto il ricorrente, nel sistema
stabilito dal regolamento avviene non solo che la commissione (ed il
Capo della polizia nel caso di cui all'art. 4) può utilizzare atti e
informazioni trasmessi dall'autorità giudiziaria ex art. 118 del
codice di procedura penale, ma che essa ha il diritto di ricevere il
"verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione" o il
"verbale di informazioni ai fini delle indagini": questa disciplina
(e la conseguente utilizzazione che dei verbali potrà fare detta
commissione) convince ancor più che l'obbligo imposto in questo modo
al pubblico ministero e non finalizzato all'esercizio dell'azione
penale viola l'art. 112 della Costituzione.
1.4. - Relativamente agli artt. 1, 3 e 4 del decreto ministeriale,
l'invasione della sfera di attribuzione appare questa volta
correlarsi - prosegue il ricorrente - al potere e alle prerogative
previste dall'art. 108 della Costituzione, in relazione agli artt.
70, 70-bis e 76-bis dell'Ordinamento giudiziario, con riferimento
all'art. 371-bis del codice di procedura penale.
Attribuendo la formulazione di un parere al procuratore nazionale
antimafia nell'iter per l'approvazione del programma di protezione si
incide sulle leggi di Ordinamento giudiziario richiamate
espressamente nella norma costituzionale, atteso che il predetto art.
371-bis , tra le funzioni ed i poteri del procuratore nazionale, non
prevede assolutamente tal genere di pareri.
Deve, anzi, ritenersi, ad avviso del ricorrente, che il parere
introdotto dal regolamento non era proprio voluto dalla legge, come
è dimostrato, a contrario , dal fatto che in altri casi il
legislatore è intervenuto (cfr. art. 13-bis della legge 15 marzo
1991, n. 82).
1.5. - Anche l'art. 5 del regolamento incorrerebbe in censure
dello stesso tipo di quelle precedenti, questa volta riflettenti
attribuzioni riservate al pubblico ministero dagli artt. 101 e 104
della Costituzione.
Nel prevedere le ipotesi che possono giustificare o imporre la
revoca del programma e l'iter procedimentale da seguire, specifica
l'art. 5, comma 4, che, nella valutazione sull'attualità e sulla
gravità del pericolo, la commissione tiene conto del tempo trascorso
dall'inizio della collaborazione oltre che della fase e del grado in
cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono
state rese, e che la valutazione delle dichiarazioni deve essere
svolta con riferimento alla loro utilizzabilità nei giudizi e
tenendo conto delle indicazioni offerte dalle autorità giudiziarie
competenti in ordine alle verifiche compiute sulla attendibilità
delle dichiarazioni medesime. Ad avviso del ricorrente, quest'ultima
disciplina sovrappone valutazioni attinenti al pericolo incombente
sul collaboratore di giustizia e valutazioni attinenti alla
utilizzazione processuale delle sue dichiarazioni, le prime sole
rientranti nella competenza della commissione, come definita dalla
legge, e in violazione delle norme costituzionali ricordate.
1.6. - Infine - conclude il ricorrente -, in ordine all'art. 8 del
regolamento, nell'ambito del procedimento per l'applicazione della
custodia extracarceraria, da un lato attraverso l'intervento del
Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria con il suo parere e
dall'altro attraverso l'obbligo di costante rivalutazione delle
condizioni eccezionali di sicurezza che determinarono la detenzione
extracarceraria, appaiono interferenze con i poteri dell'autorità
giudiziaria in tema di libertà personale, garantiti dall'art. 13
della Costituzione.
2. - Con ordinanza n. 216 del 1995, questa Corte, ai sensi
dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, ha dichiarato ammissibile il
ricorso nei confronti del Governo della Repubblica. Il ricorso,
unitamente all'indicata ordinanza, è stato poi notificato a cura del
ricorrente, nel termine assegnato, al Governo della Repubblica, in
persona del Presidente del Consiglio dei ministri.
3. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in
subordine, infondato. Il ricorso è inammissibile, ad avviso
dell'Avvocatura generale dello Stato, in quanto questa Corte avrebbe
correttamente riconosciuto la legittimazione a proporre conflitti di
attribuzione soltanto agli organi giurisdizionali e mai agli organi
del pubblico ministero, che non sono chiamati a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartengono (è citata
l'ordinanza n. 17 recte, 16 del 1979). Nel merito il ricorso sarebbe
infondato, poiché il decreto impugnato è stato emanato in
attuazione di una legge che il ricorrente non contesta e alla quale
è anch'egli sottoposto; né si comprende, conclude l'Avvocatura
dello Stato, come il potere esecutivo avrebbe potuto altrimenti
attuare la collaborazione che la legge impone al pubblico ministero,
se non ponendo a carico di quest'ultimo l'obbligo di mettere in grado
l'autorità preposta al programma di protezione di accertare
l'entità del rischio, comunicando ad essa tutte le notizie
necessarie.
4.1. - Ha depositato memoria il procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Napoli. La difesa del ricorrente rileva, in
primo luogo, che, come già questa Corte ha riconosciuto nell'ord. n.
216 del 1995, sussistono senza dubbio i requisiti soggettivi ed
oggettivi del conflitto. Quanto ai primi, si osserva, da un lato,
che la legittimazione a sollevare conflitti è stata riconosciuta al
pubblico ministero con le sentenze nn. 462, 463 e 464 del 1993 e che,
nella fattispecie, tale legittimazione spetta al procuratore della
Repubblica presso il tribunale, ai sensi dell'art. 11 del
decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in legge 15 marzo
1991, n. 82; dall'altro, che il legittimato passivo è stato
giustamente individuato - con la predetta ordinanza n. 216/1995 - nel
Governo della Repubblica, sia perché il ricorrente ha effettivamente
inteso dolersi delle illegittime interferenze nell'attività
giudiziaria da parte del potere esecutivo nel suo complesso, per cui
la Corte si è limitata ad interpretare in tal senso il ricorso, sia
in quanto, secondo la più autorevole dottrina, il compito di
stabilire l'organo cui il ricorso va notificato spetta allo stesso
giudice costituzionale, in conformità, del resto, ai principi di
economia processuale e di salvaguardia degli atti processuali,
nonché alla lettera e allo spirito delle norme in materia dettate
dalla legge n. 87 del 1953. In ordine, poi, ai requisiti oggettivi
del conflitto, non vi è dubbio - prosegue il ricorrente - che le
attribuzioni di cui si lamenta la lesione sono conferite al pubblico
ministero direttamente dalla Costituzione; inoltre, quanto alla
idoneità dell'atto impugnato ad essere oggetto di conflitto, la
natura normativa dello stesso non può essere di alcun ostacolo, dato
che nei conflitti tra poteri un atto può addirittura mancare. Per
quanto riguarda, infine, l'interesse a ricorrere, è indubbio -
prosegue la difesa del ricorrente - ch'esso sia concreto e immediato.
Il conflitto in epigrafe non rientra certamente fra quelli meramente
astratti ed ipotetici, che la giurisprudenza costituzionale ritiene
inammissibili: la stessa presenza di un atto che si assume lesivo
delle attribuzioni del ricorrente esclude la natura meramente
preventiva del conflitto, che certo non mira a fare della Corte
costituzionale un "organo di consulenza", quale indubbiamente non
può essere. Il presente conflitto non è preventivo neppure nel
diverso e più debole senso di conflitto in cui una delle parti
ricorre alla Corte in seguito a un atto dell'altra che non sia
immediatamente lesivo delle sue attribuzioni, ma solo affermativo di
competenza, dal cui esercizio tali attribuzioni potrebbero essere
lese. Infatti il conflitto in esame origina da un atto che determina
un immediato pregiudizio per le attribuzioni costituzionalmente
garantite al pubblico ministero; né potrebbe argomentarsi in
contrario dalla natura normativa dell'atto impugnato. Neanche,
infine, avrebbe senso affermare che nei confronti d'un atto
amministrativo illegittimo il ricorrente potrebbe limitarsi a
disapplicarlo, salvaguardando per ciò solo le proprie attribuzioni,
in quanto la disapplicazione dell'atto impugnato (qualora
ammissibile) non potrebbe assolutamente equivalere alla salvezza
della sfera costituzionalmente riservata al pubblico ministero, che
solo dalla (pur parziale) rimozione in radice dell'atto impugnato
potrebbe essere ripristinata nella sua originaria integrità.
4.2. - Passando al merito della controversia, e muovendo anzitutto
dagli artt. 2 e 4 del decreto impugnato, il ricorrente premette un
necessario raffronto tra il disegno legislativo in ordine alla
"protezione di coloro che collaborano con la giustizia" e la sua
distorta ed illegittima "attuazione" amministrativa, dal quale
emergerebbe la clamorosa collisione dell'impugnato decreto
ministeriale con l'atto normativo primario dal quale pretende
legittimazione: da un lato, infatti, nessuna delle indicazioni rese
necessarie dall'art. 2, comma primo, del decreto è prevista dal
decreto-legge n. 8 del 1991, né in alcuna misura è desumibile -
ancorché implicitamente o indirettamente - da una qualche
disposizione ivi contenuta; dall'altro, le disposizioni dell'art. 2,
commi secondo e terzo, contengono previsioni evidentemente ultra ma
anche contra legem , atteso che il contenuto della proposta e del
parere è dalla legge stessa identificato con precisione, e senza che
alcuno spazio di discrezionalità sia conferito all'amministrazione.
Ciò premesso, le ricordate previsioni regolamentari confliggono, ad
avviso del ricorrente, con le disposizioni costituzionali che
determinano posizione e attribuzioni del pubblico ministero. In
proposito si osserva che obbligatorietà dell'azione penale e
indipendenza del pubblico ministero sono due facce della stessa
medaglia, tanto che - pur a negare l'applicabilità dell'art. 101,
comma 2, della Costituzione ai magistrati del pubblico ministero -
può ben dirsi che l'art. 112 sia quantomeno un vero e proprio
"corollario" di quel che è l'art. 101, comma secondo, per i giudici,
il quale esprime comunque il valore fondamentale dell'indipendenza
della magistratura nel suo complesso. La stretta connessione fra
principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e indipendenza del
pubblico ministero impone, da un lato, di considerare come violazioni
del primo tutti gli ostacoli che all'effettiva possibilità di
esercitare l'azione penale vengono opposti, e dall'altro di
considerare come attentati alla seconda tutte le violazioni del
principio. Il pubblico ministero - prosegue il ricorrente - esercita
l'azione penale nelle forme indicate dal codice di procedura penale
(e dalle leggi speciali). Nell'ambito della menzionata normativa, la
raccolta delle prove da utilizzare in giudizio è finalizzata al solo
scopo definito dall'art. 112 della Costituzione, e non può essere
distorta al perseguimento di altra finalità. Inoltre, imporre al
pubblico ministero la comunicazione alla commissione dei motivi che
l'hanno indotto a valutare attendibili ed importanti le dichiarazioni
del proposto comporta un'illegittima interferenza nell'esercizio
delle sue attribuzioni, anche qui "torcendo" atti giudiziari ad
un'impropria utilizzazione, e conferendo alla commissione un
implicito sindacato su valutazioni riservate alla discrezionalità
del magistrato procedente, essenziali per l'esercizio dell'azione
penale confidatagli dalla Costituzione. Analoga deviazione dalle
finalità istituzionali è, poi, subita in seguito al principio della
utilizzabilità da parte della commissione - prevista dall'art. 1,
comma 3, del decreto - delle comunicazioni degli atti e delle
informazioni processuali, effettuate dall'autorità giudiziaria al
Ministro dell'interno ai sensi degli artt. 118 del codice di
procedura penale; 1-quinquies del decreto-legge 6 settembre 1982, n.
629; 102 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Da ultimo, è
radicalmente illegittimo che al pubblico ministero si imponga la
rivelazione ad un organo amministrativo, se non addirittura
politico-amministrativo, di atti e notizie raccolte nell'ambito del
suo potere - costituzionalmente garantito - di esercitare l'azione
penale, con violazione del segreto che ai sensi dell'art. 329 del
codice di procedura penale grava sugli atti delle investigazioni,
oltretutto nella misura che è ritenuta necessaria dallo stesso
pubblico ministero. È del tutto evidente, infatti, che il segreto
investigativo è strumentale all'efficace esercizio dell'azione
penale, costituzionalmente riservata al pubblico ministero. Ciò che
si lamenta è pertanto la diretta violazione dell'art. 112 della
Costituzione, che, imponendo al pubblico ministero di esercitare
l'azione penale, non può non comportare il segreto investigativo (e
anche lo stesso potere di ampliare la segretazione) le quante volte
questo sia strumentale all'adempimento dei doveri costituzionali del
pubblico ministero medesimo. Sarebbe irragionevole opporre a ciò
che gli atti della Commissione centrale e quelli ad essa trasmessi
sono coperti dal segreto d'ufficio (art. 1, comma quinto, del decreto
impugnato). È chiaro, infatti, che un pregiudizio per il principio
del segreto investigativo e per il potere del pubblico ministero di
modularne gli effetti si produce pel solo fatto della trasmissione ad
un organo amministrativo della documentazione prevista dagli artt. 2
e 4 del decreto impugnato. Inoltre, la trasformazione del segreto
investigativo in segreto d'ufficio è tutt'altro che irrilevante o
"indolore", perché la disciplina del segreto investigativo e quella
del segreto d'ufficio sono ben diverse, essendo l'opponibilità di
quest'ultimo notevolmente attenuata.
Con il colpo di bacchetta magica di un decreto ministeriale -
prosegue il ricorrente - si sono modificati natura e regime giuridico
di atti delicatissimi, essenziali per il concreto esercizio delle
attribuzioni conferite al pubblico ministero dall'art. 112 della
Costituzione.
Va aggiunto che il rimedio della disapplicazione dell'atto
impugnato non verrebbe affatto a reintegrare il ricorrente nel pieno
dominio delle sue attribuzioni costituzionali. Disapplicare, infatti,
significherebbe precludersi qualsiasi possibilità di ottenere dalla
commissione l'ammissione del collaboratore al programma speciale di
protezione, e perciò in definitiva compromettere l'esercizio
dell'azione penale. Più in generale, infine - conclude sul punto il
ricorrente -, gli artt. 2 e 4 del decreto impugnato ledono le
attribuzioni costituzionali del pubblico ministero pel fatto stesso
d'essere affetti dal vizio di violazione di legge. Invero, in virtù
degli artt. 107, comma quarto, e 108, comma uno, della Costituzione
(in una con gli artt. 104, comma 1, e 112), la disciplina relativa ai
magistrati del pubblico ministero deve essere dettata con legge,
mentre, nelle parti contestate, il regolamento impugnato risulta
privo di qualunque base legislativa.
4.3. - Venendo, ora, alle previsioni regolamentari concernenti
l'affidamento al procuratore nazionale antimafia del potere di
rilasciare un parere sulla proposta di ammissione allo speciale
programma di protezione (art. 3, cui si collegano gli artt. 1, comma
primo, lett. b), e 4, comma secondo), è agevole constatare -
prosegue la difesa del ricorrente - come anche qui ci si trovi di
fronte ad una chiara violazione di legge, in quanto nel decreto-legge
n. 8 del 1991 ogni riferimento a tal genere di parere è assente. Di
qui, pertanto, la violazione degli artt. 107, comma quarto, e 108
della Costituzione, che solo alla legge consentono di disciplinare
gli atti e i poteri che possono incidere sull'indipendenza del
pubblico ministero. Nella specie, tale incidenza si produce anzitutto
perché il parere del procuratore nazionale antimafia presuppone
l'utilizzazione di dati ottenuti per finalità ben diverse da quelle
previste dal decreto; dati che invece - anche qui - finirebbero per
essere (direttamente o indirettamente) "girati" all'organo
amministrativo commissione. La lesione delle attribuzioni
costituzionali del pubblico ministero, però, si produce anche
perché il contenuto del parere del procuratore nazionale antimafia
non concerne soltanto gli elementi utili per la formulazione del
programma di protezione, ma riguarda anche la valutazione dei
pericoli per l'incolumità del collaboratore, e addirittura la
valutazione dell'importanza del contributo da questi offerto.
4.4. - Quanto all'art. 5 del decreto ministeriale n. 687 del 1994,
attinente ai presupposti ed alla procedura della revoca del programma
di protezione, l'impugnata disposizione risulta illegittima in parte
qua per l'interferenza ch'essa determina con la posizione
costituzionale del pubblico ministero, cui si impone di compiere atti
non funzionali all'attribuzione che costituzionalmente gli spetta,
anche - eventualmente - in violazione del segreto che copre la fase
delle investigazioni.
4.5. - In ordine, infine, conclude il ricorrente, all'art. 8 del
decreto ministeriale n. 687 del 1994, sussistono i medesimi vizi già
precedentemente evidenziati, cui si aggiunge la violazione dell'art.
13 della Costituzione, nella parte in cui si sottraggono
all'autorità giudiziaria provvedimenti comunque incidenti sulla
libertà personale.
5. - Ha depositato memoria aggiuntiva anche il Presidente del
Consiglio dei ministri, insistendo nelle conclusioni già formulate.
In particolare, l'Avvocatura dello Stato eccepisce innanzitutto tre
profili di inammissibilità del conflitto:
a) inesistenza di un conflitto di attribuzioni, in quanto non
sarebbe sufficiente, affinché sia configurabile un contrasto
concreto ed attuale, la posizione della norma, essendo invece
necessario che essa sia in concreto applicata da uno dei poteri in
conflitto e che a tale applicazione resista e si opponga il potere
che si ritiene leso: nel caso di specie, sarebbe stato necessario che
il ricorrente avesse chiesto l'applicazione di un programma di
protezione e tale programma fosse stato negato per mancanza di uno
degli atti che, secondo le norme regolamentari, devono essere
allegati alla proposta;
b) difetto di legittimazione dell'organo, in quanto il pubblico
ministero, pur appartenendo al potere giudiziario, non ne dichiara la
volontà e, comunque, il procuratore della Repubblica fa parte di un
ufficio gerarchicamente strutturato ed organizzato il cui organo di
vertice è rappresentato dal procuratore generale della Repubblica;
c) difetto di interesse, poiché il procuratore della
Repubblica ben potrebbe ricorrere alla disapplicazione dell'atto
impugnato. Nel merito, l'Avvocatura dello Stato insiste nel
sostenere che il ricorrente non prende in alcuna considerazione la
fondamentale circostanza che è la normativa primaria e non il
regolamento ad attribuire all'autorità giudiziaria un mero potere di
proposta o di parere ed a prevedere, all'inverso, che spetti
all'autorità amministrativa il ben più ampio potere di adottare,
modificare e revocare il programma di protezione, modellandolo con
riferimento a tipo, qualità e rilevanza del contributo offerto.
Proprio con riguardo alle disposizioni della normativa primaria si è
fin dall'inizio sostenuto che, nel procedimento di protezione, il
ruolo del procuratore della Repubblica è limitato a quello di
sponsor proprio per evitare che il suo diretto interesse alla
"collaborazione" possa portarlo ad enfatizzarne l'importanza,
impedendo di conseguenza una sua corretta analisi e comparazione
rispetto agli altri casi: analisi e comparazione che spettano, invece
ed esclusivamente, alla commissione proprio per conseguire
un'omogeneità nei criteri di valutazione e di deliberazione.
D'altronde, se fosse vero che la commissione ha solo funzioni
"notarili" e che, debordando da esse, finisce inevitabilmente - come
sembra ritenere il ricorrente - per "comprimere in modo illegittimo"
i poteri della autorità giudiziaria, non si comprenderebbe neppure
il motivo per il quale l'art. 11, comma 3, della legge n. 82 del 1991
impone al procuratore della Repubblica di riferire specificamente
alla commissione il contributo offerto o che può essere offerto
dall'interessato o dal suo prossimo congiunto per lo sviluppo delle
indagini o per il giudizio penale. Le disposizioni della legge n. 82
del 1991 - prosegue l'Avvocatura dello Stato - affidano alla
commissione centrale di protezione istituita presso il Ministero
dell'interno il compito di definire ed applicare ai singoli
collaboratori uno speciale e individualizzato programma di tutela e
assistenza che tenga luogo delle misure ordinarie di tutela in tutti
i casi in cui risulta che queste sono inadeguate. Rientra dunque
nella logica delle cose il conseguente potere della commissione di
pervenire alla delibera e alla individuazione dei suoi contenuti solo
dopo aver avuto la possibilità di acquisire ogni dato e ogni utile
notizia, svolgendo di fatto un'attività istruttoria che la legge non
disciplina, ma che prevede come indispensabile laddove (v. art. 10,
comma secondo) stabilisce che, per lo svolgimento dei suoi "compiti
istruttori", la commissione si avvale dell'Ufficio per il
coordinamento e la pianificazione delle forze di polizia.
Se lette nell'ottica fin qui delineata, le disposizioni del
regolamento non intaccano allora la sfera delle attribuzioni del
pubblico ministero né interferiscono sulla attività procedimentale:
servono solo a "dimensionare" il collaboratore ai fini della scelta
relativa all'opportunità di sottoporlo a programma di protezione e
di "individualizzare" quest'ultimo tenendo conto dello spessore della
collaborazione, del pericolo che a questo consegue, della provenienza
del pericolo stesso. Da ciò deriva l'infondatezza delle singole
censure mosse dal ricorrente. Per quanto riguarda, in particolare,
il "verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione" (o,
se si tratta di meri testimoni del fatto mafioso, il "verbale di
informazioni ai fini delle indagini") che il procuratore della
Repubblica è tenuto a trasmettere alla commissione in una con la
proposta, deve contestarsi - ad avviso dell'Avvocatura - la
correttezza del rilievo, contenuto nel ricorso, secondo il quale la
previsione della "dichiarazione di intenti" determina una violazione
del segreto investigativo. Se la commissione è dotata di poteri
istruttori e se questi vanno attivati nell'immediatezza per evidenti
fini tutori e di assistenza, è fin troppo scontata la deduzione che
esiste nella specie una deroga generalizzata alle norme sul segreto
previste dal codice di rito e che tale deroga risponde a finalità di
cooperazione istituzionale. Sta di fatto, comunque, che gli atti dei
quali è prevista la trasmissione alla commissione non sono
generalmente coperti dal segreto investigativo perché già a
conoscenza dell'imputato-collaboratore e perciò suscettibili di
esser rilasciati in copia a chi vi abbia interesse (artt. 329 e 116
del codice di procedura penale). Con riferimento specifico poi alla
cosiddetta dichiarazione di intenti, i rilievi in tema di segreto
sono ancor meno condivisibili. I verbali contenenti tale
dichiarazione non possono infatti considerarsi atti del procedimento
penale. Sono invece atti a questo estranei essendo finalizzati,
viceversa ed esclusivamente, a regolamentare le modalità applicative
della previsione dell'art. 11, comma 3, della legge n. 82 del 1991.
Di conseguenza, essi non fanno parte del fascicolo di indagine, pur
essendo redatti con le forme (verbale) e le modalità (con o senza
l'assistenza del difensore) previste per tutti gli atti del pubblico
ministero per l'ovvio, ma ben diverso fine, di garantire sia il
dichiarante sia l'autore dell'atto.
Ciò vuol dire, nella sostanza, che il regolamento non impone al
procuratore della Repubblica di compiere un atto di indagine non
previsto dalla legge, ma di compiere un atto a "valenza
amministrativa", propedeutico e complementare rispetto al complessivo
quadro valutativo che la commissione ha diritto di acquisire.
Considerato in diritto
1. - Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli
ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro
dell'interno e del Ministro di grazia e giustizia in relazione al
decreto 24 novembre 1994, n. 687 (Regolamento recante norme dirette
ad individuare i criteri di formulazione del programma di protezione
di coloro che collaborano con la giustizia e le relative modalità di
attuazione) - emanato dal Ministro dell'interno di concerto con il
Ministro di grazia e giustizia -, chiedendo, in particolare, a questa
Corte di annullare gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del decreto medesimo
per violazione degli artt. 13, 101, 104, 108 e 112 della
Costituzione.
Le censure proposte dal ricorrente, come chiaramente emerge dalla
lettura del ricorso, si articolano nei seguenti quattro gruppi
distinti, per ciascuno dei quali - avente ad oggetto una o più
disposizioni dell'atto impugnato - viene prospettata la lesione di
differenti parametri costituzionali.
A) Il primo gruppo di censure investe i seguenti articoli del
decreto:
art. 1, comma 3, il quale prevede che, quando è necessario al
fine di prevenire gravi delitti che attentano alla vita o
all'incolumità di coloro che collaborano con la giustizia, la
commissione centrale di cui all'art. 10, comma 2, del decreto-legge
15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni dalla legge 15
marzo 1991, n. 82, può utilizzare anche gli atti e le informazioni
trasmessi dall'autorità giudiziaria a norma dell'art. 118 del codice
di procedura penale, ovvero a norma dell'art. 1-quinquies del
decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con
modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, o dell'art. 102
del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 39; art. 2, nella parte in cui prevede che
la proposta del procuratore della Repubblica di ammissione allo
speciale programma di protezione (ovvero il parere dello stesso
procuratore, quando la proposta è effettuata da altra autorità)
deve contenere l'indicazione dei principali fatti criminosi sui quali
il soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni e dei motivi per i
quali esse sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o
per il giudizio, ed altresì la precisazione circa la sussistenza di
elementi che confermano l'attendibilità delle dichiarazioni
acquisite (comma 1); nonché nella parte in cui dispone che alla
proposta (o al parere) deve essere allegato, salvo che sussistano
specifiche ed eccezionali esigenze che ne rendano inopportuna la
immediata trasmissione (nel qual caso occorre comunque fare menzione
del suo contenuto nella proposta), il "verbale delle dichiarazioni
preliminari alla collaborazione" (contenente, fra l'altro,
l'esposizione dei dati utili alla ricostruzione dei fatti di maggiore
gravità e allarme sociale di cui il soggetto è a conoscenza, oltre
che alla individuazione e alla cattura dei loro autori), ovvero,
quando si tratti di soggetto estraneo a gruppi criminali e che
assume, rispetto al fatto ovvero rispetto a fatti connessi o
collegati, esclusivamente la qualità di persona offesa, testimone o
persona informata sui fatti, il "verbale di informazioni ai fini
delle indagini" ( commi 2, 3 e 4); art. 4, comma 2, nella parte in
cui prevede che il capo della Polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza adotta, in casi di particolare urgenza che non
consentono di attendere le deliberazioni della commissione centrale,
le misure necessarie sulla base della proposta del procuratore della
Repubblica o, quantomeno, di una dettagliata segnalazione (di
contenuto semplificato, ma pure alla quale va allegato il verbale di
cui all'art. 2, di cui altrimenti occorre riportare il contenuto o
comunque attestare l'acquisizione). In ordine alle norme indicate
viene denunciata la violazione dell'art. 112 della Costituzione, il
quale sancisce il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e
costituisce, nel contempo, ad avviso del ricorrente, il parametro
costituzionale da cui discende la garanzia dell'indipendenza del
pubblico ministero. La violazione è prospettata sotto vari profili:
perché si impone al pubblico ministero una raccolta di
dichiarazioni, finalizzata al perseguimento di uno scopo diverso
dall'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale, l'unico previsto in
Costituzione, con deviazione, quindi, dell'attività d'indagine dalla
sua funzione istituzionale; perché l'esercizio dell'azione penale
subisce un'illegittima interferenza a seguito del conferimento alla
commissione di un implicito sindacato su valutazioni riservate al
magistrato e funzionali a tale esercizio; perché, infine, la
normativa in esame comporta la violazione del segreto investigativo
(nonché del potere di ampliare l'ambito della segretazione), il
quale è strettamente strumentale all'efficace esercizio dell'azione
penale, non assumendo d'altra parte alcun rilievo il fatto che gli
atti pervenuti alla commissione centrale siano coperti dal segreto
d'ufficio.
B) Il secondo gruppo di censure concerne gli artt. 1, comma
primo, lettera b), 3 e 4 del decreto impugnato, in quanto prevedono,
in determinati casi, l'acquisizione del parere del procuratore
nazionale antimafia prima della formulazione dello speciale programma
di protezione, o dell'adozione delle misure urgenti da parte del Capo
della polizia.
È in questo caso denunciata la violazione dell'art. 108 della
Costituzione - il quale riserva alla legge la materia
dell'ordinamento giudiziario -, in quanto la formulazione di detto
parere non è prevista da nessuna norma di legge, in particolare né
dall'art. 371-bis del codice di procedura penale, né dal
decreto-legge n. 8 del 1991, convertito dalla legge n. 82 del 1991,
da cui trae origine il regolamento in esame.
C) La terza censura riguarda l'art. 5, comma 4, del decreto,
nella parte in cui prevede che la commissione, nel valutare
l'attualità e gravità del pericolo ai fini dell'eventuale modifica
o revoca del programma di protezione, deve, fra l'altro, valutare le
dichiarazioni anche con riferimento alla loro utilizzabilità nei
giudizi e tenendo conto delle indicazioni offerte dalle autorità
giudiziarie competenti in ordine alle verifiche compiute sulla
attendibilità delle dichiarazioni medesime. Ad avviso del
ricorrente, detta disciplina, attribuendo alla commissione il potere
di esprimere valutazioni attinenti alla utilizzazione processuale
delle dichiarazioni del collaboratore, viola attribuzioni riservate
al pubblico ministero dagli artt. 101 e 104 della Costituzione.
D) È, infine, oggetto di censura l'art. 8 del decreto - relativo
alla custodia in luoghi diversi dagli istituti penitenziari -, nella
parte in cui prevede, da un lato, il parere del Dipartimento
dell'Amministrazione penitenziaria in ordine all'attuale idoneità
della custodia in istituto penitenziario a salvaguardare
efficacemente ogni esigenza di sicurezza relativa al detenuto o
all'internato, e, dall'altro, l'obbligo dell'autorità giudiziaria di
rivalutare, almeno ogni tre mesi, la sussistenza dei gravi ed urgenti
motivi di sicurezza che avevano imposto la custodia extracarceraria.
Vengono denunciate, in questo caso, interferenze con i poteri
dell'autorità giudiziaria in tema di libertà personale, garantiti
dall'art. 13 della Costituzione.
2.1. - Occorre preliminarmente verificare, in via definitiva, la
sussistenza dei requisiti, indicati nell'art. 37 della legge n. 87
del 1953, per l'ammissibilità del conflitto, già oggetto di un
primo e sommario giudizio delibativo conclusosi con l'ordinanza n.
216 del 1995.
2.2. - Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (sentenze
nn. 462, 463 e 464 del 1993), il pubblico ministero è indubbiamente
legittimato a sollevare conflitti di attribuzione fra poteri dello
Stato, in quanto - ai sensi dell'art. 112 della Costituzione - è il
titolare diretto ed esclusivo dell'attività d'indagine finalizzata
all'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale: con riferimento allo
svolgimento di detta funzione è stata, cioè, riconosciuta al
pubblico ministero, organo non giurisdizionale, la competenza a
dichiarare definitivamente la volontà del potere giudiziario cui
appartiene, così come richiesto dal citato art. 37 della legge n. 87
del 1953.
Ne deriva che deve attribuirsi a detto organo la legittimazione a
proporre conflitto esclusivamente quando agisce a difesa
dell'integrità della competenza inerente all'esercizio dell'azione
penale, competenza della quale è direttamente investito dalla citata
norma costituzionale e in ordine alla quale è fornito di
istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere. Va
osservato, poi, in particolare, relativamente all'invocato art. 13
della Costituzione (v., sopra, punto 1, lettera D)), che è pur vero
che questa Corte ha riconosciuto al pubblico ministero la qualifica
di autorità giudiziaria ai sensi di detta norma (cfr., da ultimo,
sentenza n. 419 del 1994), ma con la importante precisazione che tale
organo può sì disporre misure restrittive della libertà personale,
soltanto però con carattere di provvisorietà, e cioè
esclusivamente nell'ambito di un procedimento che, entro brevi
termini, conduca necessariamente all'intervento di un giudice per
l'adozione definitiva del provvedimento: tanto basta per ritenere la
carenza di legittimazione del pubblico ministero a sollevare
conflitti con riferimento alle attribuzioni di cui all'art. 13 della
Costituzione. Per quanto concerne, inoltre, le censure sopra
indicate alle lettere B) e C) - premesso che occorre ribadire che
esse, così come quella di cui alla lettera D), sono prospettate nel
ricorso in modo del tutto distinto dalla prima e tra di loro -, va
rilevato, da un lato, che, poiché la garanzia costituzionale
dell'indipendenza del pubblico ministero ha la sua sede propria
nell'art. 112, non è invocabile, quale base idonea ad instaurare un
conflitto di attribuzione, l'art. 101, secondo comma, della
Costituzione; dall'altro, relativamente ai richiamati artt. 104 e 108
della Costituzione, che non è neppure dedotto nel ricorso come la
loro asserita violazione ridondi in lesione delle competenze di cui
al citato art. 112 della Carta. Ne consegue, in definitiva, che deve
riconoscersi la sussistenza, nel caso in esame, della legittimazione
attiva del ricorrente esclusivamente in relazione alle censure
concernenti gli artt. 1, comma terzo, 2, commi primo, secondo, terzo
e quarto, e 4, comma secondo, del decreto impugnato, come specificate
nella lettera A) del punto 1, soltanto in ordine alle quali viene
denunciata la lesione delle attribuzioni di cui all'art. 112 della
Costituzione. Né ha fondamento, al riguardo, l'eccezione sollevata
dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui la legittimazione
processuale spetterebbe, in ogni caso, al procuratore generale presso
la Corte d'appello, organo di vertice dell'ufficio, dotato del potere
di avocazione ai sensi degli artt. 412 e 413 del codice di procedura
penale: da un lato, infatti, la normativa censurata ha come
destinatari i procuratori della Repubblica; dall'altro, come già
ritenuto da questa Corte in precedenti occasioni (cfr. le citate
sentenze nn. 462 e 463 del 1993), il potere di avocazione attribuito
al procuratore generale presso la Corte d'appello, costituendo
soltanto uno strumento di garanzia contro l'inerzia del pubblico
ministero, non ha alcuna incidenza attuale sulla legittimazione
processuale in relazione alle attribuzioni oggetto del presente
conflitto. Deve, invece, per i motivi su esposti, dichiararsi
inammissibile il conflitto sollevato dal procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Napoli in ordine agli artt. 1, comma primo,
lettera b), 3, 4, 5, comma quarto, e 8 del decreto n. 687 del 24
novembre 1994 per violazione degli artt. 13, 101, 104 e 108 della
Costituzione.
2.3. - Per quanto concerne la legittimazione a resistere nel
presente giudizio, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte
le attribuzioni dei singoli ministri non assumono - di regola - uno
specifico rilievo costituzionale nei rapporti con la magistratura (se
non nel caso delle competenze direttamente ed esclusivamente
conferite al Ministro di grazia e giustizia dagli artt. 107, secondo
comma, e 110 della Costituzione), in quanto il potere esecutivo non
costituisce un potere "diffuso", bensì si risolve, sotto il profilo
che qui interessa, nell'intero Governo, abilitato a prendere parte ai
conflitti tra i poteri dello Stato in base alla configurazione
dell'organo stabilita nel primo comma dell'art. 95 della Costituzione
(cfr. sentenze nn. 383 del 1993, 379 del 1992, 150 del 1981;
ordinanze nn. 38 del 1986, 123 del 1979).
Tuttavia, la circostanza che il ricorrente abbia indicato in primo
luogo nel Ministro dell'interno il soggetto nei cui confronti il
conflitto veniva proposto non può costituire ostacolo
all'ammissibilità del conflitto medesimo per carenza di
legittimazione passiva dell'organo anzidetto. Deve, infatti,
ritenersi che, ai sensi dell'art. 37, quarto comma, della legge n. 87
del 1953 (secondo cui "Se la Corte ritiene che esiste la materia di
un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza dichiara
ammissibile il ricorso e ne dispone la notifica agli organi
interessati"), spetta a questa Corte, al di là della formale
indicazione del ricorrente, l'identificazione dell'"organo
interessato" cui l'atto asseritamente invasivo va imputato ed al
quale, quindi, il ricorso deve essere notificato, non esistendo, nei
giudizi in esame, alcuna forma di vocatio in ius. Pertanto, nella
fattispecie, come già affermato nell'ordinanza n. 216 del 1995,
l'organo legittimato a resistere va individuato nel Governo della
Repubblica, al quale l'atto impugnato è da ritenersi imputabile
(cfr. art. 5, comma secondo, lettera c), della legge 23 agosto 1988,
n. 400). Deve, poi, essere ribadita l'esclusione della
legittimazione passiva del Ministro di grazia e giustizia: nella
fattispecie, infatti, poiché il decreto è stato emanato dal
Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro di grazia e
giustizia, l'intervento di quest'ultimo si è inserito nella fase
preparatoria del provvedimento (alla quale tipicamente attiene
l'attività di concerto), con la conseguenza che la titolarità
dell'atto va attribuita, almeno sotto il profilo che qui interessa,
al Ministro dell'interno.
2.4. - Sotto il profilo oggettivo non c'è dubbio che ricorrono i
requisiti previsti dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953, secondo
cui sono risolti da questa Corte i conflitti tra poteri dello Stato
insorti "per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata
per i vari poteri da norme costituzionali": nei limiti, infatti, in
cui il conflitto ha superato lo scrutinio di ammissibilità sotto il
profilo dei requisiti soggettivi, è lamentata nella fattispecie la
lesione delle attribuzioni conferite al pubblico ministero dall'art.
112 della Costituzione ad opera di un atto imputabile al Governo
della Repubblica (art. 95 della Costituzione). Il Presidente del
Consiglio dei ministri ha sollevato due eccezioni di
inammissibilità, entrambe attinenti al profilo della sussistenza di
una oggettiva situazione di conflitto. Questo sarebbe, in primo
luogo, inesistente per carenza dei requisiti dell'attualità e della
concretezza, in quanto non sarebbe sufficiente la semplice vigenza
della norma regolamentare asseritamente invasiva, essendo invece
necessario che la stessa sia in concreto applicata da uno dei poteri
in conflitto e che a tale applicazione si opponga il potere che si
ritiene leso: nella specie, sarebbe stato necessario che il
ricorrente avesse chiesto l'applicazione di un programma di
protezione in relazione ad uno specifico soggetto e che il programma
fosse stato negato per mancanza di uno degli elementi prescritti
dalle norme impugnate. L'eccezione non può essere condivisa. Ai
fini dell'ammissibilità dei conflitti di attribuzione quel che è
richiesto è l'interesse ad agire, la cui sussistenza è necessaria e
sufficiente a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri
della concretezza e dell'attualità, non potendo la Corte essere
adita a scopo meramente consultivo, per pronunciarsi, cioè, su
astratte formulazioni di ipotesi (cfr. sentenza n. 164 del 1963, sia
pur relativa ad un conflitto tra enti). Ciò premesso, deve ritenersi
che tale requisito nella fattispecie sia già pienamente presente:
non può, infatti, negarsi che l'emanazione di un atto normativo
quale quello in esame - per sua natura generale ed astratto -, in
quanto prevede obblighi immediati e diretti a carico dei procuratori
della Repubblica, integri di per sé indubbiamente un comportamento
idoneo a far insorgere nel ricorrente l'interesse alla eliminazione
del pregiudizio che, a suo avviso, ne deriva alle proprie
attribuzioni costituzionali; e ciò senza che occorra attendere il
concreto esercizio delle medesime in relazione ad un caso specifico
(quasi a voler applicare anche nei giudizi sui conflitti il requisito
della "rilevanza" tipico dei giudizi incidentali), condizione non
richiesta dall'ordinamento per l'insorgere di un conflitto di
attribuzione.
In secondo luogo, l'Avvocatura dello Stato eccepisce il difetto di
interesse del ricorrente, ben potendo, a suo avviso, questi
esercitare il potere di disapplicazione dell'atto impugnato ritenuto
illegittimo. Anche questa eccezione deve essere rigettata. Come
esattamente osserva la difesa del ricorrente, infatti, pur ammettendo
in ipotesi che al pubblico ministero spetti detto potere, è decisivo
rilevare che il suo eventuale esercizio non sarebbe comunque idoneo a
far venir meno l'interesse del ricorrente all'annullamento dell'atto
impugnato, da cui soltanto conseguirebbe la piena ed effettiva
reintegrazione della propria sfera di attribuzioni asseritamente
lesa: e questo a prescindere dall'ulteriore considerazione che la
disapplicazione, nella fattispecie, si rivelerebbe del tutto inutile
- ed anzi a sua volta pregiudizievole -, in quanto precluderebbe in
radice l'ammissione ai programmi di protezione.
3. - Ai fini dell'esame, nel merito, delle censure in ordine alle
quali il conflitto è stato ritenuto ammissibile, occorre premettere
alcune brevi considerazioni sulla disciplina legislativa da cui trae
origine il regolamento impugnato.
Nel quadro di un'ampia serie di interventi operati dal
legislatore, soprattutto a partire dal 1991, in favore dei cosiddetti
collaboratori di giustizia, con gli artt. 9 e seguenti del
decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, è stato introdotto per la prima
volta nel nostro ordinamento un complesso organico di norme in tema
di protezione dei collaboratori medesimi, ritenuta ormai un'esigenza
urgente ed indilazionabile. In sintesi, e per quanto interessa ai
fini della decisione, dopo aver individuato, all'art. 9, i soggetti
da proteggere nelle "persone esposte a grave e attuale pericolo per
effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel
corso delle indagini preliminari o del giudizio", relativamente ai
delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza (art. 380
del codice di procedura penale), - nonché nei loro prossimi
congiunti, nei conviventi e in quanti altri sono esposti a tale
pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le persone suddette
-, il legislatore ha stabilito, all'art. 10, che, in caso di
inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili dalle
autorità competenti e qualora il pericolo derivi dagli elementi
forniti o che i soggetti possono fornire per lo sviluppo delle
indagini o per il giudizio, "può essere definito uno speciale
programma di protezione, comprendente, se necessario, anche misure di
assistenza". La definizione e l'applicazione di tale programma sono
affidati ad una commissione centrale presieduta da un Sottosegretario
di Stato e composta da due magistrati con particolare esperienza
nella trattazione di processi per fatti di criminalità organizzata e
da cinque funzionari e ufficiali esperti nel settore; mentre
l'individuazione delle misure di protezione e di assistenza, nonché
dei criteri di formulazione del programma e delle modalità di
attuazione, è demandata ad un decreto del Ministro dell'interno, di
concerto con il Ministro di grazia e giustizia, sentiti il Comitato
nazionale dell'ordine e della sicurezza pubblica e la commissione
centrale anzidetta. Ai sensi del successivo art. 11, l'ammissione
allo speciale programma di protezione, i contenuti e la durata dello
stesso, vanno "valutati in rapporto al rischio per l'incolumità del
soggetto a causa delle dichiarazioni rese o che egli può rendere" e
sono "deliberati di volta in volta dalla commissione di cui all'art.
10, su proposta motivata del procuratore della Repubblica" (ovvero,
previo parere favorevole di questi, di altre autorità); "la proposta
deve contenere le notizie e gli elementi concernenti la gravità e
l'attualità del pericolo cui le persone sono o possono essere
esposte per effetto della loro scelta di collaborare con la
giustizia"; il parere (o la proposta, di cui non si fa menzione nella
norma per un mero errore di coordinamento in sede di conversione del
decreto) "deve fare riferimento specifico all'importanza del
contributo offerto o che può essere offerto dall'interessato o dal
suo prossimo congiunto per lo sviluppo delle indagini o per il
giudizio penale". È anche previsto che "in casi di particolare
urgenza, le misure necessarie sono adottate dal Capo della polizia -
direttore generale della pubblica sicurezza, il quale ne informa il
Ministro".
Dall'esame delle citate disposizioni risulta che il legislatore ha
inteso affidare - anche sulla base di modelli stranieri - ad un
organismo collegiale centralizzato il processo decisionale di
ammissione ai programmi di protezione, sia allo scopo di sottrarre
agli organi giudiziari compiti estranei alle loro funzioni, dei quali
di fatto si erano assunti l'onere, sia evidentemente - e soprattutto
- al fine di assicurare omogeneità di criteri ed uniformità di
trattamento su tutto il territorio nazionale in ordine all'ammissione
e alla determinazione dei contenuti dei programmi medesimi, tenendo
anche conto delle risorse disponibili in rapporto all'elevato onere
di mezzi e di spese che solitamente tali misure comportano. Per
l'esercizio del proprio potere decisionale, spetta alla commissione
centrale la funzione essenziale di stabilire, con discrezionale
valutazione, l'entità del pericolo cui il soggetto è esposto -
commisurata ai vari elementi previsti dalla legge e soprattutto
all'importanza, allo "spessore" della collaborazione -, il cui
apprezzamento è determinante ai fini dell'ammissione al programma e
della sua individualizzazione, chiaramente prescritta dalla legge e
funzionale alla migliore efficacia della protezione. Ciò posto, non
c'è dubbio che la creazione di detto organismo sia diretta a
soddisfare esigenze di razionalizzazione largamente avvertite e
rispondenti, sotto alcuni aspetti, anche ad interessi generali di
rilievo costituzionale. Ne deriva che i rapporti tra la commissione
centrale e le autorità giudiziarie devono essere inseriti, e devono
quindi svolgersi, in linea generale, in un quadro di cooperazione
istituzionale, allo scopo comune di una più razionale protezione dei
collaboratori di giustizia e, quindi, in definitiva, di una più
efficace azione contro le organizzazioni criminali.
4. - Passando all'esame delle singole censure formulate dal
ricorrente, si rivela in primo luogo non fondata quella concernente
l'art. 1, comma terzo, del regolamento n. 687, ai sensi del quale la
commissione centrale, quando è necessario al fine di prevenire
attentati alla vita o all'incolumità dei collaboratori di giustizia,
può utilizzare atti e informazioni trasmessi dall'autorità
giudiziaria al Ministro dell'interno in base alla normativa vigente.
Premesso che, ove l'autorità giudiziaria ritenga di non poter
derogare al segreto investigativo, la richiesta di trasmissione di
detti atti o informazioni può essere rigettata (art. 118 del codice
di procedura penale), ovvero la trasmissione può essere
procrastinata per il tempo strettamente necessario (artt. 1-quinquies
del decreto-legge n. 629 del 1982, convertito dalla legge n. 726 del
1982, e 102 del d.P.R. n. 309 del 1990), non si vede come la semplice
attribuzione della facoltà di utilizzare tali atti o informazioni -
già trasmessi al Ministro dell'interno e in ordine ai quali, quindi,
si è ritenuto che non sussistessero particolari esigenze di tutela
del segreto investigativo - ad un organo quale quello in esame e per
le finalità di prevenzione suddette possa, di per sé, costituire
violazione dell'invocato art. 112 della Costituzione.
5.1. - Le censure relative agli artt. 2 e 4 del decreto in esame
vanno esaminate congiuntamente (così come, del resto, sono
prospettate), in quanto la seconda delle norme citate - relativa al
potere del Capo della polizia di adottare misure di protezione in via
di urgenza, in attesa delle deliberazioni della commissione - rinvia,
come s'è visto sopra, all'art. 2 in ordine ai contenuti della
proposta del procuratore della Repubblica e stabilisce, inoltre, una
disciplina analoga anche in ordine al verbale di informazioni
preliminari alla collaborazione nel caso in cui la proposta sia
sostituita da una semplice segnalazione. In ordine al comma primo
dell'art. 2 la censura del ricorrente si incentra essenzialmente
sulla previsione secondo cui nella proposta del procuratore (ovvero
nel parere quando la proposta è di altra autorità), oltre alla
indicazione dei principali fatti criminosi su cui il soggetto sta
rendendo le dichiarazioni, occorre precisare i motivi per i quali
esse sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o per il
giudizio, nonché l'eventuale esistenza di elementi che confermano
detta attendibilità. La censura non è fondata. Occorre premettere
che la norma in esame non impone al procuratore della Repubblica di
raccogliere determinate dichiarazioni dal soggetto proposto e nemmeno
di trasmettere copie di atti o di verbali; essa si limita a stabilire
il contenuto della motivazione in base alla quale il procuratore
intende formulare la proposta di ammissione al programma di
protezione (ovvero esprimere il parere sulla proposta altrui).
Orbene, deve escludersi che tale disciplina violi l'art. 112 della
Costituzione sotto alcuno dei profili prospettati nel ricorso. Va
anche qui ribadito che l'obbligatorietà dell'azione penale, punto di
convergenza di un complesso di principi del sistema costituzionale,
costituisce la fonte essenziale della garanzia dell'indipendenza del
pubblico ministero (cfr. sentenze nn. 88 del 1991 e 84 del 1979).
Tuttavia, tale principio non comporta che debba ritenersi in assoluto
preclusa né l'attribuzione al pubblico ministero di compiti e
funzioni non strettamente "d'indagine", cioè non direttamente
finalizzati all'esercizio dell'azione penale, né l'utilizzazione dei
risultati dell'attività investigativa per scopi ulteriori rispetto a
quelli tipici della funzione requirente e degni di tutela, a meno che
non si dimostri che tali previsioni costituiscano in concreto un
intralcio serio e ingiustificato allo sviluppo delle indagini. Nella
fattispecie, le disposizioni censurate appaiono dirette a far sì che
la commissione centrale possa esercitare nel modo migliore le proprie
funzioni, sia cioè dotata di tutti gli elementi utili per essere
posta in grado di compiere le valutazioni che le competono e, quindi,
di adottare le conseguenti decisioni in maniera ponderata e
consapevole. E non c'è dubbio che a tal fine assuma principale
rilievo il dato dell'importanza del contributo offerto (o che può
essere offerto) dal soggetto proposto, di cui ovviamente costituisce
aspetto essenziale il requisito dell'attendibilità delle
dichiarazioni rese. Come si è detto sopra, la commissione è
chiamata a valutare congiuntamente tutti gli elementi ad essa forniti
dall'autorità giudiziaria attraverso la propria motivata proposta,
onde giungere ad un giudizio complessivo - di sua esclusiva
pertinenza - in ordine al livello di rischio cui il soggetto deve
ritenersi esposto, da cui dipende, poi, la decisione circa
l'ammissione o meno al programma speciale di protezione (e, in caso
positivo, la determinazione dei contenuti e della durata del
programma stesso): che ai fini dell'assolvimento della propria
funzione istituzionale la commissione - sulla base della motivazione
del procuratore della Repubblica - si formi un convincimento anche in
merito al grado di importanza da attribuire alla collaborazione, da
un lato appare pienamente coerente con i poteri decisionali ad essa
spettanti (e, per così dire, inevitabile), dall'altro non determina
alcuna interferenza sull'esercizio dell'azione penale.
Neanche sotto il profilo della tutela del segreto investigativo la
censura è fondata.
Va premesso, in linea generale, che la inderogabilità del segreto
investigativo non riceve, in assoluto, "copertura" nell'art. 112
della Costituzione, nel senso che non qualsiasi deroga all'obbligo
del segreto sugli atti di indagine - pur indubbiamente strumentale al
più efficace esercizio dell'azione penale - integra di per sé
lesione dell'indicato precetto, ben potendo tale obbligo subire
limitazioni od attenuazioni a tutela di altri interessi di rilievo
costituzionale (ad es., del diritto di difesa). Orbene, nella
fattispecie certamente ricorrono i presupposti per considerare la
normativa censurata compatibile con il dettato costituzionale:
l'onere per il pubblico ministero di fornire alla commissione
centrale, a sostegno della propria proposta, informazioni sul
contenuto di atti d'indagine eventualmente tuttora coperti dal
segreto investigativo (ciò che, peraltro, di norma non si verifica
quando, come accade il più delle volte, si tratti di dichiarazioni
rese da un imputato) deve, infatti, ritenersi giustificato non solo,
e non tanto, dal fatto che le notizie restano comunque coperte dal
segreto d'ufficio (art. 1, comma 5, del decreto), per cui il grado di
riservatezza ne risulta sì attenuato rispetto al segreto
investigativo, ma non certo annullato; ma soprattutto in
considerazione delle sopra richiamate finalità che l'intero
procedimento in esame - cui sono chiamati a partecipare, in
un'ottica, come s'è detto, di cooperazione istituzionale,
l'autorità giudiziaria e l'organismo destinatario delle informazioni
- è diretto a perseguire, tra le quali non può non annoverarsi
anche quella di consentire, attraverso un adeguato e personalizzato
sistema di protezione del collaboratore, proprio la migliore e più
proficua prosecuzione dell'attività d'indagine. Tutto ciò non
toglie, tuttavia, che, data la delicatezza degli interessi coinvolti,
vada riconosciuto ai procuratori della Repubblica un certo margine di
discrezionalità in ordine alla comunicazione di notizie su atti
coperti dal segreto, e che, in ogni caso, eventuali divergenze siano
superate attraverso le opportune intese, nel rispetto del menzionato
principio di collaborazione cui è auspicabile che si ispiri la
prassi applicativa della norma in esame. Le argomentazioni svolte,
infine, non possono non valere anche per il caso in cui la proposta,
in attesa delle deliberazioni della commissione, sia utilizzata dal
Capo della polizia per l'adozione, in casi di particolare urgenza, di
misure provvisorie di protezione. Premesso che tale organo deve
indubbiamente ritenersi dotato di un ambito valutativo ridotto,
rispetto a quello della commissione centrale, in ordine agli elementi
forniti dall'autorità giudiziaria (data anche l'urgenza del
provvedere), basta osservare che, anche in questa ipotesi, da un lato
le notizie trasmesse sono ovviamente coperte dal segreto d'ufficio,
e, dall'altro, ricorrono le medesime finalità degne di tutela sopra
evidenziate.
5.2. - Resta da esaminare la censura relativa alla cosiddetta
"dichiarazione d'intenti", disciplinata dai commi 2 e seguenti
dell'art. 2 (nonché dal comma secondo dell'art. 4) del decreto in
esame. Si tratta, in particolare, del "verbale delle dichiarazioni
preliminari alla collaborazione" (denominato "verbale di informazioni
ai fini delle indagini", quando riguardi soggetto estraneo a gruppi
criminali e che, rispetto al fatto o a fatti connessi o collegati,
assume soltanto la qualità di persona offesa, di testimone o di
persona informata sui fatti) che il procuratore della Repubblica deve
redigere ed allegare in copia - salvo l'eccezione di cui si dirà -
alla proposta o al parere (o alla segnalazione nel caso dell'art. 4):
nell'atto il soggetto interessato - secondo il comma secondo
dell'art. 2 - "ha manifestato all'autorità giudiziaria la volontà
di collaborare", "ha reso, con le forme e le modalità previste dal
codice di procedura penale per gli atti di indagine del pubblico
ministero, le informazioni indicate nel comma primo", ed ha esposto,
infine, "quantomeno sommariamente, i dati utili alla ricostruzione
dei fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a
conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro
autori". A differenza di quanto osservato al punto precedente in
ordine al comma primo del medesimo art. 2, la normativa in esame
prevede, dunque, la redazione di un atto con determinati contenuti e
modalità e la trasmissione del medesimo, di regola, unitamente alla
proposta o al parere (o alla segnalazione): il pubblico ministero è
cioè tenuto, prima di procedere alla formulazione di uno di questi
atti, a raccogliere dal soggetto interessato una serie di
dichiarazioni su oggetti prestabiliti, concernenti, fra l'altro (come
risulta dalla citata ultima parte del comma secondo), il merito di
tutti i principali fatti delittuosi sui quali tale soggetto è in
grado di riferire, e poi a trasmettere il relativo verbale alla
commissione centrale (o al Capo della polizia). Non appare, al
riguardo, condivisibile la tesi dell'Avvocatura dello Stato, secondo
cui l'atto in esame sarebbe estraneo al procedimento penale, non
avrebbe cioè natura di atto d'indagine, bensì meramente
amministrativa: a parte il rilievo che la stessa norma dispone (con
previsione forse pleonastica) che le dichiarazioni siano rese "con le
forme e le modalità previste dal codice di procedura penale per gli
atti di indagine del pubblico ministero", non si vede come possa
escludersi che le dichiarazioni medesime, aventi il contenuto sopra
indicato, entrino a far parte del fascicolo del pubblico ministero e
siano quindi soggette alla disciplina dettata dal codice di procedura
penale in tema di utilizzabilità degli atti del procedimento.
5.3. - Ciò posto, la censura si rivela fondata per quanto
concerne la redazione del menzionato verbale.
Ai sensi del comma quarto dell'art. 2 e dell'ultima parte del
comma secondo dell'art. 4, anche nell'ipotesi in cui il verbale non
è trasmesso contestualmente alla proposta, al parere, o alla
segnalazione, occorre in ogni caso fare menzione del suo contenuto,
ovvero, nel caso della segnalazione, attestarne comunque
l'acquisizione. Ne risulta chiaramente confermato che la redazione
del verbale costituisce, in base alla normativa impugnata, un atto
dovuto, che deve imprescindibilmente precedere l'attivazione del
procedimento di deliberazione dei programmi di protezione. Ciò
determina indubbiamente una violazione dell'art. 112 della
Costituzione. Imponendo, infatti, al pubblico ministero, quale
condizione per l'ammissione del collaboratore al programma speciale
di protezione, il compimento di un atto di natura investigativa
avente le caratteristiche di forma e di contenuto sopra indicate, si
viene ad incidere direttamente sull'attività di conduzione delle
indagini, la cui strategia, ai fini del più proficuo sviluppo delle
indagini medesime in relazione ai singoli procedimenti, va lasciata -
nei limiti, ovviamente, previsti dall'ordinamento - alla libera
valutazione del procuratore della Repubblica. Ai fini del ripristino
dell'integrità delle attribuzioni costituzionali invocate occorre,
pertanto, ad avviso di questa Corte, che la redazione del verbale
della "dichiarazione d'intenti" sia rimessa alla discrezionalità del
pubblico ministero, con la ovvia conseguenza che il mancato
compimento di tale atto - in quanto evidentemente egli ritenga, in
base a propria motivata valutazione, che possa recare pregiudizio per
la prosecuzione delle indagini - non potrà costituire, di per sé,
ostacolo all'ammissione al programma di protezione, sulla base della
proposta motivata di cui al primo comma dell'art. 2, nella quale
devono, ovviamente, essere indicati gli elementi dai quali risulti
accertata la volontà attuale di collaborare e il contributo che può
essere dato alle indagini. Va, in conclusione, dichiarato che non
spetta al Governo, e per esso al Ministro dell'interno, adottare le
disposizioni di cui agli artt. 2, commi secondo, terzo e quarto, e 4,
comma secondo, del decreto n. 687 del 24 novembre 1994, nella parte
in cui prevedono che il procuratore della Repubblica debba redigere,
anche qualora ritenga, in base a propria motivata valutazione, che
possa recare pregiudizio per lo sviluppo delle indagini, il "verbale
delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione", o, a seconda
dei casi, il "verbale di informazioni ai fini delle indagini"; con
conseguente annullamento in parte qua delle norme citate.
5.4. - La censura è, invece, non fondata, nei sensi di seguito
esposti, per quanto concerne la trasmissione del verbale della
"dichiarazione d'intenti" alle autorità competenti.
Qualora detta trasmissione dovesse ritenersi anch'essa
obbligatoria, sarebbe effettivamente difficile sostenere in questo
caso - a differenza di quanto si è detto in ordine alla motivazione
della proposta - la compatibilità di tale previsione con l'art. 112
della Costituzione, sotto il profilo della deroga imposta al segreto
investigativo.
È, tuttavia, previsto che il verbale debba essere allegato alla
proposta o al parere (o alla segnalazione) "salvo che sussistano
specifiche ed eccezionali esigenze che ne rendano inopportuna la
immediata trasmissione". Ad avviso di questa Corte, la clausola
anzidetta può e deve essere interpretata in modo estensivo, così da
salvaguardare le attribuzioni dell'autorità giudiziaria. In
particolare, qualora questa abbia provveduto a raccogliere la
"dichiarazione d'intenti", deve essere fatta salva la possibilità di
procrastinare la trasmissione del verbale per il tempo che il
pubblico ministero, per particolari esigenze di segretezza
investigativa, ritenga necessario per evitare pregiudizi allo
sviluppo delle indagini.