Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il 1° dicembre 2021, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».
2.− L’Ufficio centrale ha attribuito al quesito il seguente titolo: «Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi».
3.− Ricevuta comunicazione dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, il Presidente della Corte costituzionale ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 15 febbraio 2022, disponendo che ne fosse data comunicazione ai presentatori della richiesta di referendum e al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33, secondo comma, della legge n. 352 del 1970.
4.– In prossimità della data fissata per la camera di consiglio, i Consigli regionali richiedenti hanno depositato una memoria, nella quale argomentano a sostegno dell’ammissibilità dell’odierno quesito.
4.1.– In particolare, i promotori, dopo aver ricostruito le varie fasi del procedimento dinanzi all’Ufficio centrale per il referendum, si soffermano sul sistema delle limitazioni dell’elettorato passivo, precisando che «la richiesta referendaria […] non ha nulla a che fare con l’ineleggibilità e l’incompatibilità».
La difesa dei Consigli regionali ricostruisce poi la genesi del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), illustrando i principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), e il contenuto delle varie disposizioni del menzionato decreto legislativo.
Quanto alla disciplina dell’incandidabilità, i promotori evidenziano come essa sia «figlia del nostro tempo», «[a] differenza dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, la cui struttura e funzione sono state definite ab immemorabili». In particolare, la sua origine viene ricondotta alla legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali).
Al riguardo, nella memoria viene esaminata la ricostruzione dell’evoluzione legislativa operata da questa Corte nelle diverse occasioni in cui è stata investita di questioni concernenti le norme in materia di incandidabilità. I promotori si soffermano poi sulle «numerose osservazioni critiche» formulate dalla dottrina nei confronti del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto caratterizzato da previsioni ora troppo pervasive ora troppo scarne.
Viene inoltre stigmatizzata la «non uniformità di regime giuridico tra cariche elettive statali, da un lato, e locali, dall’altro». Sebbene questa Corte l’abbia considerata «non discriminatoria» in ragione della «prossimità dei cittadini al tessuto istituzionale locale e [del]la diffusività del fenomeno in tale ambito» (è citata la sentenza n. 276 del 2016), la difesa dei Consigli regionali ritiene questo argomento «di puro fatto e di rilevanza schiettamente sociologica», che, in quanto tale, «può essere in ogni momento rovesciato ed oggetto, comunque, di non poche perplessità».
4.2.– Quanto alla richiesta referendaria, i promotori precisano che «[n]el caso de quo si provvede in negativo […] vale a dire senza procedere ad alcuna manipolazione del testo». Viene, altresì, richiamato quanto affermato in occasione della presentazione del quesito presso il Senato della Repubblica il 23 giugno 2021, quando «si rilevò che [la richiesta referendaria] “intende abolire l’automatismo, lasciando al giudice la decisione, caso per caso, se comminare, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria dell’interdizione d[a]i pubblici uffici e per quanto tempo”». E ancora vengono richiamate alcune considerazioni sul quesito, specie là dove si afferma che esso «manifesta una omogeneità di fondo sotto il profilo effettuale» e che l’intento è «quello di tornare al regime dell’incandidabilità vigente prima del 2012», ancorché sul punto la stessa difesa dei Consigli regionali concluda precisando: «Nessuna reviviscenza, tuttavia».
4.3.– I promotori si soffermano poi su alcune vicende giudiziarie scaturite dall’applicazione del d.lgs. n. 235 del 2012, mettendone in evidenza taluni effetti negativi (soprattutto quanto all’automatismo dell’applicazione della sospensione) e sottolineando come dall’esame della giurisprudenza di questa Corte emerga «l’esistenza di uno spatium deliberandi» del legislatore.
Da ciò la difesa dei Consigli regionali deduce alcuni «[c]orollari», aggiungendo che, se è vero che la ragion d’essere dell’istituto dell’incandidabilità «si può ricondurre, in larga misura, all’art. 97 Cost.» e quindi «al buon governo e alla buona amministrazione», è altrettanto vero che la tutela di questi «[v]alori essenziali» «non può essere assoluta, nel senso che con essa vanno bilanciati altri valori, quando corrono il rischio di essere pretermessi a causa di incongruenze, la cui rilevanza non contraddice la ragione».
Ancora, si precisa che la richiesta referendaria ha ad oggetto il d.lgs. n. 235 del 2012 «nella sua interezza […] perché non è frazionabile il relativo contenuto e perché necessita di una sua integrale riformulazione».
4.4.– Infine, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte sull’ammissibilità del referendum abrogativo e aver ricordato che «[s]ono […] irrilevanti, o comunque non decisive, le eventuali dichiarazioni rese dai promotori» (è citata la sentenza n. 24 del 2011), questi ultimi illustrano una serie di ragioni per le quali la richiesta deve considerarsi ammissibile: il referendum non comporta l’introduzione di una nuova e diversa disciplina ma produce un effetto di mera abrogazione, sicché il quesito non ha alcun tratto propositivo; l’istituto dell’incandidabilità non è previsto in Costituzione e ha struttura e funzioni sue proprie; le norme oggetto del quesito sono estranee alle materie di cui all’art. 75, secondo comma, Cost.; la richiesta ha ad oggetto un testo normativo che possiede una matrice razionalmente unitaria, con la conseguenza che una sua abrogazione parziale creerebbe evidenti disparità di trattamento; il vuoto normativo conseguente all’abrogazione non interferisce con il dettato costituzionale, non trattandosi né di una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, né di una legge costituzionalmente obbligatoria; da ultimo, l’inammissibilità del referendum non può essere fatta discendere dal collegamento tra alcuni atti sovranazionali e la legge n. 190 del 2012, poiché quest’ultima, di cui il decreto è attuazione, «ha un contenuto assai composito ed articolato, e consente una molteplicità di soluzioni attuative».
5.– La Regione autonoma Sardegna ha, altresì, depositato un atto di intervento ad adiuvandum, nel quale, dopo aver ricostruito la giurisprudenza di questa Corte sull’ammissibilità del referendum, chiede che la richiesta sia dichiarata ammissibile.
In particolare, la difesa regionale ritiene che «[l]a proposta abrogativa oggetto del presente giudizio rientr[i] a pieno titolo tra quelle ammissibili poiché mira ad eliminare, in toto, la disciplina delle ipotesi di incandidabilità alle elezioni politiche, amministrative e del Parlamento europeo e i divieti a ricoprire incarichi in enti pubblici, ulteriori rispetto a quelle determinate dall’applicazione del codice penale, per coloro che abbiano riportato condanne definitive per determinati reati e la sospensione dalla carica per i condannati in via definitiva».
La Regione aggiunge che, se la richiesta referendaria dovesse essere dichiarata ammissibile e approvata dal corpo elettorale, «nessun principio costituzionale potrà dirsi travolto o leso e il Governo rimarrà libero, ove lo ritenga opportuno, di adottare una nuova legge delega e/o il Parlamento di legiferare in materia». Infine, il quesito sarebbe chiaro e omogeneo.
Considerato in diritto
1.− Oggetto del presente giudizio è l’ammissibilità della richiesta di referendum popolare dichiarata legittima con ordinanza del 29 novembre 2021 dell’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
La richiesta di referendum, promossa dai Consigli regionali delle Regioni Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte, ha a sua volta ad oggetto l’abrogazione dell’intero testo del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190).
2.− In via preliminare, si deve rilevare che, nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha disposto, come già avvenuto più volte in passato, di consentire ai soggetti presentatori del referendum di illustrare oralmente le memorie depositate ai sensi dell’art. 33, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo). È stato altresì deciso di ammettere gli scritti presentati da soggetti diversi da quelli contemplati dalla disposizione citata e tuttavia interessati alla decisione sull’ammissibilità delle richieste referendarie (nel caso di specie, la Regione autonoma Sardegna), come contributi contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a disposizione della Corte (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015, n. 13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n. 17, n. 16 e n. 15 del 2008).
Tale seconda ammissione, che viene qui confermata, non si traduce in un diritto di questi soggetti di partecipare al procedimento – che, comunque, «deve tenersi, e concludersi, secondo una scansione temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) – e di illustrare le relative tesi in camera di consiglio, ma comporta solo la facoltà della Corte, ove lo ritenga opportuno, di consentire brevi integrazioni orali degli scritti, come è appunto avvenuto nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui al citato art. 33 illustrassero le rispettive posizioni.
3.− Sempre in via preliminare, occorre definire il contesto normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del quesito referendario.
3.1.− Il d.lgs. n. 235 del 2012 è stato adottato nell’esercizio della delega disposta all’art. 1, commi 63, 64 e 65, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione).
Con le disposizioni indicate il legislatore delegante ha inteso affidare al delegato il compito di predisporre un corpus organico della normativa concernente le cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di tutte le cariche elettive e di governo, riunendo in un unico testo la disciplina già vigente e introducendone nello stesso testo una nuova riguardante le cariche per le quali dette cause ostative non erano previste. Al contempo, il legislatore delegante ha voluto escludere dall’operazione di riordino e innovazione la disciplina delle sanzioni penali accessorie, prevedendo che restano ferme «le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua dai pubblici uffici» (art. 1, comma 64, lettera a, legge n. 190 del 2012).
In conformità con queste indicazioni, il legislatore delegato ha affermato espressamente (art. 15, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012) l’indipendenza delle ipotesi di incandidabilità da quelle in cui opera l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. E in effetti, nel decreto delegato, l’unico collegamento fra i due istituti è rinvenibile nella disciplina della durata dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, che l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 commisura al doppio della durata dell’interdizione temporanea comminata.
Il testo unico adottato nell’esercizio della richiamata delega ha dunque un carattere in parte compilativo (in particolare, quanto alla normativa in materia di incandidabilità nelle elezioni regionali e degli enti locali) e in parte innovativo (in particolare, quanto alla previsione di ipotesi di incandidabilità per le elezioni politiche e per quelle del Parlamento europeo, non presenti nella normativa precedente).
Esso si compone così di norme relative: alle ipotesi di incandidabilità alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e a quelle di membro italiano del Parlamento europeo (artt. 1-5); alle cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di incarichi di Governo (art. 6); all’incandidabilità alle elezioni regionali e alle connesse ipotesi di sospensione e di decadenza dalla carica (artt. 7-9); all’incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e alle connesse ipotesi di sospensione e di decadenza dalla carica (artt. 10-12). Infine, gli artt. 13-18 recano «Disposizioni comuni, transitorie e finali», e tra queste rileva la previsione dell’art. 17, che dispone l’abrogazione della preesistente normativa in materia e in particolare degli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e dell’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale).
3.2.− La normativa, in parte riordinata e in parte introdotta ex novo dal d.lgs. n. 235 del 2012, costituisce il punto di arrivo di una lunga evoluzione legislativa che ha preso le mosse già prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ma che ha visto un momento di significativa svolta soltanto nei primi anni Novanta del secolo scorso.
Più precisamente – anche a non voler risalire alla legislazione comunale e provinciale del 1915 – l’art. 7 del decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1 (Ricostituzione delle Amministrazioni comunali su base elettiva), si limitava a prevedere che, al di là degli altri casi di ineleggibilità (non legati a condanne penali), non poteva «essere nominato sindaco: […] chi fu condannato per qualsiasi reato commesso nella qualità di pubblico ufficiale o con abuso d’ufficio ad una pena restrittiva della libertà personale superiore a sei mesi, e chi fu condannato per qualsiasi altro delitto alla pena della reclusione non inferiore ad un anno, salvo la riabilitazione ai termini di legge». La previsione è poi confluita dapprima nell’art. 6 del d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203 (Approvazione del Testo Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali), e successivamente nell’art. 6 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali).
In questo quadro, estremamente circoscritto sia per i soggetti interessati che per la tipologia delle condanne e della pena irrogata, si è inserito l’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), che – come questa Corte ha precisato nelle decisioni in cui è stata chiamata a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale di varie disposizioni del d.lgs. n. 235 del 2012 (sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015 e ordinanza n. 46 del 2020) –, al fine di «tutelare la “trasparenza dell’attività delle regioni e degli enti locali” (così il Titolo del Capo II della legge), […] prevedeva la sospensione degli amministratori regionali, provinciali e comunali che risultassero sottoposti a procedimento penale per il delitto previsto dall’art. 416-bis del codice penale, ovvero a una misura di prevenzione, anche non definitiva, perché indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Alla sospensione seguiva la decadenza in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza o della definitività del provvedimento di applicazione della misura di prevenzione» (sentenza n. 276 del 2016).
Nella convinzione che tale disciplina fosse insufficiente ad arginare il fenomeno delle infiltrazioni di stampo mafioso all’interno degli organi degli enti territoriali il legislatore si è risolto, con la legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), «da un lato, attraverso l’istituto della incandidabilità alle elezioni, a impedire che persone gravemente indiziate di reati di stampo mafioso potessero ricoprire cariche elettive, dall’altro, a estendere l’ambito dei reati ostativi, comprendendo in esso anche quelli legati agli stupefacenti e alle armi, nonché alcuni reati contro la pubblica amministrazione» (sempre sentenza n. 276 del 2016).
Come ricordato nella pronuncia da ultimo citata, «[d]opo modifiche minori introdotte dalla legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative della legge 19 marzo 1990, n. 55, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in materia di elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario), la materia è stata sostanzialmente ridisciplinata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all’articolo 15 della L. 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni). A seguito della sentenza di questa Corte n. 141 del 1996, che dichiarò illegittimo l’art. 15 della legge n. 55 del 1990, là dove prevedeva l’incandidabilità prima della condanna definitiva (in quanto si trattava di una misura irreversibile che, per il suo carattere sproporzionato, assumeva “i caratteri di una sanzione anticipata”), la legge n. 475 del 1999 collegò l’incandidabilità alla condanna definitiva, mentre causa della sospensione dalla carica rimase la condanna non definitiva; la durata della sospensione fu però limitata a diciotto mesi. Le norme fin qui illustrate sono poi confluite negli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali)».
La preoccupazione per il permanere di una situazione di grave e diffusa illegalità nella pubblica amministrazione costituisce, infine, la ragione per la quale la legge delega n. 190 del 2012 ha previsto una serie di nuove misure per prevenire e reprimere tali fenomeni, fra le quali l’estensione dell’incandidabilità e della decadenza ai parlamentari e alle cariche di governo e l’ampliamento dei reati ostativi. Di qui l’adozione del d.lgs. n. 235 del 2012 che – come anticipato – ha riordinato e innovato la materia, dando attuazione alla delega.
3.3.− Su questa normativa si è formata una cospicua giurisprudenza costituzionale che, con riferimento sia alla disciplina introdotta nel 1990 e nel 1992 (sentenze n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295, n. 184 e n. 118 del 1994), sia segnatamente a quella adottata nel 2012 (sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015), ha sottolineato, fra l’altro, come le misure in esse previste non costituissero e non costituiscano sanzioni o effetti penali della condanna, e siano piuttosto da ricollegare al venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alla cariche in questione o per il loro mantenimento.
Questa Corte ha altresì precisato che, «se in origine lo scopo della disciplina era quello “di costituire una sorta di difesa avanzata dello Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali”, avendo come finalità “la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche” (sentenza n. 407 del 1992), successivamente il carattere di diffusa illegalità nella pubblica amministrazione [ha indotto] ad allargare l’ambito soggettivo e oggettivo della disciplina, a tutela degli interessi costituzionali protetti dagli artt. 54, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 276 del 2016, ma nello stesso senso anche sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019 e n. 236 del 2015).
In questo contesto, dunque, legittimamente, «il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva» (sentenza n. 236 del 2015).
Al contempo, spetta a questa Corte – nei casi in cui è investita di una questione di legittimità costituzionale – valutare la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore tra l’esigenza di tutelare gli interessi costituzionalmente protetti dagli artt. 97, secondo comma, e 54, secondo comma, Cost. e quelli sottesi agli artt. 48 e 51 Cost.
4.− L’odierno quesito referendario, investendo l’intero d.lgs. n. 235 del 2012, punta a rimuovere dall’ordinamento l’insieme delle disposizioni contenute nel testo unico, senza che dall’eventuale approvazione del quesito referendario possa desumersi la reviviscenza del quadro normativo preesistente.
La costante giurisprudenza di questa Corte nega la possibilità che l’abrogazione referendaria produca un qualche effetto ripristinatorio della disciplina previgente, abrogata da quella oggetto di referendum (in tal senso, tra le più recenti, sentenze n. 5 del 2015, n. 12 del 2014, n. 13 del 2012, n. 28 e n. 24 del 2011). È appena il caso di segnalare inoltre che, nel caso della richiesta referendaria in esame, l’intento dei promotori non è certo quello di far rivivere il quadro normativo previgente, delineato in particolare dall’art. 15 della legge n. 55 del 1990 e dagli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del 2000, con la conseguenza che una reviviscenza delle disposizioni previgenti, quand’anche non la si volesse ritenere necessariamente esclusa (come ritengono i promotori, affermando espressamente: «Nessuna reviviscenza, tuttavia»), si porrebbe in frontale contrasto con il chiaro intento di espungere dall’ordinamento l’intero corpus normativo in materia di incandidabilità.
5.− Così delineati il contesto normativo di riferimento e l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia, questa Corte è chiamata a giudicare sull’ammissibilità del quesito referendario alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978).
Non solo, dunque, la richiesta referendaria non può investire le leggi indicate nell’art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale deve consentire una scelta libera e consapevole, richiedendosi che esso presenti i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità, nonché una matrice razionalmente unitaria. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che «libertà dei promotori delle richieste di referendum e libertà degli elettori chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse fra loro: in quanto è ben vero che la presentazione delle richieste rappresenta l’avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev’esser garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano» (sentenza n. 16 del 1978).
Ne consegue l’ulteriore affermazione che il referendum abrogativo non può essere «trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978). Non sono ammissibili, in particolare, richieste referendarie che siano «surrettiziamente propositiv[e]» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011, n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
Agli indicati requisiti questa Corte ne ha aggiunti altri, in ragione della specificità dell’oggetto della richiesta referendaria, sempre nella prospettiva della piena realizzazione dei richiamati «valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha affermato che sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, «la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato» (da ultimo, sentenza n. 10 del 2020), e quelle a contenuto costituzionalmente vincolato, «il cui nucleo normativo non [può] venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)» (sentenza n. 16 del 1978).
Alla luce dei menzionati criteri, questa Corte è dunque chiamata a svolgere due ordini di valutazioni: per un verso sul quesito referendario, al fine di verificarne la chiarezza, l’univocità e la matrice razionalmente unitaria, e, per altro verso, sullo specifico testo legislativo in esame allo scopo di accertarne l’idoneità ad essere oggetto di un referendum abrogativo.
6.− Nel caso in esame, il quesito referendario sottoposto al giudizio di ammissibilità è chiaro e univoco nell’obiettivo che intende perseguire, e risulta dotato di una matrice razionalmente unitaria.
L’obiettivo dei Consigli regionali promotori è di rimuovere dall’ordinamento l’intero testo normativo che disciplina l’istituto dell’incandidabilità, e, da questo punto di vista, proprio l’interezza del testo investito dal quesito esclude ogni possibile incertezza sulla portata della sua eventuale abrogazione.
D’altro canto, non può condurre a un diverso esito nemmeno la considerazione che, trattandosi dell’intero corpus normativo costituito dal d.lgs. n. 235 del 2012, il quesito potrebbe presentare un deficit di univocità e di omogeneità, come «può accadere specie quando il quesito raggiunge “interi testi legislativi complessi, o ampie porzioni di essi, comprendenti una pluralità di proposizioni normative eterogenee”» (sentenze n. 26 del 2017 e n. 12 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 6 del 2015).
A questo riguardo va innanzitutto sottolineato che l’art. 75 Cost. espressamente stabilisce che la richiesta referendaria ha ad oggetto «l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge», con ciò di per sé contemplando anche la possibilità che il referendum investa un testo articolato e complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto siano pregiudizialmente motivo di inammissibilità del quesito.
Ciò premesso, conviene ricordare che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il requisito dell’omogeneità viene meno quando oggetto del referendum sono più testi normativi o un unico testo composto da molte parti, che, se pure uniti da un nesso, costituiscono «diversi tasselli», rispetto ai quali il cittadino potrebbe maturare convincimenti diversi (sentenza n. 12 del 2014). Nondimeno, come questa Corte ha chiarito, sussiste comunque il requisito dell’omogeneità ogniqualvolta «dalle norme, considerate nella loro struttura e nella loro finalità, è dato trarre una “matrice razionalmente unitaria”» (sentenza n. 33 del 1997).
Viene in rilievo, a questo proposito, il fatto che «il quesito referendario deve incorporare l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991).
Nel caso di specie, è agevole rinvenire nella natura e nel contenuto del d.lgs. n. 235 del 2012, oggetto del quesito, la «matrice razionalmente unitaria» che giustifica l’unicità della richiesta. Premesso che la qualificazione del d.lgs. n. 235 del 2012 come testo unico non costituisce di per sé elemento idoneo a far ritenere sussistente il requisito – se non altro per l’evidente ragione che l’unicità del testo non esclude che esso raccolga più oggetti – risulta invece decisivo l’esame del contenuto del decreto medesimo, emanato sulla base della chiara ed espressa intentio del legislatore delegante di riunire in un unico testo l’insieme delle disposizioni in materia di incandidabilità (art. 1, comma 63, della legge n. 190 del 2012).
L’individuazione, come oggetto del quesito, dell’intero d.lgs. n. 235 del 2012 e la sua natura di corpus organico della normativa di cui qui si discute consentono di cogliere l’esistenza speculare di una matrice razionalmente unitaria del quesito.
Al contempo, e simmetricamente, anche la finalità dello stesso quesito è sufficientemente chiara e univoca, consistendo nella rimozione dall’ordinamento (mediante abrogazione) di tutte le norme che prevedono cause ostative all’assunzione e allo svolgimento di cariche elettive e di Governo, derivanti da una condanna penale per taluni reati.
Per tutte queste ragioni, infine, si deve altresì escludere che il quesito presenti carattere manipolativo o propositivo. In caso di abrogazione, infatti, verrebbero semplicemente rimosse dall’ordinamento le norme contenute nel d.lgs. n. 235 del 2012, senza che siano ipotizzabili effetti estensivi di altre discipline.
7.− Quanto all’idoneità dello specifico testo legislativo di cui qui si discute a essere oggetto di un referendum abrogativo, occorre precisare che la richiesta in esame non rientra in alcuna delle ipotesi per le quali l’indicazione testuale del secondo comma dell’art. 75 Cost. non consente il ricorso all’istituto referendario.
Si deve escludere, in particolare, che siano desumibili da fonti internazionali – e in particolare, dalle convenzioni internazionali richiamate nell’art. 1 della legge n. 190 del 2012 – obblighi per i singoli Stati di disciplinare la materia dei requisiti di moralità per ricoprire cariche elettive e di governo nei termini puntuali previsti nella normativa oggetto del quesito referendario.
Nessun vincolo specifico in tale senso si rinviene, infatti, né nella Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110, né nella Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116.
Sotto un diverso profilo, non spetta a questa Corte sindacare, nell’odierno giudizio, la legittimità costituzionale, né delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 235 del 2012 – già fatte oggetto, del resto, di numerose questioni decise nel senso della non fondatezza o dell’inammissibilità con le pronunce sopra richiamate – né della normativa che residuerebbe all’esito dell’eventuale abrogazione referendaria.
7.1.− Occorre soffermarsi da ultimo sul profilo del carattere in ipotesi «a contenuto costituzionalmente vincolato» della normativa in esame, al fine di stabilire se essa contenga disposizioni «il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)» (sentenza n. 16 del 1978).
Questa Corte ha precisato che alla categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato «possono essere ricondotte due distinte ipotesi: innanzitutto, le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum, priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”» (sentenza n. 27 del 1987), sicché la relativa normativa costituisce «il nucleo costituzionale irrinunciabile, un nucleo che [nondimeno] lascia largo spazio alla discrezionalità legislativa» (sentenza n. 42 del 2000).
7.2.− Stando ai termini della giurisprudenza costituzionale così ricostruita, si deve concludere che la normativa sull’incandidabilità non può essere qualificata, né come legge a contenuto costituzionalmente vincolato, né come legge costituzionalmente necessaria, e ciò, beninteso, ancorché la più volte citata giurisprudenza costituzionale contenga numerose indicazioni sulla sua riconducibilità ai principi di cui agli artt. 54 e 97 Cost. Tale riconosciuto fondamento non comporta, invero, né che il contenuto della normativa in esame sia costituzionalmente vincolato, né, d’altro canto, che, per obbligo costituzionale, debba necessariamente sussistere una disciplina dell’incandidabilità.
Quanto al primo profilo, si deve osservare che la specifica disciplina contenuta nel d.lgs. n. 235 del 2012, anche se, come detto, attua specifici valori costituzionali, di tali valori non concretizza una soluzione vincolata nel suo contenuto. Che la scelta operata con essa dal legislatore non costituisca l’unica modalità di possibile tutela di quei valori è anzi radicalmente escluso dal carattere ampiamente discrezionale delle scelte legislative che si esprimono in materia, scelte che, come questa Corte ha ripetutamente affermato, possono essere variamente modulate.
Quanto al secondo – ossia la riconducibilità del decreto in parola alle leggi costituzionalmente necessarie – non vi è dubbio che la normativa del d.lgs. 235 del 2012 è finalizzata a realizzare «interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”» (sentenza n. 236 del 2015; negli stessi termini, sentenze n. 276 del 2016, n. 36 del 2019 e n. 35 del 2021).
Ciò nondimeno, tali principi convivono nella Costituzione con altri, di pari rango, quali quelli enunciati agli artt. 48 e 51 Cost., e in particolare con il «principio della rappresentatività democratica» (sentenza n. 141 del 1996) e con essi anche i primi devono essere contemperati.
Proprio alla luce delle considerazioni che precedono si può escludere la natura di legge costituzionalmente necessaria del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto la disciplina da esso recata, diretta, com’è, alla garanzia dei richiamati interessi sottesi agli artt. 97, secondo comma, e 54, secondo comma, Cost., a fronte dei contrapposti interessi sottesi al principio di rappresentatività democratica, non identifica quel contenuto di tutela minima che in altre occasioni (si vedano le sentenze n. 35 del 1997 e 45 del 2005) ha portato questa Corte a escludere l’ammissibilità del referendum su complessi normativi che, fondandosi su un equilibrato bilanciamento tra i contrapposti interessi, tale tutela minima erano volti ad apprestare.
Da ultimo, è il caso di ribadire che l’eventuale abrogazione referendaria del d.lgs. n. 235 del 2012 non inciderebbe comunque sulla disciplina delle sanzioni penali accessorie e quindi sulle disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
8.− In definitiva, non ostandovi alcuna ragione di ordine costituzionale, la richiesta di referendum deve essere dichiarata ammissibile.