Ritenuto in fatto:
1. - Con ordinanza emessa il 21 aprile 1976 nel procedimento penale
a carico di Giacinti Armando, imputato di furto aggravato, il giudice
istruttore presso il Tribunale di Firenze sollevava d'ufficio questione
di legittimità costituzionale degli artt. 204, secondo comma e 222,
primo comma, c.p., assumendone il contrasto con gli artt. 3, primo
comma, 111, primo e secondo comma e 27, primo comma della Costituzione
(r.o. 480/76).
Premesso che da una perizia psichiatrica all'uopo disposta era
risultato che l'imputato (reo confesso) era al momento del fatto
totalmente incapace di intendere e di volere, e che peraltro il perito
aveva escluso che attualmente egli fosse persona socialmente
pericolosa, il G. I. rilevava che se ne sarebbe dovuto ordinare il
ricovero in manicomio giudiziario in base ad una pericolosità sociale
presunta per legge (artt. 204 cpv. e 222, primo comma c.p.). Peraltro,
osservava il G.I., con la sentenza 110 del 1974 la Corte ha
riconosciuto al giudice il potere di revoca delle misure di sicurezza -
ove sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità - anche
prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima
stabilita dalla legge. Dopo tale sentenza, il potere di revoca non è
quindi più, come per il passato, di natura eccezionale, né può più
prescindere dalla cessazione dello stato di pericolosità. E d'altro
lato, ad essa "consegue che la predeterminazione del periodo minimo di
ricovero in un manicomio giudiziario (art. 222, comma primo, c.p.) non
può basarsi sulla opportunità che il giudizio sulla pericolosità sia
sottoposto a ripetute verifiche in istituti specializzati e non dipenda
dal parere di un singolo perito (come aveva ritenuto la Corte con le
sentenze n. 68 del 1967 e n. 106 del 1972). A prescindere dal rilievo
che, secondo l'art. 202 c.p., lo stato di pericolosità è il
presupposto della misura di sicurezza e quindi l'irrogazione di questa
non può avere il fine di verificare l'esistenza di quello, risulta
infatti chiaro, dopo la citata sentenza n. 110 del 1974, che si può
fare a meno delle verifiche suddette o di alcune di esse e disporre la
revoca anticipata della misura di sicurezza proprio sulla base di una
singola perizia o comunque di accertamenti protratti per un periodo di
tempo inferiore a quello corrispondente alla durata minima prevista
dall'art. 222 c.p.. Se così è, non si vede perché debba comminarsi
la misura di sicurezza, qualora sia accertato in concreto che il malato
di mente non è pericoloso per poi revocarla anticipatamente, magari
poco tempo dopo l'irrogazione".
Di qui, ad avviso del giudice a quo, il contrasto con l'art. 3
primo comma Cost. delle norme suddette, in quanto irragionevolmente
assoggettano ad un identico trattamento il soggetto pericoloso e quello
di cui sia accertata la non pericolosità prima della comminatoria
della misura di sicurezza.
D'altra parte, "stante la natura di sanzioni penali" delle misure
di sicurezza, ad esse dovrebbe ritenersi applicabile, secondo il
giudice a quo, il principio della personalità della responsabilità
penale di cui all'art. 27, primo comma, Cost.: e con questo
contrasterebbe il ricollegare tali misure ad uno status presunto, e non
concretamente accertato, di pericolosità criminale.
Le norme in questione contrastano anche, ad avviso del G.I. con gli
artt. 13 e 111 Cost., che impongono l'obbligo di motivazione dei
provvedimenti giurisdizionali, ed in particolare di quelli relativi
alla libertà personale. Tale obbligo infatti, per la funzione di
garanzia (sentenza n. 1/1971) che è propria della motivazione, anche
al fine di rendere più penetrante ed efficace il sindacato sul
provvedimento, non può che significare obbligo di motivazione
razionale, cioè articolata attraverso una serie di argomenti
logicamente coerenti. Ed esso non potrebbe essere soddisfatto nel caso
di specie, perché nella sentenza di proscioglimento per difetto di
imputabilità si dovrebbe - per la presunzione assoluta posta dalle
norme impugnate - irrogare la misura di sicurezza, pur essendo questa,
secondo l'art. 202 c.p., applicabile soltanto alle persone socialmente
pericolose e pur dovendosi far menzione, nella motivazione, della
perizia medico - legale che ha accertato la non pericolosità
dell'imputato.
2. - Un'analoga questione di legittimità costituzionale degli artt
204 e 222 c.p. veniva sollevata d'ufficio, con ordinanza del 30 giugno
1976, dal G. I. del Tribunale di Siena nel corso di un procedimento
penale per i reati di cui agli artt. 521 e 527 c.p. a carico di
Sasselli Lino (r.o. 582/76).
Premesso che l'obiettività dei fatti appariva sufficientemente
provata e rilevato che una perizia psichiatrica aveva accertato che
l'imputato era al momento del fatto totalmente incapace d'intendere e
di volere e che non era, peraltro, socialmente pericoloso, il G. I.
osservava innanzitutto che all'ammissibilità della questione non può
ostare l'asserita illegittimità della perizia che abbia valutato la
pericolosità sociale dell'incapace per infermità psichica, trovando
tale asserzione "la sua radice nella stessa norma di cui si eccepisce
l'incostituzionalità".
Richiamate poi le sentenze di questa Corte (19/1966 e 68/1967) con
cui sono state ritenute compatibili con l'art. 13, secondo comma, Cost.
le ipotesi di pericolosità presunta previste dal codice - peraltro con
il limite della "ragionevolezza" della scelta del legislatore, in base
al quale è stata esclusa la legittimità dell'art. 224 c.p.: sent.
1/1971 - il giudice a quo riteneva che il suddetto indirizzo dovesse
essere sottoposto a nuovo esame, alla luce di un'evoluzione normativa
che tende sempre più ad adeguare gli strumenti punitivi alla
personalità del reo (affiancando ovvero sostituendo la cura medica o
la rieducazione sociale alle sanzioni tradizionali) e che quindi
postula "una concettuale impossibilità di applicazione delle misure di
sicurezza detentive indipendentemente da un concreto accertamento sulla
personalità del reo".
Ma, ad avviso del giudice a quo, le norme di cui agli artt. 204 e
222 c.p. contrastano anche con l'art. 3 Cost.: sia perché prevedono un
uguale trattamento per situazioni diverse, quali le diverse infermità
o le differenze soggettive nell'ambito di una stessa infermità; sia
perché sarebbe irragionevole stabilire una presunzione di
pericolosità in base a criteri probabilistici, o statistici, o di
comune esperienza, laddove è possibile caso per caso un riscontro
scientifico della pericolosità.
3. - Con ordinanza in data 30 agosto 1976 il giudice di
sorveglianza del Tribunale di Frosinone, decidendo sulla richiesta di
applicazione della misura di sicurezza del ricovero in manicomio
giudiziario di Capobianco Luigi - prosciolto in quanto non imputabile
per totale infermità di mente dal reato di cui all'art. 582 c.p. -
sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 204,
secondo comma e 205, secondo comma e 222, primo comma c.p. in relazione
agli artt. 3, primo comma e 24, secondo comma Cost. e, per l'art.
222, primo comma, anche in relazione all'art. 32 Cost. (r.o. 638/76).
Premesso che l'imputato non appariva persona socialmente pericolosa
e che "sembra clinicamente guarito", il giudice a quo ravvisava un
contrasto delle norme predette con l'art. 3 Cost. nel fatto di
assoggettare alla medesima misura di sicurezza sia soggetti
riconosciuti socialmente non pericolosi sia persone di rilevante
pericolosità sociale. La perentorietà della norma e la conseguente
applicazione automatica delle misure contrasterebbero, d'altra parte,
anche con la garanzia del diritto di difesa, che viene così garantito
in modo esclusivamente formale e potrebbe validamente esplicarsi solo
in sede di accertamento in concreto della pericolosità sociale, se
cioè venisse dichiarata l'illegittimità della pericolosità sociale
presunta. Inoltre, adempiendo il ricovero in manicomio giudiziario ad
una precipua funzione curativa (cioè di recupero mentale e sociale del
soggetto), applicandolo - in base all'art. 222 c.p. - anche a chi
rispetto all'epoca del commesso reato sia psichicamente migliorato sino
alla completa guarigione si verrebbe ad obbligare al trattamento
sanitario un soggetto che più non ne abbisogna.
In tal modo, da un lato la misura di sicurezza si trasformerebbe in
una vera e propria sanzione, sostituendosi alla pena non potuta
applicare per difetto di imputabilità e dall'altro si verrebbe ad
attentare irreparabilmente alla salute mentale del soggetto, con
evidente violazione dell'art. 32 Cost.
L'art. 222, primo comma, d'altra parte, sarebbe in contrasto con
l'art. 3 Cost. anche per il fatto di regolare in modo uguale la
situazione degli insani di mente e di coloro che più sani non sono.
4. - Alla tesi dell'ordinanza aderiva con una breve memoria di
intervento la difesa del Capobianco.
5. - Con ordinanza del 30 ottobre 1976 emessa nel procedimento
penale a carico di Leorati Marcello, il giudice istruttore del
Tribunale di Firenze - premesso che nei confronti dell'imputato vi
erano sufficienti prove di colpevolezza per il reato addebitatogli
(furto aggravato) e che lo stesso, sottoposto a perizia psichiatrica,
era stato riconosciuto totalmente incapace d'intendere e di volere -
sollevava in riferimento agli artt. 3 e 27, primo comma Cost.
questione di legittimità degli artt. 204, secondo comma e 222, primo
comma, c.p., in quanto implicanti l'obbligatorio ricovero del prevenuto
in manicomio giudiziario per almeno due anni nonostante che la perizia
lo avesse ritenuto socialmente non pericoloso (r.o. 723/76).
Il giudice a quo dichiarava di non condividere le affermazioni in
tema di pericolosità presunta contenute nelle sentenze di questa Corte
nn. 68/1967 e 106/1972, osservando che in relazione al principio di
uguaglianza è doveroso compiere una comparazione tra tale sistema di
accertamento della pericolosità e quello dell'accertamento caso per
caso. Quest'ultimo è a suo avviso senz'altro preferibile, "non
corrispondendo all'id quod plerumque accidit (e ne fanno fede i casi
prospettati nelle ordinanze di rimessione alla Corte) che la
pericolosità sociale sia collegabile alla mera entità della pena
legislativamente stabilita per il reato". Viene quindi meno la
ragionevolezza della presunzione di pericolosità, che non sarebbe
salvaguardata - come ha ritenuto la Corte - dalla possibilità di
revoca anticipata della misura. Al contrario, questa può valere solo
come tardivo rimedio all'abnorme situazione insita nell'applicazione di
essa a soggetto non pericoloso, e per ciò stesso porta al
riconoscimento dell'irrazionalità del vigente sistema di pericolosità
presunta.
Il giudice a quo rilevava poi che "se responsabilità penale è
quella per un fatto penalmente rilevante in relazione al quale è
prevista la irrogazione di una sanzione criminale", avendo tale natura
- secondo quanto riconosciuto da autorevole dottrina - anche la misura
di sicurezza, risulta a questa applicabile il principio della
personalità nella responsabilità penale di cui all'art. 27, primo
comma Cost..
Ora, essendo la misura di sicurezza, ben altrimenti della pena,
collegata alle caratteristiche soggettive dell'agente - in quanto
destinata a durare fintanto che perduri la condizione di pericolosità
- sarebbe in contrasto con tale principio la sua applicazione a chi non
è in concreto pericoloso.
6. - Alla motivazione della suddetta ordinanza si richiamava
espressamente il giudice istruttore del Tribunale di Bologna nel
sollevare, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell'art. 222, primo comma c.p. (ordinanza
del 27 ottobre 1977 emessa nel procedimento per incendio doloso a
carico di Naldi Remo) (r.o. 584/77).Nel caso di specie, dalla perizia
psichiatrica all'uopo disposta era risultato che costui, affetto da
frenastenia, era al momento del fatto incapace di intendere e di volere
per il concorso di altre circostanze, quale l'abuso di alcool; che
peraltro egli non era pericoloso per sé o per altri, ed aveva
"raggiunto quella condizione di stabilizzazione che gli ha permesso di
reimmettersi nella vita sociale e lavorativa con regolarità cambiando
ambiente di lavoro ed amici, pur venendo sottoposto con una certa
regolarità da parte del C.I.M. a cicli curativi che sembrano avere
più uno scopo preventivo".
Ciò premesso, ad integrazione delle argomentazioni del G. I. di
Firenze, il giudice di Bologna osservava che, stabilendo una
presunzione di pericolosità che non consente accertamenti in concreto
ed è applicabile anche ove la pericolosità non esista, la norma
impugnata tradisce la finalità di rieducazione che, insieme a quella
preventiva, è assegnata alla misura di sicurezza dall'art. 27, terzo
comma Cost., e che costituisce uno sviluppo del principio del rispetto
della persona umana, consacrato negli artt. 2 e 3 Cost.. Anzi,
l'equilibrio biopsichico cui la rieducazione mira "verrebbe ad essere
violentato" a fini di difesa sociale nelle ipotesi in cui esso "si
fosse già stabilizzato". Risultato, questo, che secondo il G.I.
contrasta anche con l'art. 32 Cost., il quale, statuendo che "la legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana", vieta il perseguimento di finalità accessorie quando
vengano a mancare ragioni curative e di recupero della salute.
7. - Un'analoga questione di legittimità costituzionale degli
artt. 204 e 222 c.p., veniva sollevata, in riferimento agli artt. 3,
13, 27 e 32 Cost., dal Pretore di Monza nel corso di un procedimento
penale per il reato di cui all'art. 582 c.p. a carico di Rovelli
Claudio, il quale, in base alla perizia all'uopo disposta, era
risultato incapace d'intendere e di volere all'epoca del fatto e
persona che può talvolta diventare socialmente pericolosa (r.o.
68/77). Dopo aver riferito che da successive indagini era emerso che
il prevenuto in virtù delle intense cure ricevute, non era attualmente
pericoloso, il Pretore motivava sulla non manifesta infondatezza della
questione richiamandosi in sostanza alle precedenti ordinanze.
8. - Il 18 febbraio 1978 il giudice istruttore del Tribunale di
Pisa, dopo aver prosciolto Fiordelmondo Riccardo dal reato di tentato
omicidio in danno della madre in quanto persona non imputabile per
vizio totale di mente, esponeva con riferimento all'obbligatorio
ricovero del prevenuto in manicomio giudiziario per anni cinque - che
dalla perizia psichiatrica era risultato che egli - affetto al momento
del fatto da "bouffe'e dissociativa acuta" a carattere transitorio -
attualmente "si trova in condizioni di buon equilibrio psichico, ha
conseguito la guarigione clinica, non è più infermo di mente e non
può essere considerato persona socialmente pericolosa".
Ciò premesso, con ordinanza in pari data il G. I. sollevava - su
eccezione della difesa - questione di legittimità costituzionale del
predetto art. 222 (primo e secondo comma) c.p. in riferimento agli
artt. 3, primo comma e 32, secondo comma, Cost. (r.o. 370/78).
Rilevato che le precedenti sentenze di rigetto di questa Corte (nn.
68/1967 e 106/1972) si sono "limitate ad escludere la censurabilità,
rispettivamente del meccanismo presuntivo di accertamento della
pericolosità e del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario di un
infermo di mente riconosciuto tale "durante il processo", il G.I.
osservava, in riferimento all'art. 3 Cost., che gli elementi reali
posti dalla legge a fondamento delle varie presunzioni di pericolosità
(lo stato di mente; alcune particolari qualifiche normative, ecc.)
erano stati ritenuti sufficienti e ragionevoli per inferirne la
pericolosità del soggetto (salvo che per i minori infraquattordicenni:
art. 224 cpv. c.p.) in quanto il loro valore sintomatico è fondato
sull'utilizzazione di "comuni esperienze". Ora l'ovvio ed implicito
presupposto di questo schema argomentativo su cui in effetti la Corte
si è basata nel ritenere ragionevole che ai suddetti elementi fosse
ricollegata una valutazione rigida, indipendente dall'accertamento in
concreto della pericolosità - è dato, a parere del giudice a quo,
"dalla circostanza che gli elementi reali, su cui si fonda il giudizio
presuntivo, sussistano effettivamente nel momento in cui esso deve
essere formulato e nei confronti del soggetto cui la presunzione stessa
deve essere applicata. Se così non fosse, non ci si troverebbe più in
presenza di una presunzione, ma di una vera e propria fictio". Ai sensi
dell'art. 222 c.p., viceversa, "l'accertamento dell'infermità psichica
su cui si basa il proscioglimento, si riferisce al momento in cui il
fatto fu commesso, mentre l'applicazione giudiziale si verifica in un
momento necessariamente successivo; per cui nulla garantisce che in
tale secondo momento sussista ancora l'infermità psichica che dovrebbe
costituire l'elemento reale della presunzione. In tal modo,
ricollegando l'applicazione della misura alla mera circostanza del
"proscioglimento per infermità psichica", l'art. 222 c.p. finisce con
lo stabilire non una, ma due presunzioni: la prima consistente nel
presumere che l'infermità psichica, accertata rispetto al momento
della commissione del fatto, persista al momento dell'applicazione
giudiziale; la seconda consistente nel ricollegare a tale presuntiva
infermità un giudizio legale di pericolosità. In sostanza, una
presunzione fondata su un'altra presunzione".
E se la seconda può dirsi ragionevole, non altrettanto può dirsi
della prima, perché dal proscioglimento per un'infermità psichica
illo tempore sussistente non può inferirsi che l'infermità sia ancora
presente, dovendo tale persistenza desumersi da un accertamento
psichiatrico da effettuare in concreto, "al posto del quale non possono
di certo intervenire criteri di frequenza statistica, dato che esso non
presenta alcuno degli elementi di opinabilità e di incertezza propri
del giudizio di pericolosità".
La censura di irragionevolezza ed arbitrarietà della disciplina
non intacca quindi - sottolineava il giudice a quella presunzione per
cui l'infermo di mente è pericoloso indipendentemente
dall'accertamento in concreto della pericolosità, bensì la
presunzione "surrettizia" "che un soggetto continui ad essere infermo
di mente al momento dell'applicazione giudiziale della misura di
sicurezza, solo perché è stato riconosciuto tale in relazione al
momento del fatto": presunzione questa che conduce all'aberrante
conseguenza di dover avviare all'ospedale psichiatrico giudiziario
soggetti non più infermi di mente, e ad equiparare ingiustificatamente
le ipotesi in cui l'infermità effettivamente persista a quelle in cui
sia invece del tutto scomparsa.
Ciò, d'altra parte, comporta, secondo il G. I. di Pisa,
"un'ulteriore censura di incostituzionalità, rispetto all'art. 32,
secondo comma, Cost., nella parte in cui la norma costituzionale
stabilisce che, nel disporre un determinato trattamento sanitario, la
legge non possa "in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana".
In effetti l'esecuzione della misura dell'ospedale psichiatrico
giudiziario comporta necessariamente la cura dell'internato, perché la
rieducazione ed il reinserimento sociale dell'infermo di mente
implicano la guarigione (od il miglioramento) della malattia che è
all'origine della pericolosità del soggetto; e non v'è dubbio,
ovviamente, che si tratti di un trattamento obbligatorio. Se così è,
esso deve sottostare ai limiti sanciti dall'art. 32, secondo comma,
Cost., per qualsiasi trattamento sanitario coattivo.
In particolare, il "rispetto della persona umana", ed i limiti che
esso impone, possono ricondursi all'esigenza fondamentale e primaria
consistente nella necessità che il soggetto sia in ogni caso
riguardato e trattato come un valore in sé, e non degradato a mezzo
per perseguire finalità estranee, secondo il principio che è alla
base del nostro ordinamento costituzionale (art. 2 Cost.). Trasferendo
tali esigenze al trattamento sanitario obbligatorio, non è difficile
scorgere che il primo limite, imposto dal rispetto della persona umana,
consiste nella necessità che sia assicurato un accertamento medico
tecnicamente corretto dei presupposti del trattamento, perché soltanto
questa condizione assicura che la limitazione imposta alla libertà del
soggetto corrisponde ad una sua effettiva necessità terapeutica, senza
la quale il trattamento stesso costituirebbe un mezzo realizzato per
fini diversi dalla cura, e quindi, estranei alla persona che lo
subisce".
9. - Nel giudizio così instaurato interveniva - in rappresentanza
del Presidente del Consiglio dei ministri - l'Avvocatura dello Stato,
che, richiamando la sentenza di questa Corte n. 106/1972, negava che la
norma impugnata introduca una "presunzione fondata su un'altra
presunzione", essendo solo prevista, in essa, una ragionevole cautela
nell'accertamento della cessazione dello stato di pericolosità.
D'altra parte, i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art.
32 cpv. Cost.) sarebbero rispettati attraverso le ripetute verifiche
dello stato del soggetto e la possibilità di revoca anticipata della
misura.
10. - Della costituzionalità dell'art. 222 c.p. dubitava
altresì, sotto un diverso profilo, il magistrato di sorveglianza del
Tribunale di Roma, chiamato ad applicare la misura di sicurezza in
questione nei confronti di Riva Giuseppe, prosciolto perché
riconosciuto infermo di mente dai reati di resistenza e oltraggio a P.
U., incensurato e risultato allo stato "affetto da una forma di
malattia mentale riconducibile a forte esaurimento nervoso e trattabile
ambulatoriamente (grazie anche alla fattiva collaborazione della
famiglia e ad una concreta prospettiva di lavoro)" (r.o. 480/78).
Nell'ordinanza, emessa il 20 maggio 1978, il giudice a quo
osservava che "la previsione che l'infermo di mente debba essere
sottoposto solo e soltanto alla misura di sicurezza detentiva
dell'ospedale psichiatrico giudiziario" - fondata sulle preminenti
finalità di prevenzione e difesa sociale assegnate nel codice vigente
alle misure di sicurezza - si traduce in una distorsione della funzione
di risocializzazione a questa assegnata dalla Carta costituzionale nei
casi in cui la malattia mentale da cui il soggetto è affetto sia, per
la sua natura o per il grado di evoluzione, curabile ambulatoriamente,
o comunque con tecniche o terapie conciliabili con un suo normale
inserimento nel contesto sociale. Ciò tanto più in quanto esiste nel
sistema un'altra misura di sicurezza, la libertà vigilata, che -
essendo sottoposta ad una disciplina sufficientemente elastica da
consentire al magistrato di sorveglianza l'individuazione degli
obblighi da imporre al prosciolto per infermità mentale (cure
ambulatoriali, periodi di osservazione presso nosocomi ecc.) - sarebbe
funzionalmente idonea a rimuovere le cause della pericolosità senza
compromettere le potenzialità di risocializzazione del soggetto. La
sostituibilità della libertà vigilata alle case di cura e di custodia
è del resto già contemplata per i semi - infermi di mente dall'art.
219, terzo comma, c.p. La mancata previsione, nell'art. 222 c.p., di
un'analoga facoltà di sostituzione contrasterebbe, ad avviso del
giudice a quo, con i diritti al lavoro, alla salute e, in genere, ad
una attiva partecipazione alla vita sociale garantiti dagli artt. 4,
primo e secondo comma, e 32 Cost.
La censura d'incostituzionalità, di conseguenza, dovrebbe
investire "anche l'art. 231 stesso codice laddove non prevede, come
adeguato e conforme aggravamento per delle violazioni di particolare
gravità delle prescrizioni della libertà vigilata applicata ad un
infermo di mente, l'applicazione della misura di sicurezza
dell'ospedale psichiatrico giudiziario in luogo della casa di lavoro o
della colonia agricola".
11. - Intervenendo in rappresentanza del Presidente del Consiglio
dei ministri nel giudizio così instaurato, l'Avvocatura dello Stato
osservava che, essendo opinabile, allo stato delle conoscenze
scientifiche, l'individuazione delle modalità più adeguate alla cura
dei malati di mente, essa non può che spettare al legislatore
ordinario: sicché il problema sollevato dall'ordinanza sarebbe di
politica legislativa e non di legittimità costituzionale. Ed invero, a
preminente sul diritto al lavoro v'è il dovere - diritto di curarsi se
infermi; ed il diritto alla salute è di certo tutelato con la
prescrizione di ricovero adeguato".
Quanto alla censura mossa all'art. 231 c.p., l'Avvocatura osservava
che con essa veniva chiesta alla Corte una sorta d'integrazione, non
consentita, del sistema normativo; e che, non essendo la violazione
delle prescrizioni alla libertà vigilata necessariamente segno di
infermità mentale da curare in manicomio giudiziario, mancherebbe il
nesso di conseguenzialità di cui all'art. 27, ultima parte, l. n. 87
del 1953 e la questione sarebbe quindi irrilevante. In ogni caso, essa
sarebbe infondata, essendo evidentemente problema di politica
legislativa l'individuazione delle sanzioni appropriate per le suddette
inosservanze.
12. - Decidendo sull'istanza di revoca anticipata della misura di
sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario per la durata minima di
dieci anni avanzata da Nebiolo Dario prosciolto per vizio totale di
mente dall'imputazione di omicidio - la Sezione di sorveglianza di
Bologna con ordinanza in data 7 dicembre 1978, sollevava questione di
legittimità costituzionale degli artt. 215 e 222 c.p., in riferimento
agli artt. 3, primo comma e 32 Cost. (r.o. 372/79).
La Sezione osservava innanzitutto che la misura di sicurezza
manicomiale si fonda sulla concezione adottata dal legislatore del
1930, secondo cui l'infermità psichica rende probabile la commissione
di reati: concezione che è una specificazione di quella che aveva
ispirato la legge manicomiale N. 36, del 1904 la quale vedeva il malato
di mente come elemento perturbatore della società dei "sani" e perciò
si preoccupava innanzitutto di provvedere al suo ricovero coattivo,
subordinando a tale intervento quello terapeutico. Di siffatta
preminenza delle finalità di sicurezza sono espressione varie
disposizioni che consentono (o consentivano) il ricovero in manicomio:
anche indipendentemente da ogni provvedimento relativo alla custodia
preventiva (art. 88 c.p.p.); anche durante l'esecuzione della pena
(art. 148 c.p., prima della sentenza n. 146/1975); ovvero anche prima
dell'accertamento dell'attribuibilità del fatto - reato (art. 206
c.p.); o ancora in una forma che non è quella della misura di
sicurezza provvisoria (art. 258 c.p.p.). Ed un'ulteriore riprova di
tale finalizzazione sta, secondo il giudice a quo, nell'assegnazione ai
manicomi giudiziari di una funzione complementare rispetto a quelli
"civili", fino a prevedere talvolta il ricovero alternativo nell'uno o
nell'altro, a discrezione del giudice (artt. 148 c.p. e 88 c.p.p.ora
citati).
Atteso poi il suddetto fondamento della misura (pericolosità
derivante da infermità psichica), il fatto - reato - osservava ancora
la Sezione di sorveglianza - si pone logicamente come frutto di una
pericolosità preesistente, e non come causa esso stesso della
pericolosità, ed è conseguentemente solo l'occasione per
l'irrogazione della misura di sicurezza manicomiale: che viene
disposta, quindi, "quando" e non "perché" è stato commesso un reato.
Dalla vaghezza e genericità delle disposizioni concernenti le
modalità d'esecuzione della misura di sicurezza in questione (artt.
213 cpv. c.p., 64 e 65 l. 26 luglio 1975, n. 354, 20 d.P.R. 29 aprile
1976, n. 431) il giudice a quo deduceva un'identità sostanziale del
relativo regime rispetto a quello di esecuzione della pena, di talché
potrebbe affermarsi che la sentenza di proscioglimento per vizio totale
di mente risparmia al soggetto la condanna ma non lo salva dalla pena".
Anzi nella realtà dei fatti la misura, per una serie di meccanismi
perversi e aberranti inscindibili dalla natura stessa dei manicomi
giudiziari, "è la più dura ed inumana pena del nostro ordinamento".
Ad una concezione del tutto diversa - rilevava poi la Sezione di
sorveglianza - si ispira invece la nuova legislazione sui malati di
mente (l. 180/1978, sostituita dalla l. 833/78 sul servizio sanitario
nazionale): la quale, fondandosi su un profondo mutamento di indirizzo
delle concezioni psichiatriche dominanti - che escludono l'origine
organica di molte malattie mentali e la sufficienza di trattamenti
farmacologici che non siano accompagnati da interventi di carattere
psicologico e sociale da realizzare in un ambiente di vita non
artificiale - ha affermato "il criterio che gli interventi di
prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono
attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extra ospedalieri,
ed ha considerato eccezionali gli interventi" di ricovero obbligatorio;
i quali comunque, non possono più fondarsi sulla pericolosità
dell'alienato, bensì solo sulla necessità di urgenti interventi
terapeutici, e devono avere durata la più breve possibile e tale da
ridurre al minimo le limitazioni della libertà dell'infermo.
Dal raffronto tra questa nuova disciplina e quella concernente il
ricovero in manicomio giudiziario discende, ad avviso del giudice a
quo, una grave ed irrazionale disparità di trattamento "in danno dei
sottoposti alla misura di sicurezza manicomiale, che come infermi di
mente hanno diritto allo stesso tipo di prestazioni curative e
riabilitative previsto in via generale e che in concreto di tali
prestazioni vengono privati proprio per effetto dell'internamento
nell'ospedale psichiatrico giudiziario". Né si potrebbe fondatamente
sostenere che tale disparità "sia resa legittima dalla diversa
situazione di fatto connessa all'avere il sottoposto alla misura di
sicurezza manicomiale commesso un reato", giacché questo, secondo
quanto già detto, è solo occasione e presupposto e non già causa
della misura.
D'altra parte, essendo il trattamento cui è sottoposto il
ricoverato in manicomio giudiziario di natura essenzialmente carceraria
ed afflittiva e quindi antitetico al regime degli interventi
terapeutici e riabilitativi previsti dalla nuova legge, risulta
evidente, secondo il giudice a quo, "il carattere non solo non
terapeutico ma dannoso per la salute psichica degli internati infermi
della misura di sicurezza medesima": di qui la censura di violazione
dell'art. 32 Cost. mossa alle norme impugnate.
13. - Della legittimità costituzionale degli artt. 204 cpv. e
222, primo comma, c.p. dubitava anche, in riferimento 21 solo art. 3,
primo comma Cost., il giudice istruttore del Tribunale di Milano con
ordinanza del 29 dicembre 1979 emessa nel procedimento penale per porto
illegale di armi a carico di Fusi Giacomo, che da una perizia
psichiatrica all'uopo disposta era risultato totalmente incapace
d'intendere e di volere - in quanto affetto da schizofrenia paranoide -
e peraltro persona sicuramente non pericolosa (r.o. 966/79).
Riferendosi alle argomentazioni sviluppate nelle sentenze di questa
Corte nn. 68/1967 e 106/1972, il G. I. opinava che - alla stregua della
radicale diversità della disciplina dei trattamenti sanitari, anche
obbligatori, contenuta nella legge 180/1978 rispetto a quella
concernente l'internamento in manicomio giudiziario - dovrebbe
escludersi che questo possa rispondere a finalità terapeutiche nei
confronti di malati di mente che risultino socialmente non pericolosi;
così come dovrebbe escludersi che la previsione di un internamento
minimo di due anni risponda ad esigenza di controllo sanitario e non,
invece, di (malintesa) difesa sociale.
Ciò premesso, il giudice a quo osservava che il contrasto col
principio di uguaglianza consiste non nella statuizione di una
presunzione di pericolosità basata sull'id quod plerumque accidit,
bensì nell'assolutezza di essa che, non consentendo la prova
contraria, comporta il concreto rischio di sottoporre alla misura
persone in effetti non pericolose ed oblitera le diversità di natura,
origine e conseguenza esistenti tra le varie infermità e le differenze
soggettive nell'ambito di una stessa infermità: il che non sarebbe
ragionevole, specie "in una materia tanto complessa e variabile come
quella delle propensioni criminali, essendo di per sé evidente che da
meri giudizi di probabilità (necessariamente relativi e validi fino a
prova contraria) non possono trarsi prognosi infallibili e assolute".
14. - Argomenti analoghi a quelli già riferiti venivano
succintamente svolti anche nell'ordinanza 16 novembre 1979 del
Tribunale di Como, con la quale, nel corso di un procedimento penale a
carico di Sampietro Giuseppe, veniva sollevata, in riferimento agli
artt. 3 e 13, secondo comma Cost., questione di costituzionalità dei
citati artt. 204 e 222 c.p. (r.o. 68/80).
15. - Alla motivazione della sopra illustrata ordinanza 7 dicembre
1978 della Sezione di sorveglianza di Bologna si richiamava
espressamente il giudice istruttore del Tribunale di Milano nel
sollevare - con ordinanza del 4 febbraio 1980 emessa nel procedimento
penale a carico di Prada Pierantonio - questione di legittimità
costituzionale degli artt. 215 e 222 c.p. in riferimento agli artt. 3,
primo comma e 32 Cost. (r.o. 192/80).
In particolare il G. I. si soffermava sul "capovolgimento" dei
principi ispiratori della legge manicomiale del 1904 operato con la 1.
833/1978 (artt. 1 cpv., 2 lett. g, 34), lamentando la disparità di
trattamento tra i malati di mente socialmente pericolosi che ne
consegue, a seconda che abbiano o meno commesso un fatto - reato. E, a
dimostrazione dell'irragionevolezza di essa, metteva in rilievo
l'occasionalità e la trascurabile entità dell'episodio oggetto del
procedimento (il Prada, privo di un braccio, era accusato di oltraggio
e di aver tentato di colpire con un pugno un agente), nonché la
diversità di conseguenza che tale difformità di disciplina comporta
per l'inimputabile che abbia commesso violenza carnale (ipotesi non
infrequente) in dipendenza del fatto puramente estrinseco che la querela
sia stata o non presentata.
Rispetto al diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost. - a suo
avviso certamente leso rispetto ai soggetti già guariti, o comunque
non più pericolosi, dalla previsione di un biennio minimo
d'internamento - il G. I. osservava che ad escludere l'illegittimità
di tale previsione non basta la possibilità di revoca anticipata della
misura ex art. 70 l. 354/75; anche perché la necessità all'uopo di un
ricorso (sia pure non limitato a soggetti portatori di un interesse
particolarmente qualificato) la renderebbe strumento inidoneo a
garantire, per qualsiasi internato, che la custodia in ospedale
psichiatrico non si protragga oltre il necessario.
Il fatto poi che la durata minima dell'internamento sia ricollegata
al solo parametro della pena comminata in astratto - e, come precisato
dalla giurisprudenza, secondo i criteri della contestazione (pena
massima irrogabile, computando le aggravanti e non le attenuanti) -
comporta, a parere del G.I., che si parifichino situazioni anche
profondamente diverse tra loro, impedendo ogni possibilità di
valutazione differenziata dei singoli casi concreti (es. comparazione
tra attenuanti e aggravanti).
Il giudice a quo evidenziava infine le disparità di trattamento
che l'art. 222 c.p. comporta rispetto ai seminfermi di mente, per i
quali - a differenza che per i totalmente infermi - è talora
consentita (art. 219, terzo comma c.p.) la scelta tra la misura di
sicurezza detentiva e quella non detentiva.
16. - Nel giudizio così instaurato interveniva il Prada che,
richiamando le argomentazioni svolte dal G. I. di Milano, sosteneva in
particolare l'inidoneità del criterio della commissione di un reato a
costituire valido strumento per differenziare la posizione dell'infermo
di mente "comune" da quella dell'infermo di mente "imputato". La
previsione dell'inimputabilità di costui, escludendo che nei suoi
confronti sia celebrato un processo, impedirebbe infatti che si
compiano gli accertamenti relativi alla sussistenza del fatto, alla sua
addebitabilità al prevenuto ed alla sua natura di reato, dato che su
tali circostanze normalmente non si pronuncia (e non si può
pronunciare) il giudice naturale con tutte le garanzie previste dalla
legge. Inoltre, il carattere "inumano" e "degradante" del trattamento
riservato agli infermi di mente in manicomio giudiziario comporterebbe
violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo
e quindi del principio di cui all'art. 10, primo comma, Cost..
17. - Lo stesso G. I. di Milano sollevava poi con motivazione
sostanzialmente identica, questione di legittimità costituzionale
degli artt. 204 cpv.,215 e 222 c.p., in relazione agli artt. 3, primo
comma e 32 Cost.; questa volta, peraltro, riferendosi solo alla diversa
disciplina di cui alla legge 833/1978 ed all'inammissibilità di prova
contraria sulla pericolosità sociale. L'ordinanza (r.o. 896/80) veniva
emessa il 29 settembre 1980 nel corso di un procedimento penale per
furto, rapina ed altro a carico di Romeo Luigi, risultato all'esame
peritale del tutto incapace d'intendere e di volere al momento del
fatto e bisognoso, secondo il perito, di un trattamento diverso da
quello praticabile col ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
18. - Sulle conseguenze del riferimento alla pena comminata in
astratto dalla legge si appuntava invece la censura di violazione
dell'art. 3 Cost. prospettata rispetto all'art. 222 c.p. dal giudice
istruttore del tribunale di Pisa con ordinanza del 23 febbraio 1980
(r.o. 360/80), emessa nel corso del procedimento a carico di Tempesti
Alessandro, riconosciuto affetto da vizio totale di mente. Premesso
che a costui era addebitato, oltre a due contravvenzioni, il furto di
oggetti di modesto valore custoditi all'interno di un'autovettura e che
- in virtù dell'attenuante del danno di speciale tenuità quanto meno
equivalente alle aggravanti contestate - egli avrebbe sicuramente
meritato una pena inferiore ai due anni di reclusione, il G. I.
contestava la razionalità di una previsione per cui non solo ladurata
del ricovero, ma addirittura l'applicazione o meno della misura in
questione, ed in definitiva la stessa pericolosità sociale, dipende
dall'entità della pena massima stabilità dalla legge per l'ipotesi
astratta di reato (superiore a due anni di reclusione; se inferiore, si
fa luogo alla semplice comunicazione della sentenza di proscioglimento
all'autorità di P.S.). In tal modo, secondo il giudice a quo, "sfugge
del tutto il collegamento tra pericolosità e gravità del fatto in
concreto", manca cioè ogni possibilità di adattamento della misura
all'effettiva entità del reato e quindi al grado di pericolosità del
soggetto. "Così, persone che, portate a giudizio per rispondere di
fatti pur ricadenti sotto la stessa ipotesi di reato, sarebbero punite
in modo diverso in rapporto alla diversa gravità del fatto, sono
considerate ugualmente pericolose agli effetti dell'applicazione della
misura tanto che saranno ricoverate in manicomio per uguale periodo
minimo; e persone che, portate a giudizio per rispondere di reati
diversi, sarebbero però condannate alla stessa pena in rapporto ad una
gravità del fatto sostanzialmente corrispondente e dovrebbero quindi
denotare una pericolosità di uguale grado, sono invece soggette oppure
no alla misura a secondo del titolo di reato".
Il rimedio a ciò potrebbe essere, ad avviso del G. I. mutuato
dalla soluzione già adottata in tema di concessione del perdono
giudiziale, ove dall'originario criterio della pena edittale massima
(art. 169 c.p., come approvato con R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) si è
passati a quello della pena in concreto (art. 19 R.D.L. 20 luglio 1934,
n. 1404).
19. - Una questione di legittimità degli artt. 204, ultimo comma,
215 e 222 c.p. veniva altresì sollevata in riferimento agli artt. 3,
24 e 32 Cost., dal Tribunale di Roma con ordinanza del 25 febbraio 1980
emessa nel procedimento penale a carico di Furlan Giorgio imputato dei
reati di cui agli artt. 521 e 527 c.p. e ritenuto all'esame peritale
totalmente incapace d'intendere e di volere (r.o. 367/80).
Nella motivazione, il Tribunale - con argomenti analoghi a quelli
svolti dalla Sezione di sorveglianza di Bologna - sosteneva che, con
l'entrata in vigore della legge n. 180/1978, sono venuti a mancare i
presupposti culturali, scientifici e sociali che giustificavano la
presunzione assoluta di pericolosità degli infermi di mente, essendo
ormai opinione scientifica comune che il malato di mente non sia sempre
persona pericolosa, e che il ricovero - salvo ipotesi ben individuate -
non sia utile o sia addirittura dannoso alla salute del paziente. Di
qui, oltre alla violazione degli artt. 32 e 3 - perché la suddetta
presunzione non consentirebbe di distinguere tra situazioni diverse
anche quello dell'art. 24 Cost., perché in tali ipotesi sarebbe
irragionevolmente compromesso il diritto di difesa.
20. - Alla motivazione della suesposta ordinanza del Tribunale di
Roma si richiamava espressamente il Pretore di Pieve di Cadore nel
sollevare, in riferimento sempre agli artt. 3, 24 e 32 Cost., questione
di legittimità costituzionale degli artt. 204 cpv. e 222 c.p. nel
procedimento per i reati di cui agli artt. 341 e 367 c.p. a carico di
Pais Marden Ivano, che secondo la perizia all'uopo disposta era
totalmente infermo di mente al momento del fatto ma non pericoloso al
momento del giudizio (ordinanza del 20 dicembre 1980: r.o. 90/81).
21. - Ancora il G. I. del Tribunale di Milano dubitava della
legittimità costituzionale dell'art. 222 c.p. - questa volta in
riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma e 32 Cost. -
con ordinanza emessa il 27 maggio 1980 (r.o.519/80) nel corso del
procedimento penale a carico di D'Amato Antonio. Costui aveva
manifestato turbe psicopatologiche dopo il suo arresto e, ricoverato
perciò nel reparto di osservazione neuropsichiatrica della casa
circondariale di San Vittore, aveva aggredito un altro detenuto
procurandogli lesioni gravissime. All'esame peritale, era risultato che
quest'ultimo episodio - oggetto del giudizio - era stato commesso in
stato di totale incapacità d'intendere e di volere e che peraltro egli
aveva poi integralmente riacquistato la sanità mentale, sì da doversi
escludere che fosse socialmente pericoloso.
Rilevato che, ciò nonostante, avrebbe dovuto applicarsi la misura
del ricovero in manicomio giudiziario (rectius, ospedale psichiatrico
giudiziario) per almeno due anni ex art. 222 c.p., il G. I. riteneva
tale conseguenza in contrasto con i principi di cui agli artt. 3, 27 e
32 cpv. Cost. (l'ordinanza richiamava anche l'art. 2 Cost., senza
peraltro svolgere rispetto ad esso alcuna specifica motivazione).
Innanzitutto perché, applicando la medesima misura sanzionatoria al
reo affetto da infermità psichica ed al reo sano di mente, si
parificano situazioni soggettive diverse. In secondo luogo perché -
sulla base delle stesse affermazioni tratte dalla Corte nella sentenza
n. 68 del 1967 - la legittimità costituzionale del citato art. 222
dovrebbe ritenersi subordinata all'effettiva esistenza dello stato
d'infermità psichica; anche perché gli "effetti devastanti" che il
ricovero in un luogo per alienati psichici può notoriamente
determinare su una persona sana di mente farebbero sortire alla misura
di sicurezza l'effetto contrario a quello corrispondente alla sua
precipua funzione.
22. - Anche il Pretore di San Donà di Piave, con ordinanza del 25
giugno 1980 (r.o. 658/80) emessa nel procedimento per truffa a carico
di Rizzardi Carlo - risultato totalmente incapace d'intendere e di
volere al momento del fatto ma sano di mente all'epoca del giudizio -
sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 222, primo
comma, c.p. lamentando l'ingiustificata parificazione del malato di
mente al sano (art. 3 Cost.) ed il pregiudizio alla salute di
quest'ultimo derivante dall'obbligatorio ricovero in manicomio
giudiziario.
23. - Censure identiche - per profili e motivazione - a quelle
formulate dal G. I. di Milano nell'ordinanza 4 febbraio 1980 muoveva
altresì agli artt. 215 e 222 c.p. il giudice istruttore del Tribunale
di Pisa con ordinanza del 4 settembre 1980 (r.o. 11/81) emessa nel
corso del procedimento a carico di Grassi Guglielmo che, fuggito da una
clinica psichiatrica, aveva aggredito un conducente impossessandosi
della sua vettura. Nella specie era risultata la totale infermità
mentale dell'imputato al momento del fatto, ma l'ultimo controllo
peritale aveva evidenziato che egli era in buon equilibrio psichico (ma
sotto trattamento psicotropo di mantenimento) ed aveva escluso che
fosse persona socialmente pericolosa.
24. - Alla motivazione della suddetta ordinanza 4 febbraio 1980 del
G. I. di Milano si richiamava altresì espressamente il Pretore di
Pisa, nel sollevare, in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost. questione
di legittimità costituzionale dei citati artt. 204 cpv. e 222 c.p.
con ordinanza del 21 marzo 1981 (r.o. 360/81) emessa nel corso del
procedimento per i reati di cui gli artt. 340, 341 e 651 c.p. a carico
di Giaconi Anna Maria, nei cui confronti la perizia aveva accertato che
era totalmente incapace d'intendere e di volere al momento del fatto, ma
che non era affatto pericolosa e che era quasi completamente guarita
(sicché il ricovero in manicomio giudiziario poteva risultarle
dannoso).
25. - Anche il G. I. del Tribunale di Grosseto si riportava
espressamente alle argomentazioni del G. I. di Milano (ord. 4 febbraio
1980) e della Sezione di sorveglianza di Bologna (ord.7 dicembre 1978)
nel sollevare, sotto i medesimi profili prospettati dal primo,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 215, 204 cpv, e
222 c.p. (ordinanza del 20 maggio 1981 r.o. 480/81). Nella specie,
all'imputata Martinazzo Malvina erano addebitati reati in astratto
gravi (artt. 578 e 411 c.p.) ma in concreto di lieve entità per le
particolari modalità del fatto, sicché "il probabile concorso di
circostanze attenuanti renderebbe applicabile una pena di due anni di
reclusione". Anche in questo caso, l'imputata era risultata totalmente
incapace d'intendere e di volere al momento del fatto, ma ne era stata
del tutto esclusa la pericolosità sociale.
Nel giudizio così instaurato interveniva, in rappresentanza del
Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato,
peraltro con atto depositato il 15 gennaio 1982, e quindi fuori
termine.
26. - La legittimità costituzionale degli artt. 204, 215 e 222
c.p., in quanto statuenti un periodo minimo di ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario, veniva infine posta in dubbio dal Tribunale
di Venezia con ordinanza del 29 maggio 1981 (r.o. 573/81) emessa nel
procedimento penale a carico di Scroccaro Silvano, che era risultato
affetto da vizio totale di mente. Ad avviso del Tribunale, tali norme
si pongono in contrasto cong li artt. 3 e 32 Cost., "avuto riguardo
alla impossibilità di determinare la pericolosità prima della
scadenza del termine minimo in relazione alla legge sugli ospedali
psichiatrici del 1978 che prevede per i cittadini in genere (non
imputati) il trattamento psichiatrico obbligatorio solo fino a quando
sussiste in senso lato la pericolosità".
27. - Nel giudizio così instaurato interveniva, in rappresentanza
del Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato, la
quale richiamate le sentenze nn. 68/1967 e 106/1972 di questa Corte,
sottolineava che in base alla successiva sentenza n. 110/1974 -
apparentemente ignota al Tribunale di Venezia - è possibile far
cessare l'applicazione della misura di sicurezza de qua anche prima
della scadenza del termine minimo, sicché il ricovero "non si protrae
necessariamente anche oltre la esclusa pericolosità". È vero,
aggiungeva l'Avvocatura, che permane una differenza di trattamento
rispetto al cittadino comune nell'ipotesi d'internamento provvisorio,
giacché mentre l'internamento in ospedale del non imputato non è
obbligatorio se sia infermo di mente ma chiaramente non pericoloso, per
il soggetto imputato o prosciolto esso è obbligatorio; anche se una
volta esclusa la pericolosità, la misura può essere ben tosto
revocata. Ma tale differenza si giustifica - secondo l'Avvocatura - in
ragione della commissione di un reato, che rende "tutt'altro che
peregrina" - diversamente che per i non imputati - l'ipotesi che il
soggetto abbia ad ulteriormente delinquere. Né, per altro verso,
sussisterebbe violazione dell'art. 32 Cost., in quanto "il soggetto
imputato o prosciolto da reato che risulti infermo di mente è
obbligato agli accertamenti sanitari ai fini della valutazione della
sua pericolosità per disposizione di legge".
Considerato in diritto:
1. - I giudici a quibus denunziano talune disposizioni del codice
penale (artt.: 204, cpv,205 cpv.,215,222 e 231) con riferimento ad una
pluralità di parametri costituzionali (artt.: 3,4,13, secondo comma;
24, secondo comma; 27, primo e terzo comma; 32, primo e secondo comma;
111) e sotto molteplici profili.
Centrale e comune a tutte le ordinanze di rimessione è, peraltro,
la questione se sia costituzionalmente legittimo il trattamento
normativamente riservato ai soggetti che, essendone stata accertata
l'incapacità di intendere o di volere, per infermità psichica, al
momento in cui hanno commesso un fatto di reato - non colposo e punito
con pena edittale superiore nel massimo ad anni due di reclusione -
sono stati, perciò, prosciolti, perché non imputabili (art. 88 del
codice Penale). Ciò in quanto di costoro si deve "sempre" ordinare il
ricovero in un manicomio (ora "ospedale psichiatrico") giudiziario per
un periodo minimo predeterminato dalla legge (art. 222, primo e secondo
comma, del codice penale), presumendosene la pericolosità sociale.
I ventidue giudizi, di cui alle ordinanze indicate in epigrafe, che
propongono questioni identiche od analoghe possono, perciò, essere
riuniti e decisi con unica sentenza.
2. - Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi su
questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni
di legge - sostanziali e processuali - concernenti le misure di
sicurezza e, in particolare, la misura di sicurezza detentiva del
ricovero in manicomio, ora ospedale psichiatrico, giudiziario.
Sinteticamente e per quanto può rilevare ai fini del presente
giudizio - che concerne unicamente soggetti prosciolti perché non
imputabili per infermità mentale ai quali va applicata,
obbligatoriamente ed automaticamente, la misura di sicurezza del
ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per il periodo minimo
legislativamente fissato - basterà ricordare che la Corte ha giudicato
indenni da censure di costituzionalità (mosse con riferimento agli
artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, secondo
comma - in realtà terzo - e 32 Cost.) le disposizioni del codice
penale (artt. 204, secondo comma, 222, primo e secondo comma, 224,
ultimo comma) che stabiliscono una presunzione assoluta di
pericolosità sociale a carico, appunto, degli imputati prosciolti per
infermità psichica da un reato di una certa gravità. Ciò perché "la
presunzione stessa deve ritenersi giustificata allorché si sia in
presenza di condizioni le quali consentano di far ritenere, sulla base
di valutazioni obiettive ed uniformi desunte dalla comune esperienza,
la probabilità di un futuro comportamento criminoso da parte di chi
abbia commesso un reato in circostanze che ne precludevano
l'imputabilità" (sent. 106/1972). La presunzione di pericolosità
presuppone, dunque, la riferibilità di un fatto di reato (non colposo,
punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni)
ad un soggetto che, nel momento in cui lo ha commesso, era incapace di
intendere o di volere per infermità psichica. E, poiché la
pericolosità sociale consiste in una probabilità di recidiva (art.
203, primo comma, del codice penale) e dà quindi luogo ad un giudizio
prognostico, la ragionevolezza del criterio presuntivo adottato dal
legislatore poggia sull'accertamento di una infermità psichica che,
come si è manifestata nella commissione di un reato, così, secondo
dati di comune esperienza, può dar luogo alla reiterazione di condotte
criminose. In altre parole, è il giudizio di probabilità, la prognosi
di recidiva che il legislatore vuole si deduca obbligatoriamente
dall'accertamento dei due indicati e correlati presupposti, e questa
sua scelta "non può ritenersi condizionata a vincoli discendenti dal
rispetto di principi costituzionali, e più particolarmente da quello
dell'art. 3, ma rimane invece affidata a valutazioni di politica
legislativa" (sent. 106/1972 cit.).
3. - Alla stregua di questo medesimo filone argomentativo, per cui
la presunzione di pericolosità in tanto può considerarsi
costituzionalmente legittima, in quanto si basa sull'id quod plerum que
accidit (cfr. sentenze: nn. 19 del 1966, 68 del 1967 e 106 del 1972) la
Corte - con la sentenza n. 1 del 1971 - ha, invece, dichiarato la
illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3, primo comma,
Cost., dell'art. 224, secondo comma, del codice penale "nella parte in
cui rende obbligatorio ed automatico per i minori degli anni
quattordici il ricovero per almeno tre anni in riformatorio
giudiziario". Ciò perché la norma in esame riguarda in modo identico
situazioni diverse (dell'infante, del bimbo in tenera età e del minore
prossimo al raggiungimento del quattordicesimo anno di età) e perché
è arbitrario, in quanto non suffragato da alcun dato di esperienza,
ritenere normale la pericolosità del minore di quattordici anni.
4. - Va, infine, ricordato che la Corte ha ripetutamente
sottolineato come il rigore del sistema - in quanto fondato sulla
presunzione assoluta di pericolosità - trovi temperamento nella
possibilità di revoca della misura di sicurezza, ex art. 207 del
codice penale. Del terzo comma di quest'ultima disposizione la Corte,
con la sentenza n. 110 del 1974, ha, poi, dichiarato la illegittimità
costituzionale "nella parte in cui attribuisce al Ministro di grazia e
giustizia - anziché al giudice di sorveglianza - il potere di revocare
le misure di sicurezza", pervenendo quindi, in applicazione dell'art.
27 della legge n. 87 del 1953, alla pronuncia di incostituzionalità
anche del secondo comma del medesimo art. 207 del codice penale "in
quanto non consente (al giudice) la revoca delle misure di sicurezza
prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima
stabilita dalla legge".
5. - Conclusivamente, si può dire che la disciplina complessiva
della misura di sicurezza detentiva del ricovero in manicomio (ora
ospedale psichiatrico) giudiziario, per effetto della giurisprudenza
della Corte e per la successiva intervenuta abrogazione dell'art. 207,
ultimo comma, del codice penale (in forza dell'art. 89 della legge 26
luglio 1975 n. 354), si è sostanzialmente modificata rispetto
all'impianto originario.
Ciò nel senso che, pur ferma, salvo che per i minori degli anni
quattordici, la presunzione legale di pericolosità sociale desunta
dalla commissione di un reato di una certa gravità in condizioni di
totale incapacità di intendere o di volere per infermità psichica,
"spetta al giudice il potere di revoca della misura di sicurezza - ove
sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità (art. 207,
comma primo, del codice penale) - anche prima che sia decorso il tempo
corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge" (sent. n. 110
del 1974, citata).
6. - Tanto ricordato, la Corte riafferma anzitutto la legittimità
in via di principio, nel campo delle misure di sicurezza, di tecniche
normative di tipizzazione di fattispecie di pericolosità" cui
collegare l'applicazione di determinate misure.
L'esigenza di una determinazione legale sufficientemente precisa
dei presupposti delle misure di sicurezza deriva, anzi, dalla
affermazione costituzionale del principio di legalità(art. 25, ultimo
comma, Cost.). Rientra, dunque, sempre invia di principio, nella
responsabilità del legislatore anche determinare se e quali spazi e
criteri d'orientamento sia opportuno lasciare alla discrezionalità o
all'apprezzamento tecnico del giudice, in vista dell'adeguamento
finalistico delle misure alle situazioni individuali.
È parimenti acquisita alla giurisprudenza della Corte la
doverosità del sindacato, alla stregua del principio di uguaglianza,
su singole fattispecie di pericolosità costruite in termini
"presuntivi" e rigidi, là dove la presunzione di pericolosità non
abbia fondamento nell'id quod plerumque accidit ed abbia per
conseguenza la indiscriminata applicazione delle misure di sicurezza in
situazioni che differiscono fra loro proprio negli aspetti cui la
misura ragionevolmente può riferirsi (sent. n. 1 del 1971, dianzi
citata).
La questione di legittimità costituzionale del trattamento
previsto dall'art. 222 del codice penale per gli autori di reato
prosciolti per infermità psichica non può, pertanto, essere dissolta
nella questione generica della "pericolosità presunta", ma si incentra
sui contenuti specifici di una specifica tipizzazione o presunzione
normativa, in forza della quale i presupposti dell'obbligatorio
ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario sono costituiti da:
commissione di un delitto di una certa gravità (espressa dal massimo
edittale di pena) e totale infermità mentale dell'imputato al momento
del fatto.
"Presunzione di pericolosità", in concreto, non significa altro
che l'obbligatoria ed automatica applicazione della misura in tali
ipotesi, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione e da
eventuali ulteriori accertamenti; l'unico limite è che fra il fatto
giudicato e la sentenza non sia decorso un tempo superiore a cinque
ovvero a dieci anni (art. 204, cpv., n. 1 e 2, codice penale), nei quali
casi si deve fare luogo a giudizio di pericolosità in concreto,
secondo il principio enunciato come generale dall'art. 203 del codice
penale.
La logica della disposizione denunciata sta nell'assumere
l'infermità psichica dell'autore del reato quale elemento che
caratterizza e collega i due termini della disciplina: il delitto in
cui l'infermità ha manifestato una sua specifica pericolosità ed il
tipo di risposta legale. La misura "di sicurezza" del ricovero
obbligatorio in ospedale psichiatrico giudiziario costituisce la
risposta alla pericolosità del soggetto; risposta modellata sulla
specifica ragione (causa) di questa sua ritenuta pericolosità, vale a
dire l'infermità psichica quale si è estrinsecata nel delitto
commesso. Presupposti e definizione dell'istituto pongono così in
risalto - e inscindibilmente collegano - dimensioni di "sicurezza" e
dimensione terapeutica; il che è necessario a legittimare la misura,
sia di fronte alla finalità di prevenzione speciale, "riabilitativa",
propria in genere delle misure di sicurezza (sentenza n. 68 del 1967)
sia di fronte al principio, anche esso costituzionale, di tutela della
salute (art. 32 Cost.).
Come misura "finalizzata" - orientata a risultati, ad un tempo di
sicurezza e di terapia - il ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario appare pertanto ragionevolmente connesso al duplice
presupposto tipico della commissione di un delitto non lieve e
dell'infermità psichica quale condizione del delitto.
7. - Le argomentazioni sin qui richiamate ed esposte valgono a
confutare in modo esplicito od implicito quelle in contrario addotte
dalla maggior parte dei giudici rimettenti, al fine di contestare la
legittimità costituzionale della presunzione di pericolosità sociale
posta dalle norme denunziate. Va, peraltro, precisato che ci si
riferisce alle questioni sollevate in giudizi nei quali indagini
peritali esperite caso per caso hanno escluso la pericolosità sociale
dell'imputato, pur essendo rimasta sostanzialmente inalterata, nella
sua natura, nelle sue caratteristiche e nella sua intensità, rispetto
al momento del fatto, l'infermità psichica dell'imputato stesso, che
determinandone il vizio totale di mente, ne comporta il proscioglimento
ai sensi dell'art. 88 del codice penale. Questo presupposto di fatto
accomuna le varie questioni, tutte rivolte, pur su piani e sotto
profili diversi, ad indubbiare il criterio presuntivo posto dal
legislatore, la cui razionalità si assume smentita, nelle fattispecie
considerate dall'accertamento peritale.
In aggiunta alle considerazioni sopra svolte, più che ribadire la
natura prognostica - di reiterazione di condotte criminose - del
giudizio di pericolosità sociale, che rende del tutto ragionevole
(anzi ineliminabile in ogni caso) il ricorso a criteri probabilistici,
val la pena di osservare che il riferimento al massimo della pena
edittale, assunto quale indice della gravità del reato, e non invece
alla pena irrogabile in concreto, tenendo conto di eventuali
attenuanti, oltre a discendere in modo coerente dal presupposto della
misura rappresentato da una sentenza di proscioglimento (e non di
condanna) dell'imputato incapace, garantisce la applicazione della
misura stessa in tutte le situazioni normativamente descritte con pieno
rispetto del principio di uguaglianza. Quanto alla ulteriore censura,
per cui le norme impugnate assoggetterebbero adugua le disciplina
infermità di natura diversa, ovvero della stessa natura ma di diversa
intensità da soggetto a soggetto, basterà rilevare che presupposto
per l'applicazione della misura è un accertamento di incapacità di
intendere o di volere per infermità psichica e che tale requisito è
sufficiente ad accomunare infermità che, pur se di natura ed
intensità diverse, danno luogo all'identico risultato in termini di
imputabilità (art. 88 del codice penale).
Lo stesso requisito, d'altra parte, differenzia nettamente la
situazione del totalmente infermo di mente rispetto a quella del
seminfermo di mente, la cui capacità di intendere o di volere, pur se
grandemente scemata, non è esclusa (art. 89 c.p.). È perciò del
tutto legittimo - oltre che razionalmente adeguato - che solo per il
secondo e non anche per il primo sia prevista, in determinati casi, la
possibilità di sostituire la misura di sicurezza detentiva con quella,
non detentiva, della libertà vigilata (art. 219, terzo comma c.p.).
Dall'affermata legittimità di tale trattamento differenziato deriva
l'infondatezza dell'ulteriore censura di violazione del diritto al
lavoro garantito dall'art. 4 Cost.. Deve di conseguenza ritenersi
precluso l'esame dell'ulteriore censura mossa dal giudice di
sorveglianza del Tribunale di Roma all'art. 231 c.p. sotto il profilo
della mancata previsione della possibilità di sostituire, in senso
inverso, la misura di sicurezza detentiva alla libertà vigilata in
caso di gravi violazioni alle prescrizioni inerenti a questa,
trattandosi evidentemente di questione prospettabile solo presupponendo
la fondatezza di quella or ora disattesa.
Delle questioni sollevate con riferimento agli artt. 13, secondo
comma, 111 e 24, secondo comma Cost., basterà dire che sono state già
dichiarate infondate dalla Corte con le sentenze nn. 19 del 1966 e 68
del 1967, e che i giudici rimettenti non propongono ora argomentazioni
diverse da quelle allora disattese.
Nemmeno può ritenersi vulnerato il principio della personalità
della responsabilità penale, di cui all'art. 27, primo comma, Cost.
Pur a voler ammettere, in via di ipotesi, che nel campo di applicazione
del citato disposto costituzionale rientrino anche le misure di
sicurezza e non, invece, soltanto le pene, resta che il vincolo ivi
posto attiene al momento della costruzione della fattispecie e comporta
la necessità di un collegamento tra il presupposto specifico della
misura e il soggetto cui essa viene applicata: in altre parole, si
esige che la misura stessa venga applicata soltanto a soggetti dei
quali risulti accertata la pericolosità criminale. Rispetto al
precetto costituzionale è invece indifferente il modo in cui il
suddetto collegamento viene configurato, se cioè esso debba risultare
da un accertamento caso per caso della pericolosità ovvero da una
presunzione stabilita dal legislatore sulla base di presupposti
razionalmente idonei a fondarla.
La censura, infine, mossa con riferimento all'art. 27, terzo comma
Cost., è già stata respinta da questa Corte (sentenze N. 68 del 1967
e 106 del 1972) con il rilievo che tale norma "si riferisce soltanto
alle pene e non considera le misure disicurezza proprio perché esse
tendono ad un risultato che uguaglia quella rieducazione cui deve
mirare la pena". Al proposito si può aggiungere che rispetto al
parametro costituzionale invocato viene in considerazione il tipo di
misura prefigurato in via generale dal legislatore e la sua astratta
idoneità a perseguire finalità rieducative, non invece le modalità
di determinazione e di accertamento dei presupposti per la sua
applicazione.
Vero è che la questione qui da ultimo disattesa ha ad oggetto non
tanto la presunzione di pericolosità sociale, come normativamente
posta, quanto il ricovero obbligatorio in ospedale psichiatrico
giudiziario, per il dubbio che tale ricovero non sia razionalmente
idoneo al conseguimento delle finalità curative e risocializzanti
assegnate - accanto alle finalità di prevenzione sociale - alla misura
di sicurezza in questione. Nella stessa prospettiva si pongono altri
giudici rimettenti che denunziano una possibile lesione dell'art. 32,
primo comma, Cost. con riguardo alle condizioni strutturali ed alle
prassi terapeutiche degli ospedali psichiatrici giudiziari, ovvero una
violazione del principio di uguaglianza, stante il trattamento
gravemente deteriore riservato agli infermi di mente ai quali viene
applicata la misura di sicurezza in esame rispetto ai comuni malati di
mente, cui si applica la nuova legislazione in materia, ai sensi della
quale il ricovero obbligatorio è eccezionale, di durata limitata e
fondato soltanto sulla necessità di urgenti interventi terapeutici,
senza che venga più in considerazione la pericolosità dell'infermo
(legge 13 maggio 1978, n. 180 e legge 23 dicembre 1978, n. 833).
Prendendo in esame quest'ultima censura, è evidente la non
omogeneità delle situazioni messe a confronto, posto che la misura di
sicurezza in questione torna applicabile soltanto a quegli infermi di
mente che, essendo stati prosciolti dall'imputazione di un reato di una
certa gravità perché commesso in stato di totale incapacità di
intendere o di volere, vengono dalla legge considerati socialmente
pericolosi. Al comune malato di mente non è riferibile invece la
commissione di alcun reato, o almeno di un reato di uguale gravità, e
tanto basta a legittimare il differente trattamento normativo.
Quanto infine ai rilievi che vengono mossi alle effettive
condizioni organizzative e di gestione degli ospedali psichiatrici
giudiziari, rappresentate come tali da menomare grandemente o
addirittura vanificare la funzione di cura degli internati per
soddisfare, invece e soltanto, una funzione repressiva e segregante,
questa Corte, giudice delle leggi, non può dedurne motivi di
incostituzionalità delle norme denunziate, tra le quali non sono
comprese quelle disciplinanti appunto gli ospedali psichiatrici
giudiziari. Ciò non toglie che le carenze lamentate dai giudici
rimettenti, in base a personali, sofferte esperienze e risultanti anche
da indagini ufficiali condotte o promosse da autorità a ciò
competenti, esigano la più attenta considerazione e la più sollecita
iniziativa da parte del legislatore e dei pubblici poteri. Il problema
umano e sociale del trattamento da riservare ai soggetti prosciolti
perché non imputabili per infermità psichica non può essere
affrontato e risolto in termini formali e nominalistici - di etichetta
verrebbe fatto di dire - ma impone l'adozione di misure concretamente
idonee alla cura e non soltanto alla custodia di quei soggetti
medesimi, essendo evidente che la loro risocializzazione dipende dalla
guarigione o quanto meno dal miglioramento delle loro condizioni
psichiche.
8. - Le considerazioni svolte e le conclusioni sin qui raggiunte
muovono, come si è detto, dal presupposto che la situazione di
infermità psichica accertata rispetto al momento del fatto risulti
immutata nel momento del giudizio ovvero in quello successivo in cui la
misura in questione debba essere ordinata, ove a ciò si sia omesso di
provvedere con la sentenza di proscioglimento (art. 205 cpv. n. 2
c.p.). In altre parole le disposizioni di legge denunziate in tanto
sono indenni da vizi di costituzionalità in quanto una tale infermità
sia inalterata nel tempo in cui la misura di sicurezza è applicata ed
eseguita (la vicinanza temporale fra il giudizio e l'esecuzione della
misura è, nell'ipotesi normale, assicurata dall'immediata esecutività
delle sentenze di proscioglimento per inimputabilità).
La disposizione dell'art. 222 cod. pen., peraltro, prescinde dalla
"attualizzazione" del giudizio di infermità mentale, guardando
esclusivamente al momento del fatto. La struttura "presuntiva" della
fattispecie si rivela contenere, come bene hanno osservato alcune
ordinanze di rimessione, una presunzione duplice: innanzitutto quella
che ricollega infermità e pericolosità, e che è quella che la Corte,
in precedenti pronuncie, ha già ritenuto non in contrasto con i
criteri di comune esperienza. Ma la applicazione della misura a
distanza di tempo dal fatto (obbligatoria ed automatica fino a che non
siano trascorsi cinque o dieci anni) poggia su una presunzione
ulteriore, concernente il perdurare (non della sola pericolosità, ma)
della stessa infermità psichica, senza mutamenti significativi dal
momento del delitto al momento del giudizio.
Una simile presunzione assoluta di durata dell'infermità psichica,
lungi dall'esprimere esigenze di tutela discrezionalmente apprezzate
dal legislatore, finisce per allontanare la disciplina normativa dalle
sue basi razionali. Dietro la presunzione non vi sono né dati
d'esperienza suscettibili di generalizzazione, né esigenze di
semplificazione probatoria. Indurre, a distanza di tempo imprecisata,
lo stato di salute mentale attuale da quello del tempo del commesso
delitto, è questione di fatto che può e deve essere verificata caso
per caso; totalmente privo di base scientifica sarebbe comunque
ipotizzare uno stato di salute (anzi di malattia) che si mantenga
costante, come regola generale valida per qualsiasi caso d'infermità
totale di mente. Quanto alle preoccupazioni probatorie (che pure hanno
trovato un'eco in precedenti pronuncie della Corte) è di tutta
evidenza che la prognosi postuma, richiesta (al perito psichiatra)
dall'accertamento della imputabilità o non imputabilità al momento
del fatto, presenta difficoltà incomparabilmente maggiori della
diagnosi dello stato di salute psichica presente al momento del
giudizio od in quello successivo in cui la misura debba essere
applicata. Di regola, anzi, sarà proprio questa diagnosi a fornire
elementi basilari per la ricostruzione (induttiva, spesso opinabile)
dello stato di salute nei periodi anteriori. Una regola "presuntiva",
come quella implicita nell'art. 222 cod. pen., che imponga di
ricostruire il presente dal passato, si rivela pertanto un'inversione
totale della logica del giudizio scientifico, su cui poggia qualsiasi
ragionevole disciplina dell'infermità di mente.
La conseguenza pratica della norma denunciata è che, collegandosi
la misura di sicurezza all'infermità psichica al momento del fatto, la
misura andrà ugualmente applicata a soggetti che, al momento del
giudizio, siano ancora infermi di mente, e ad altri il cui stato di
salute (ovviamente oggetto dell'esame peritale concernente
l'imputabilità) abbia invece subito una positiva evoluzione. I giudizi
a quibus offrono al riguardo una precisa ed inquietante
esemplificazione.
La differenza evidenziata - che la disciplina legale ignora -
attiene proprio all'elemento - lo stato di salute psichica attuale -
che solo è idoneo a giustificare una misura di sicurezza orientata
alla salute psichica del destinatario, quale è per definizione
l'ospedale psichiatrico giudiziario. Di qui l'illegittimità
costituzionale dell'art. 222, primo comma, cod. pen., nella parte in
cui non subordina il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo
accertamento - da parte del giudice della cognizione o della esecuzione
- della persistente pericolosità sociale derivante dall'infermità
medesima al tempo dell'applicazione della misura.
In questi limiti, la pronuncia d'illegittimità deve investire, di
riflesso, anche gli artt. 204 cpv. e 205 cpv. n. 2 c.p.: il primo, in
quanto, dettando una disposizione generale e quindi riferendosi anche
alla misura di sicurezza in questione, pone una presunzione assoluta
che preclude accertamenti sulla pericolosità anteriore ai termini ivi
fissati (dieci o cinque anni dal fatto); il secondo, in quanto preclude
analoghi accertamenti al giudice dell'esecuzione che sia chiamato ad
applicare la misura, ove non ordinata nella sentenza di
proscioglimento. Immune da censura è invece l'art. 215 c.p., pure
denunziato in talune ordinanze, giacché esso si limita a prevedere,
tra le altre, la misura di sicurezza in questione, senza dettare alcuna
disposizione che investa la sua concreta disciplina.
9. - In questi termini, la dichiarazione d'illegittimità
costituzionale delle norme suindicate contribuisce a restituire
coerenza ad un sistema normativo, nel quale la rigida logica originaria
delle presunzioni di pericolosità è già stata fortemente incrinata,
a seguito della dichiarazione d'illegittimità costituzionale dei commi
secondo e terzo dell'art. 207 cod. pen., con conseguente trasformazione
della revoca anticipata delle misure di sicurezza, da atto politico del
Ministro, inattività giurisdizionale doverosa, ricorrendone i
presupposti sostanziali (la competenza a provvedere è ora regolata
dall'art. 70 della legge 26 luglio 1975, n. 354). La "presunzione di
durata" della pericolosità - implicita nella determinazione
inderogabile (per il giudice) di un periodo minimo di durata della
misura di sicurezza - ha cessato di essere assoluta, lasciando spazio a
puntuali verifiche giudiziali dell'evolversi della situazione concreta.
La contrapposizione di presunzioni legali al giudizio concreto di
pericolosità ha perciò già perso il suo vero significato, che era
collegato all'applicazione obbligatoria di una misura per un periodo
minimo inderogabile, mentre un principio generale unificante è ora
ravvisabile nel potere - e dovere - del giudice di disporre, sulla base
degli opportuni, concreti accertamenti, la revoca della misura, in
qualsiasi momento la persona sottoposta abbia cessato d'essere
pericolosa.
Perfetta coerenza e continuità, in conclusione, vi è fra la
presente decisione e la sent. n. 110/74, nel superamento di un sistema
che, se riconosce la legittimità in via di principio della
tipizzazione legale di fattispecie di pericolosità, già si è
allontanato da un sistema di determinazione della durata delle misure
di sicurezza in termini rigidi, agganciati ad ulteriori presunzioni. Il
potere di apprezzamento concreto del giudice, che la presente pronuncia
ritiene necessario ad evitare ingiustificati livellamenti di situazioni
diverse, non è altro se non il potere di non internare in ospedale
psichiatrico giudiziario soggetti che, in considerazione del loro
attuale stato di salute, avrebbero il diritto di ottenere
immediatamente la revoca c.d. anticipata.