Ritenuto in fatto:
Con ordinanza del 20 ottobre 1961, emessa nel corso di un
procedimento penale avanti il Tribunale di Livorno contro Arzilli Aldo
ed altri 192 dipendenti dell'azienda tramviaria automobilistica
municipale (A.T.A.M.) di Livorno, imputati del reato di cui agli artt.
330 e 504-505 del Cod. pen, è stata sollevata questione di
legittimità costituzionale in ordine alla possibilità di ritenere
compatibile con l'art. 40 della Costituzione sia la prima di dette
disposizioni, che non regola ma disconosce il diritto di sciopero per
alcune categorie di lavoratori, e sia quelle di cui ai successivi artt.
504 e 505 riguardanti le astensioni collettive dal lavoro determinate
da motivi non economici.
L'ordinanza è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 10
marzo 1962, n. 66, e regolarmente notificata e comunicata ai sensi di
legge.
Si è costituita nel presente giudizio solo l'Avvocatura dello
Stato che nelle deduzioni depositate il 17 novembre 1961, osserva come
le fattispecie considerate negli artt. 504 e 505 si riferiscono ad
astensioni dal lavoro che non possono ritenersi incluse nell'ambito del
concetto tecnico di sciopero, nel quale non rientrano né quelle che
sono ispirate a fini politici (e che devono considerarsi piuttosto
espressione di una diversa figura, configurabile quale resistenza
collettiva, che è situazione di mero fatto non suscettibile di
qualificazione giuridica positiva), né le altre che tendono ad
affermare la solidarietà con altri lavoratori in isciopero, a meno che
le astensioni stesse non fossero effettuate da appartenenti alla stessa
categoria di questi ultimi.
Tale interpretazione sarebbe implicitamente confermata, ad avviso
dell'Avvocatura, dalla sentenza n. 29 del 1960 della Corte, che, mentre
dalla dichiarazione di illegittimità del primo comma dell'art. 502
del Cod. pen. ha fatto discendere in via conseguenziale anche quella
del secondo comma, non ha viceversa esteso la pronuncia stessa ai
successivi artt. 503, 504, 505 del Cod. penale.
Altro motivo di conforto alla tesi sostenuta trae da un recente
schema di disegno di legge che, nel predisporre una disciplina dei
conflitti di lavoro di interesse generale, appresta una strumentazione
legale per la loro composizione: ciò che fa presupporre l'esistenza di
conflitti che investono i soggetti del rapporto lavorativo, e non già
altri a questo estranei.
Per la seconda questione sollevata, relativa all'art. 330,
l'Avvocatura mette in rilievo la diversità dei termini che presenta,
dato che per essa vengono in considerazione i limiti soggettivi del
diritto di sciopero, che vigono anche quando questo sia promosso da
motivi di indole contrattuale ove l'astensione dal lavoro provenga da
chi sia legato da un rapporto di pubblico impiego o con imprese
abilitate all'esercizio privato di funzioni o servizi pubblici, o
comunque quando il rapporto stesso attenga a servizi di pubblica
necessità: dal che deriva che la questione non è configurabile come
di legittimità costituzionale ma piuttosto di interpretazione della
legge penale. Conclude chiedendo che vengano dichiarate infondate le
questioni sollevate.
Con memoria del 3 maggio 1962 l'Avvocatura ha ribadito le
argomentazioni formulate e insistito nelle conclusioni dedotte.
Considerato in diritto:
1. - L'ordinanza del Tribunale di Livorno propone due specie di
questioni. La prima riguarda la compatibilità con l'art. 40 della
Costituzione, che garantisce il diritto soggettivo di sciopero,
dell'art. 330 del Cod. penale, il quale punisce come delitti contro la
pubblica Amministrazione l'abbandono collettivo del lavoro effettuato
dagli appartenenti a quattro categorie di personale, e cioè i pubblici
ufficiali, gli incaricati di pubblici servizi aventi la qualifica di
impiegati, i privati che, senza essere organizzati in imprese,
eserciscono servizi pubblici o di pubblica necessità e, infine, i
dipendenti da imprese che attendono ai servizi ora detti. La seconda
questione si riferisce alle ipotesi di sciopero previste dagli artt.
504 e 505 (inclusi nel titolo VIII, dei delitti contro l'economia
pubblica) se effettuati allo scopo di esercitare coazione sulla
pubblica autorità, e, rispettivamente, di esprimere una protesta, o di
manifestare la solidarietà con altri lavoratori.
2. - La Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sulla
interpretazione dell'art. 40 della Costituzione e con sentenza n. 29
del 1960, presupposta la immediata precettività del medesimo anche
nell'attuale periodo di carenza della legge cui esso rinvia, ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 502, secondo comma,
del Cod. pen, che puniva lo sciopero economico di lavoratori legati da
rapporto contrattuale di lavoro, nella considerazione che dovesse
ritenersi decaduto per effetto sia della soppressione dell'ordinamento
corporativo, dal quale traeva l'esclusivo suo fondamento, sia del
principio della libertà sindacale sancito dall'art. 39 della
Costituzione.
Con altra sentenza (n. 46 del 1958), statuendo sulla questione
sottopostale della costituzionalità dell'art. 333 del Cod. pen, ha
poi ritenuto che anche l'astensione dal lavoro da parte di singoli
appartenenti alle categorie di addetti ai pubblici uffici, servizi,
lavori ivi considerati, deve rimanere immune dalle sanzioni penali
quando si dimostri che la medesima abbia avuto luogo al fine di
partecipare ad uno sciopero, e sempreché questo sia da considerare
legittimo.
Il principio, implicito in quest'ultima pronuncia, deve essere
confermato. Ma insieme devono essere ricercati i limiti (coessenziali
ad esso, come a qualsiasi altra specie di diritto) entro cui il suo
esercizio può ritenersi consentito.
Nel procedere a tale ricerca, resa necessaria dal mancato
adempimento da parte del legislatore dell'imperativo a lui imposto
dall'art. 40, la Corte gode di un potere più ristretto di quello
proprio dell'organo legislativo, essendole consentito di far valere
solo quelle, fra le possibili limitazioni, che si desumano in modo
necessario o dal concetto stesso dello sciopero (qual'è derivato dalla
tradizione accolta dal costituente, e che si concreta nell'astensione
totale dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati, al fine
della difesa dei loro interessi economici), oppure dalla necessità di
contemperare le esigenze dell'autotutela di categoria con le altre
discendenti da interessi generali i quali trovano diretta protezione in
principi consacrati nella stessa Costituzione.
3. - Poiché l'esame della Corte sulla questione prospettata deve
rimanere circoscritto (a termine dell'art. 23 della legge 11 marzo
1953, n. 87) nell'ambito segnato dalla rilevanza che la sua soluzione
riveste per poter giungere alla decisione del giudizio di merito, in
occasione del quale essa è stata proposta: giudizio vertente, nella
specie, nella materia dello sciopero di lavoratori addetti ad imprese
di servizi pubblici, si tende necessario accertare se nel sistema della
Costituzione si riscontrino elementi idonei ad escludere o limitare il
diritto garantito dall'art. 40 in confronto a quella determinata
categoria di prestatori d'opera.
Non sembra che l'indagine così proposta trovi un ostacolo
pregiudiziale nella lettera dell'art. 40, come si afferma da chi
ritiene che questa consenta limiti pertinenti solo all'esercizio del
diritto, non già alla sua titolarità, con la conseguenza di dover
riconoscere la legittimazione attiva all'esercizio stesso agli
appartenenti a qualsiasi categoria di prestatori d'opera. Infatti, il
potere di regolamentazione che la Costituzione affida alla legge ha per
oggetto il diritto di sciopero in genere e, quindi, appare suscettibile
di rivolgersi a ciascuno degli elementi che entrano a comporlo,
compresi in essi anche i soggetti che ne possono essere titolari,
sempreché tali eventuali limitazioni di carattere soggettivo possano
apparire imposte dall'esigenza di salvaguardare quegli interessi
generali cui si è fatto riferimento.
4. - Pertanto, per decidere circa l'attuale applicabilità
dell'art. 330 ai personali ivi considerati, appare necessaria rendersi
conto della natura delle funzioni affidate alla cura dei medesimi.
Si può nella specie prescindere dall'esame, che sarebbe
pregiudiziale, in ordine alla fondatezza del dubbio che è stato
sollevato, vertente sulla attuale applicabilità, per opera
dell'interprete, e fino a quando non sia intervenuta la nuova
regolamentazione legislativa del diritto di sciopero, delle sanzioni
penali corrispondenti alle fattispecie criminose previste da un Codice
penale ispirato, per quanto riguarda la materia in oggetto, ad una
ideologia ed a principi in tutto contrastanti con quelli cui si informa
il vigente sistema costituzionale. Se ne può prescindere perché, se
pure il dubbio prospettato si dovesse risolvere nel senso della
sopravvivenza delle norme in parola, la loro applicabilità sarebbe
ammissibile solo condizionatamente al rispetto del principio già
enunciato, e cioè entro i limiti in cui la perseguibilità penale
dello sciopero appaia necessitata dal bisogno di salvaguardare dal
danno dal medesimo derivante il nucleo degli interessi generali
assolutamente preminenti rispetto agli altri collegati all'autotutela
di categoria.
Ora la Corte ritiene che i servizi pubblici del genere di quelli di
cui è discussione (e per i quali, come si è detto, la questione
proposta assume il rilievo necessario per potere farla prendere in
considerazione) non rivestono il grado di importanza sufficiente a
provocare, con la lesione degli interessi predetti, la perdita
dell'esercizio del potere garantito dall'art. 40 della Costituzione.
Dal che consegue che ai lavoratori addetti ai servizi medesimi, ove si
mettano in sciopero, non possano venire inflitte le sanzioni previste
dall'art. 330 del Codice penale.
5. - È ora da accertare se a conclusione diversa possa giungersi
in confronto all'altra questione sollevata, riguardante la
costituzionalità degli artt. 504 e 505 del Cod. penale.
In proposito è da ricordare che, come si è prima rilevato, lo
sciopero di cui all'art. 40 è legittimo solo quando sia rivolto a
conseguire fini di carattere economico, secondo si può desumere, fra
l'altro, dalla collocazione del medesimo sotto il titolo terzo della
prima parte della Costituzione, che si intitola, appunto, ai rapporti
economici. È tuttavia da chiarire che la tutela concessa a tali
rapporti non può rimanere circoscritta alle sole rivendicazioni di
indole meramente salariale, ma si estende a tutte quelle riguardanti il
complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina nelle
norme racchiuse sotto il titolo stesso.
Ciò precisato, e passando all'esame della questione sollevata in
ordine all'art. 504, è da ritenere che le sanzioni ivi comminate non
si rendono applicabili nel caso di scioperi promossi da fini economici.
Ciò appare chiaro, perché discende dall'interpretazione prima
data dell'art. 330 - con il quale l'art. 504 deve essere coordinato -
nell'ipotesi che la pretesa degli scioperanti (sempreché essi
rientrino nella categoria degli addetti ai pubblici servizi dei quali
si è parlato) si faccia valere di fronte alla pubblica autorità che
assume la qualità di parte del rapporto di lavoro, allo scopo di
ottenere che la disciplina di quest'ultimo venga modificata a favore
dei dipendenti. Rinviando al seguito l'esame del punto se ad uguale
conclusione possa giungersi anche quando lo sciopero sia effettuato da
lavoratori non dipendenti dall'ente pubblico, a scopo di solidarietà,
è qui da osservare come l'opinione accolta trovi conferma quando si
metta a confronto l'art. 504 con il precedente art. 503. Infatti, la
differenziazione operata dal legislatore penale fra l'ipotesi della
generica pressione esercitata sulla pubblica autorità e quella di
sciopero politico mostra come la pressione stessa debba apprezzarsi
diversamente secondo che venga effettuata allo scopo di ottenere
provvedimenti che attengono all'indirizzo generale del Governo (e
quindi senza alcun collegamento con la ipotesi dell'art. 40), o invece
altri i quali, per essere suscettibili di incidere in modo diretto sul
settore del lavoro subordinato e sul rapporto che disciplina
quest'ultimo possono giovarsi della tutela costituzionale.
6. - Per quanto poi riguarda la questione di costituzionalità
dell'art. 505, che punisce lo sciopero indetto "soltanto" per
solidarietà con altri lavoratori, la Corte ritiene non fondate le
deduzioni dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui lo sciopero sarebbe
da considerare legittimo solo nel caso che si inserisca in un conflitto
determinato da motivi contrattuali, e conseguentemente quando questi
siano fatti valere in confronto del datore di lavoro con il quale
sussiste il rapporto, dal quale solamente può ottenere soddisfazione
la pretesa posta ad oggetto dello sciopero stesso.
Infatti, non è contestabile la sussistenza di interessi comuni a
intere categorie di lavoratori; interessi che, appunto per questo loro
carattere diffusivo, non potrebbero non risultare compromessi, sia pure
in modo potenziale, per tutti coloro che ne sono titolari, allorché
abbiano subito offesa anche solo in confronto a rapporti di lavoro di
singoli o di gruppi limitati di lavoratori.
Pertanto, la sospensione del lavoro la quale venga effettuata in
appoggio a rivendicazioni di carattere economico cui si rivolge uno
sciopero già in via di svolgimento, ad opera di lavoratori
appartenenti alla stessa categoria dei primi scioperanti, non può non
trovare giustificazione ove sia accertata l'affinità delle esigenze
che motivano l'agitazione degli uni e degli altri, tale da fare
fondatamente ritenere che senza l'associazione di tutti in uno sforzo
comune esse rischiano di rimanere insoddisfatte.
È poi questione di apprezzamento, da rilasciare al giudice di
merito, la verifica della sussistenza dei requisiti menzionati,
dovendosi argomentare nei singoli casi dalla situazione di fatto la
specie ed il grado del collegamento fra gli interessi economici di cui
si invoca la soddisfazione ed, in relazione ad esso, determinare
l'ampiezza da assegnare al complesso categoriale formato dai titolari
degli interessi stessi; ampiezza che, com'è ovvio, potrà risultare
maggiore o minore a seconda della natura delle rivendicazioni avanzate
e delle circostanze di tempo e di luogo in cui sono fatte valere.
7. - Gli aspetti di incostituzionalità che si sono rilevati nei
confronti degli artt. 330, 504 e 505 non possono però condurre ad una
pronuncia che dichiari la loro illegittimità. Ciò perché le norme
consacrate negli articoli stessi, data la genericità delle loro
formulazioni, racchiudono ipotesi di abbandono del lavoro allo scopo di
turbarne la continuità e regolarità, le quali, non rivestendo quei
caratteri che si sono visti essere propri dello sciopero economico, non
sono sufficienti a sottrarre gli scioperanti alle sanzioni penali ivi
previste.
Sicché compete al giudice di merito disapplicare le norme
ricordate in tutti quei casi rispetto ai quali l'accertamento degli
elementi di fatto conduca a far ritenere che lo sciopero costituisca
valido esercizio del diritto garantito dall'art. 40, ed a rendere in
conseguenza possibile l'applicazione dell'esimente di cui al citato
art. 51 del Cod. penale.