Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 13 maggio 2021, iscritta al n. 169 del registro ordinanze del 2021, il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, del codice di procedura penale «nella parte in cui prevedono il diritto ad un termine a difesa soltanto a seguito dell’apertura del dibattimento, invece di prevedere la possibilità di accedere ai riti alternativi anche all’esito del termine a difesa eventualmente richiesto», in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
1.1.– Il rimettente riferisce di doversi pronunciare, nel procedimento a carico di G. P. per il reato di cui all’art. 497-bis del codice penale, sulla richiesta di applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., formulata dal difensore dell’imputato all’udienza fissata per la prosecuzione del giudizio direttissimo a seguito della concessione del termine a difesa in esito alla precedente udienza di convalida dell’arresto.
2.– Secondo l’ordinanza di rimessione, le disposizioni censurate sarebbero costituzionalmente illegittime, per contrasto con i riferiti parametri, nella parte in cui prevedrebbero che, nel giudizio direttissimo, il termine a difesa venga concesso all’imputato solo a seguito dell’apertura del dibattimento, con la conseguente preclusione per la richiesta di riti alternativi nella prima udienza successiva al suddetto termine.
2.1.– In punto di rilevanza, l’ordinanza di rimessione ritiene che tali disposizioni potrebbero essere «in astratto» interpretate in modo conforme ai principi costituzionali in materia di diritto di difesa, sulla scorta di quanto affermato da questa Corte nell’ordinanza n. 254 del 1993 in relazione al rito allora vigente di fronte al pretore, nella sostanza coincidente con quello oggi disciplinato per i procedimenti dinnanzi al tribunale in composizione monocratica.
Secondo la pronuncia richiamata, infatti, la richiesta di un termine a difesa, comportando «la sospensione del dibattimento – non ancora aperto – fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine», non impedirebbe al giudicabile «di formulare la richiesta di applicazione della pena, potendo questa essere avanzata, anche nell’ipotesi in questione […] fino al normale termine previsto dall’art. 446 cod. proc. pen., e cioè fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento».
Tuttavia, tale orientamento, ad avviso del rimettente, è stato fatto proprio solo da un numero limitato di pronunce della Corte di cassazione (sono richiamate le sentenze della sezione sesta penale del 23 ottobre 2008, n. 42696, e del 19 gennaio 2010, n. 13118), la quale, nell’«orientamento prevalente e infine consolidatosi», ha invece interpretato le disposizioni oggetto di esame nel senso che l’avvenuta concessione del termine a difesa, presupponendo che abbia già avuto luogo l’apertura del dibattimento, preclude la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena su richiesta (sono richiamate, tra le altre, le sentenze della sezione prima penale del 5 maggio 2008, n. 17796, della sezione quinta penale del 18 febbraio 2010, n. 12778, della sezione prima penale del 5 giugno 2018, n. 25153, della sezione quinta penale del 27 dicembre 2019, n. 52042).
A fronte, pertanto, di una giurisprudenza di legittimità asseritamente assurta al rango di diritto vivente e orientata in tal senso, il rimettente ritiene di dover fare applicazione delle disposizioni censurate e, per l’effetto, rigettare la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., in quanto tardiva, e procedere con il dibattimento, «risultando questo implicitamente già aperto a seguito della concessione del termine a difesa».
3.– Il Tribunale rimettente ritiene, tuttavia, non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen.
3.1.– Il mancato riconoscimento all’imputato della possibilità di formulare richiesta di accesso a un rito alternativo dopo che questi abbia ottenuto il termine a difesa lederebbe, innanzi tutto, l’art. 24 Cost.
Il fatto che l’accesso ai riti alternativi comporti «modalità più limitate di esercizio del diritto di difesa» non escluderebbe, invero, la necessità che l’imputato sia messo in condizione di ponderare adeguatamente le conseguenze di una simile strategia processuale. Esigenza, questa, che sarebbe frustrata ove l’imputato venisse posto di fronte all’«alternativa secca» tra i due strumenti e, pertanto, gli si imponesse – tanto più in esito al giudizio di convalida dell’arresto – di formulare tale richiesta «seduta stante» e non, invece, allo spirare del termine a difesa eventualmente richiesto, «la cui funzione deve poter essere anche quella di valutare in un periodo di tempo adeguato l’opzione per i riti alternativi».
3.2.– Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con l’art. 3 Cost., a causa della irragionevole disparità di trattamento che ne deriverebbe, per l’imputato condotto in udienza per rispondere del reato con rito direttissimo, rispetto a chi sia giudicato sulla base di altro rito.
In tali evenienze – come, ad esempio, nel rito ordinario a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, nella citazione diretta a giudizio, nel giudizio immediato e nel procedimento per decreto – all’imputato viene sempre riconosciuto un termine più o meno lungo per la preparazione della difesa e, quindi, anche per «valutare l’eventuale scelta di procedere con un rito alternativo». Né sarebbe di ostacolo alla speditezza che contrassegna il giudizio direttissimo l’assegnazione di un termine per preparare la difesa in vista dell’eventuale richiesta di accesso ai riti speciali, poiché, in ogni caso, si tratterebbe di un termine di pochi giorni.
La rilevata disparità di trattamento, inoltre, emergerebbe anche con riguardo all’imputato che si sia visto modificare l’imputazione o contestare nuovi reati e nuove circostanze da parte del pubblico ministero nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Peraltro, rileva l’ordinanza di rimessione, ove l’imputato sia assente, la contestazione deve essere inserita nel verbale di dibattimento, che deve essere notificato per estratto all’imputato, «con il rispetto di un termine almeno pari a quello previsto dall’art. 429 c.p.p.». In casi del genere, proprio la giurisprudenza di questa Corte avrebbe dichiarato costituzionalmente illegittime le preclusioni poste alla facoltà di accedere ai riti speciali (è richiamata la sentenza n. 82 del 2019).
A fronte di ciò, sarebbe quindi irragionevole la disciplina approntata, per il rito direttissimo, dalle disposizioni oggetto di scrutinio, nella misura in cui non consentono che il termine a difesa richiesto e ottenuto dall’imputato all’esito della convalida «sia funzionale anche all’eventuale scelta dei riti alternativi».
3.3.– Sarebbe violato, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU e 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Con riguardo al primo, in particolare, il rimettente ricorda che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in più occasioni, affermato che l’equità del processo non dipende solamente dalla tempestiva informazione dell’imputato circa le contestazioni mosse a suo carico, ma anche dalla garanzia di tempo e mezzi necessari per preparare adeguatamente le sue difese (sono richiamate le sentenze 21 dicembre 2006, Borisova contro Bulgaria e 12 febbraio 2019, Muchnik e Mordovin contro Russia). In tale giurisprudenza, inoltre, il tempo e i mezzi in questione andrebbero commisurati ad aspetti quali, tra gli altri, la gravità e la complessità delle accuse e la condizione di detenzione o, al contrario, di libertà dell’accusato. Elementi, questi ultimi, che, ad avviso del rimettente, assumerebbero un particolare rilievo nel rito direttissimo, nel quale le accuse sono sempre di gravità tale da giustificare l’arresto dell’accusato e la richiesta, da parte del pubblico ministero, di una misura cautelare coercitiva.
Nella medesima direzione deporrebbe, da ultimo, il richiamo all’art. 14, comma 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate.
4.1.– Ad avviso dell’Avvocatura, le questioni sarebbero irrilevanti perché, nel caso di specie, non sarebbe possibile ritenere preclusa la richiesta di applicazione della pena avanzata dall’imputato e su cui il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi.
Contrariamente a quanto stabilisce il diritto vivente, ritenuto dal rimettente lesivo dei richiamati parametri costituzionali, secondo il quale vi sarebbe una rigida scansione logico-temporale tra la facoltà per l’imputato nel giudizio direttissimo di richiedere i riti speciali e la richiesta del termine a difesa, dall’ordinanza di rimessione emerge che il giudice a quo, in esito al giudizio di convalida, avrebbe provveduto contestualmente ad entrambi gli adempimenti.
Solamente nella successiva udienza egli sarebbe tornato sui propri passi, ritenendo di dover fare applicazione dell’orientamento più restrittivo, denunciandone la contrarietà ai richiamati parametri costituzionali. Secondo l’Avvocatura, tuttavia, il pregresso avviso «cumulativo» impedirebbe di ritenere che alla scelta, effettuata dall’imputato, per il termine a difesa possa ricondursi il «significato processualmente tipico» di rinuncia all’accesso ai riti speciali, che, in base all’interpretazione contestata dal rimettente, «si riconnette indissolubilmente alla preliminare prospettazione dell’alternativa (“secca”) tra riti alternativi e giudizio direttissimo, solo all’esito del cui scioglimento il Giudice è tenuto ad impartire all’imputato l’ulteriore avviso circa la facoltà di fruire di un termine a difesa».
Non essendosi pertanto realizzata la fattispecie procedimentale prefigurata dall’orientamento giurisprudenziale che l’ordinanza di rimessione ritiene contrario a Costituzione, quest’ultima avrebbe dato seguito all’interpretazione delle disposizioni censurate fatta propria dall’ordinanza di questa Corte n. 254 del 1993, con l’effetto di rendere prive di rilevanza le questioni in esame.
4.2.– Nel merito, le questioni sarebbero comunque non fondate perché non vi sarebbe alcuna norma che impedisce al giudice di accordare all’interessato un eventuale spatium deliberandi prima dell’apertura del dibattimento.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 13 maggio 2021, iscritta al n. 169 del registro ordinanze del 2021, il Tribunale di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen. «nella parte in cui prevedono il diritto ad un termine a difesa soltanto a seguito dell’apertura del dibattimento, invece di prevedere la possibilità di accedere ai riti alternativi anche all’esito del termine a difesa eventualmente richiesto», in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU e all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
1.1.– Il rimettente riferisce di doversi pronunciare sulla richiesta di applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., avanzata dall’imputato dopo che questi, in esito all’udienza di convalida, aveva ottenuto il termine a difesa di cui all’art. 558, comma 7, cod. proc. pen., previsto nel giudizio direttissimo che si svolge dinnanzi al tribunale in composizione monocratica.
A impedire l’accoglimento della richiesta si porrebbe, tuttavia, la lettura che, dell’art. 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen., nonché dell’art. 451, commi 5 e 6, cod. proc. pen. (relativo al giudizio direttissimo che si svolge dinnanzi al tribunale in composizione collegiale), ha dato la «consolidata giurisprudenza di legittimità» della Corte di cassazione, «assur[ta] al rango di diritto vivente», secondo cui la concessione del termine a difesa (previsto dalle disposizioni censurate senza apprezzabili differenze tra i due riti) comporterebbe l’apertura del dibattimento, con conseguente preclusione della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta.
L’atto introduttivo del giudizio rileva che, secondo l’ordinanza n. 254 del 1993 di questa Corte e alcune successive pronunce della Corte di cassazione (sono richiamate le sentenze della sezione sesta penale 23 ottobre 2008, n. 42696, e 19 gennaio 2010, n. 13118), il termine a difesa, non determinando l’apertura del dibattimento, sarebbe rivolto anche a consentire all’imputato nel giudizio direttissimo la scelta di accedere o meno ai predetti riti alternativi. Tuttavia, nell’«orientamento prevalente e infine consolidatosi della Corte di Cassazione», si è invece affermata una interpretazione diversa e più restrittiva delle disposizioni censurate, secondo la quale il termine a difesa sarebbe strumentale unicamente alla preparazione della difesa nel dibattimento per il rito ordinario, sicché la sua concessione renderebbe ipso facto tardiva la richiesta di accesso ai riti alternativi.
Pur ritenendo, pertanto, «astrattamente possibile» un’interpretazione delle censurate disposizioni in senso conforme alla Costituzione, l’ordinanza di rimessione afferma che questa si «scontr[erebbe] con la consolidata giurisprudenza di legittimità», il che consentirebbe di ritenere validamente radicato il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 95 del 2020).
1.2.– Nel merito, le disposizioni censurate si porrebbero, innanzi tutto, in contrasto con l’art. 24 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, infatti, affermare che l’imputato, nel giudizio direttissimo, non possa fruire del termine a difesa per operare una scelta sul rito implicherebbe una compromissione delle sue garanzie difensive, tanto più grave perché priverebbe colui che è a giudizio della possibilità di ponderare adeguatamente le conseguenze di quella che questa Corte, proprio con riguardo alla richiesta di riti speciali, ha qualificato come «una modalità di esercizio, e tra le più qualificanti, del diritto di difesa» (sentenza n. 82 del 2019). Tale compromissione, peraltro, si avrebbe in un giudizio, quello direttissimo, che è contrassegnato da una notevole compressione dei tempi processuali, soprattutto nel caso in cui (come nel giudizio a quo) esso consegue senza apprezzabili soluzioni di continuità al giudizio di convalida dell’arresto in flagranza.
Sarebbe leso, inoltre, l’art. 3 Cost., a causa della irragionevole disparità di trattamento che subirebbe l’imputato nel giudizio direttissimo rispetto al soggetto che venga processato con altro rito (vengono richiamate le ipotesi della richiesta di rinvio a giudizio nel rito ordinario, della citazione diretta a giudizio, del giudizio immediato e del procedimento per decreto), cui l’ordinamento riconosce un termine per preparare la difesa e per valutare anche l’eventuale scelta di procedere con rito alternativo. Altrettanto irragionevole, e parimenti lesiva dell’art. 3 Cost., sarebbe poi la disparità di trattamento rispetto all’imputato che si veda modificare l’imputazione o contestare nuovi reati o nuove circostanze, da parte del pubblico ministero, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, cui la giurisprudenza di questa Corte (è ancora richiamata la sentenza n. 82 del 2019) ha riconosciuto, attraverso la caducazione delle relative preclusioni, la facoltà di accedere ai riti alternativi.
Da ultimo, il rimettente lamenta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU, perché la preclusione ricavata dalle disposizioni censurate violerebbe il principio, più volte ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sono richiamate le sentenze 21 dicembre 2006, Borisova contro Bulgaria, e 12 febbraio 2019, Muchnik e Mordovin contro Russia), secondo cui al soggetto accusato devono essere garantiti il tempo e i mezzi necessari per preparare adeguatamente le proprie difese. Nei medesimi termini, il contrasto è riferito anche all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito il difetto di rilevanza delle questioni, perché il rimettente, sia pure per effetto di una condotta processuale ritenuta «decettiva», avrebbe in realtà fatto applicazione delle norme censurate in senso conforme a Costituzione. Il giudice a quo, ad avviso dell’Avvocatura, ha censurato, infatti, l’orientamento interpretativo maggioritario, il cui assunto fondamentale (compendiato nella sentenza della Corte di cassazione, sezione quinta penale, 27 dicembre 2019, n. 52042) consiste nel dovere del giudice di far precedere l’avviso sui riti alternativi a quello sul termine a difesa.
Dall’ordinanza introduttiva, tuttavia, emerge che i due avvisi sarebbero stati formulati in modo contestuale, con la conseguenza che, una volta intrapresa una via diversa da quella fatta propria dall’orientamento maggioritario della Corte di cassazione, egli non avrebbe dovuto attribuire alla concessione del termine a difesa l’effetto di rendere tardiva la richiesta di riti alternativi nell’udienza successiva alla concessione di detto termine.
2.1.– L’eccezione non è fondata.
Con essa, l’Avvocatura imputa al rimettente un atteggiamento contraddittorio, rilevante in questa sede unicamente in quanto mostrerebbe che questi ha omesso di dare seguito all’interpretazione conforme a Costituzione derivante dalla formulazione contestuale dei due avvisi, e consistente nella possibilità di chiedere i riti alternativi alla prima udienza successiva allo spirare del termine a difesa.
In realtà, sebbene l’anteriorità dell’avviso relativo alla facoltà di avvalersi di uno dei due riti alternativi costituisca un presupposto da cui muove l’ordinanza di rimessione per contestare l’orientamento della Corte di cassazione ritenuto consolidato, l’oggetto delle odierne questioni è un altro, e si identifica propriamente nell’efficacia preclusiva che la concessione del termine a difesa avrebbe rispetto alla richiesta di riti alternativi.
Non influisce, quindi, sull’ammissibilità delle odierne questioni il fatto che il rimettente abbia formulato i due avvisi contestualmente, poiché egli – prima e indipendentemente da ciò – ha ritenuto che la presenza di un diritto vivente non gli consenta di accogliere la richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti quando il termine a difesa è stato concesso, poiché, per effetto di ciò, si sarebbe avuta l’apertura del dibattimento. A deporre, del resto, nel senso che le questioni non si esauriscono nella sola anteposizione di un avviso all’altro vi è il fatto che la precedenza di carattere logico che la richiamata giurisprudenza di legittimità ricava dalla successione dei commi 5 (avviso sui riti alternativi) e 6 (termine a difesa) dell’art. 451 cod. proc. pen., e su cui l’Avvocatura incentra l’eccezione di inammissibilità, non trova riscontro nelle omologhe previsioni di cui all’art. 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen., dove il relativo ordine è invertito.
Non è quindi censurabile in limine litis la condotta del rimettente, poiché egli, con motivazione non incongrua, ritiene esistente un orientamento giurisprudenziale maggioritario che fa propria un’interpretazione delle disposizioni censurate contraria a quella che egli ritiene conforme a Costituzione e che assume costituire diritto vivente. In base al costante orientamento di questa Corte, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo ha la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenze n. 20 del 2022, n. 180 e n. 1 del 2021, n. 95, n. 32 e n. 12 del 2020, n. 189, n. 141 del 2019, n. 75 del 2019 e n. 39 del 2018).
Le questioni devono pertanto ritenersi ammissibili.
3.– All’esame nel merito della questione relativa alla violazione dell’art. 24 Cost., affrontata dall’ordinanza di rimessione in via prioritaria, giova premettere una ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale nella quale si collocano le disposizioni censurate.
3.1.– Gli avvisi disciplinati da queste ultime costituiscono imprescindibili adempimenti cui il giudice (sia esso collegiale o monocratico) è chiamato a dar seguito, nel giudizio direttissimo, in vista dell’esercizio di essenziali prerogative difensive dell’imputato.
In particolare, secondo l’art. 451, comma 5, cod. proc. pen., «[i]l presidente avvisa l’imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena a norma dell’articolo 444»; in termini sostanzialmente coincidenti, con riferimento al giudizio che si svolge davanti al giudice monocratico, statuisce l’art. 558, comma 8, cod. proc. pen.
L’art. 451, comma 6, cod. proc. pen., stabilisce poi che «[l]’imputato è altresì avvisato della facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa non superiore a dieci giorni. Quando l’imputato si avvale di tale facoltà, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine». L’art. 558, comma 7, cod. proc. pen. dispone, con una formulazione per il resto coincidente, che il termine per preparare la difesa nel rito che si svolge di fronte al giudice monocratico non può essere superiore a cinque giorni.
Entrambi tali avvisi si collocano in una fase caratterizzata da una marcata contrazione dei tempi processuali, sia che essa consegua immediatamente alla convalida dell’arresto (art. 449, comma 1, cod. proc. pen.), sia che essa venga attivata negli altri casi previsti dal codice di rito (art. 449, commi 4 e 5, cod. proc. pen.). Proprio tale contrazione, del resto coessenziale ad un rito contrassegnato da esigenze di celerità e speditezza, rende non sempre agevole distinguere nettamente la fase preliminare al dibattimento da quella propriamente dibattimentale, tanto più nell’ipotesi in cui – come nel giudizio a quo e nella maggior parte dei casi – il giudizio direttissimo sia immediatamente conseguente al giudizio di convalida dell’arresto.
Pur a fronte di tali difficoltà, ripetutamente evidenziate dalla dottrina, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha costantemente sottolineato la natura inderogabile degli avvisi in parola. Con riguardo, in particolare, al termine a difesa, è stato ribadito che, se richiesto, esso «deve essere concesso dal giudice che deve pertanto disporre il rinvio del processo ad altra udienza, altrimenti incorrendo in un’ipotesi di nullità, generale e a regime intermedio, riguardando la stessa non l’assenza del difensore in giudizio ma l’assistenza nel medesimo dell’imputato» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 16 marzo 2022, n. 8951).
Incontestata, pertanto, la natura essenziale del termine a difesa rispetto all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, oggetto dell’odierna questione è se di esso ci si debba avvalere – secondo l’orientamento fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza di legittimità – unicamente per la prosecuzione della fase dibattimentale del giudizio direttissimo, ovvero se esso debba essere concesso anche in vista delle scelte che l’imputato ha la facoltà di compiere sull’accesso ai riti alternativi, come auspicato dal rimettente.
Peraltro, non impropriamente il rimettente ha investito con le sue censure le richiamate disposizioni, applicabili ai due riti che si svolgono di fronte al giudice collegiale e a quello monocratico. Attesa la sostanziale identità di disciplina, non può infatti dubitarsi che tali disposizioni, implicandosi reciprocamente, enuncino una medesima norma, e che sia quindi quest’ultima a costituire propriamente l’oggetto dello scrutinio di questa Corte.
3.2.– Di una questione sostanzialmente coincidente con quella in esame questa Corte si è già occupata nell’ordinanza n. 254 del 1993.
In quell’occasione, essa era chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell’abrogato art. 566, ottavo comma, cod. proc. pen. «nella parte in cui dispone che la formulazione della richiesta di applicazione della pena sia fatta subito dopo l’udienza di convalida e non, invece, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento», alla luce dell’orientamento giurisprudenziale «generalmente accolt[o]» secondo il quale l’imputato, dopo la convalida dell’arresto, «deve subito scegliere tra due facoltà: la formulazione della richiesta di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena, oppure la richiesta di un termine per preparare la difesa. Mentre l’esercizio della prima facoltà non preclude [giova precisare, secondo la disciplina ratione temporis applicabile], in caso di dissenso del pubblico ministero, l’esercizio della seconda, la richiesta del “termine a difesa” precluderebbe, invece, definitivamente, la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena allorché ha inizio il dibattimento “all’udienza preliminare successiva alla scadenza del termine” concesso».
La questione è stata dichiarata manifestamente infondata sul rilievo che l’informazione sul termine a difesa si colloca in una fase anteriore al dibattimento, sicché, ove questo venga concesso, «il dibattimento, non ancora aperto, è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine (art. 451, sesto comma)». Inoltre, questa Corte ha affermato che la disposizione censurata (sostanzialmente coincidente con quelle oggi scrutinate) non si poneva in contrasto con la regola per cui i riti speciali (e, in quel caso, l’applicazione della pena su richiesta delle parti) dovessero essere richiesti dall’imputato fino all’apertura del dibattimento, perché le due richieste (di termine a difesa e di accesso ai riti speciali) «vengono semplicemente riconosciute come facoltà che il giudicabile “può” (e non “deve”) formulare subito dopo l’udienza di convalida, e cioè a partire da quel momento processuale, sicché la richiesta di applicazione della pena può ben intervenire fino al normale termine previsto nel citato art. 446, primo comma, del codice di procedura penale».
3.3.– Dopo tale pronuncia, solo una parte della giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di ritenere che la concessione del termine a difesa non precluda, sino alla formale apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di riti speciali (Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 6 luglio 2017, n. 32867, sezione quinta penale, sentenza 17 luglio 2012, n. 28922, sezione sesta penale, sentenza 13 gennaio 2012, n. 934, sezione settima penale, ordinanza 24 aprile 2010, n. 15998, sezione sesta penale, sentenze 8 aprile 2010, n. 13118, e 14 novembre 2008, n. 42696).
È prevalso nettamente, invece, l’orientamento giurisprudenziale incline a configurare il rapporto tra i due avvisi in termini di netta alternatività. Questa è stata fatta derivare tanto da ragioni legate al tenore letterale delle disposizioni in esame, quanto da considerazioni connesse alle diverse rationes dei due avvisi nel quadro delle fasi che si svolgono nel giudizio direttissimo.
Dal primo punto di vista, si è sottolineato come la concessione del termine a difesa, per il fatto di determinare la sospensione del dibattimento (artt. 451, comma 6, e 558, comma 7, cod. proc. pen.), implica che questo si sia già aperto al momento della formulazione del relativo avviso, con la conseguenza che, alla successiva udienza, la richiesta di riti alternativi sarebbe tardiva (sulla base di quanto previsto dagli artt. 446, comma 1, e 452, comma 2, cod. proc. pen.).
Dal secondo punto di vista, si è ritenuto che «la ratio della previsione del giudizio direttissimo in caso di arresto in flagranza di reato è quella della immediatezza e contestualità del giudizio rispetto alla convalida dell’arresto, di talché le opzioni sul rito non possono che essere immediate e contestuali in quanto propedeutiche alla celere celebrazione del processo» (Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 10 marzo 2021, n. 9567). Ancor più chiaramente, sintetizzando i termini della costante giurisprudenza sul punto, si è affermato che «l’avvenuta concessione del termine a difesa […], presupponendo che abbia già avuto luogo l’apertura del dibattimento, preclude la richiesta di giudizio abbreviato», senza che ciò si traduca in alcun vulnus al diritto di difesa, «attesa la evidente differenza tra l’ipotesi in cui l’arrestato abbia scelto di non difendersi (concordando la pena) o di farsi giudicare “allo stato degli atti”, mostrando in tal modo di rinunciare ad un diritto di difesa pieno, ed in particolare al diritto di chiedere ed ottenere nuove prove al fine di ottenere una riduzione di pena, e l’ipotesi in cui l’imputato abbia preferito conservare un pieno e illimitato diritto di difesa» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, 27 dicembre 2019, n. 52042; in senso conforme, pur con varietà di accenti, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 1° aprile 2019, n. 14129, sezione prima penale, sentenza 5 giugno 2018, n. 25153, sezione terza penale, sentenza 15 febbraio 2017, n. 7159, sezione settima penale, ordinanza 13 settembre 2012, n. 35113, sezione seconda penale, sentenza 11 novembre 2011, n. 41014, sezione quinta penale, sentenza 1° aprile 2010, n. 12778, sezione prima penale, sentenza 5 maggio 2008, n. 17796, sezione quinta penale, sentenza 30 dicembre 2002, n. 43713, sezione prima penale, sentenza 20 luglio 2001, n. 29446, sezione quarta penale, sentenza 18 maggio 2001, n. 20189).
3.4.– Muovendo dal progressivo consolidamento di un indirizzo giurisprudenziale contrastante con quanto espresso da questa Corte nell’ordinanza n. 254 del 1993, e nel presupposto che esso impedisca un’interpretazione delle disposizioni censurate in continuità con tale precedente, il rimettente sollecita dunque questa Corte a vagliare la legittimità costituzionale delle disposizioni censurate per come interpretate dalla giurisprudenza prevalente.
4.– Tanto premesso, la questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. è fondata, nei termini di seguito precisati.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la possibilità di accedere a uno dei riti alternativi previsti dal legislatore costituisce «una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa» dell’imputato (sentenze n. 174 del 2022, n. 192 del 2020, nonché sentenze n. 19 e n. 14 del 2020, n. 131 del 2019, n. 141 del 2018). Muovendo dai medesimi presupposti, è stata ulteriormente specificata la consistenza delle prerogative difensive, con riferimento alla scelta di valersi del giudizio abbreviato – ma con considerazioni in questo caso estensibili anche all’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 cod. proc. pen. –, affermando che «“condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”: e ciò particolarmente in rapporto alla “scelta di valersi del giudizio abbreviato”, la quale “è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali”» (sentenza n. 273 del 2014, con riferimento alla sentenza n. 237 del 2012).
Più di recente, e in termini ancora più ampi, è stato ulteriormente evidenziato che «[l]a scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall’imputato – assistito dal proprio difensore – con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero» (sentenza n. 146 del 2022).
4.1.– Nel caso del giudizio direttissimo, la scelta dell’imputato di accedere a uno dei riti speciali previsti dalle richiamate disposizioni del codice di rito deve raccordarsi con la disciplina particolarmente serrata dei tempi di instaurazione del giudizio, senza che ciò possa comportare il sacrificio delle essenziali esigenze difensive dell’imputato sull’altare della speditezza dei tempi processuali.
Non può dunque ritenersi che la scelta del rito debba necessariamente avvenire seduta stante e incognita causa, senza cioè un’adeguata ponderazione delle implicazioni che derivano da tale strategia processuale. Proprio al fine della salvaguardia di un imprescindibile spatium deliberandi, il giudice, ove l’imputato ne faccia richiesta, è quindi tenuto a concedere il termine non solo in vista dell’approntamento della migliore difesa nella prosecuzione della fase dibattimentale, ma anche in funzione dell’esercizio consapevole della scelta sull’accesso al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen.
4.2.– La necessità di una piena garanzia del diritto di difesa, che si traduce nel carattere effettivo della scelta sui riti alternativi per come assicurato dal riconoscimento di condizioni, materiali e temporali, che consentano all’imputato un’adeguata ponderazione della propria strategia processuale, vale a maggior ragione in un rito, quello direttissimo, segnato, come detto, da un rapido avvicendamento delle fasi processuali.
Nella sentenza n. 113 del 2020, questa Corte, sia pur con riferimento a una disciplina diversa da quella oggi in esame, perché riguardante l’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), censurato nella parte in cui prevedeva che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio fosse pari a 24 ore, ha rilevato il carattere «[i]ngiustificatamente pregiudizievole rispetto all’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. [di] un termine così breve» affinché l’interessato potesse articolare le proprie difese. E ciò, ha aggiunto la Corte, «anche in relazione alla oggettiva difficoltà, per il detenuto, di ottenere in un così breve lasso di tempo l’assistenza tecnica di un difensore, che pure è – in via generale – parte integrante del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento».
Tale principio merita di essere qui richiamato, tenuto conto che la compressione del diritto di difesa dell’imputato nel giudizio direttissimo è, secondo l’interpretazione delle disposizioni censurate offerta dalla giurisprudenza prevalente, anche maggiore rispetto al caso deciso dalla sentenza n. 113 del 2020.
Basta considerare, al riguardo, come il rapido susseguirsi delle fasi processuali del giudizio di convalida dell’arresto e dell’instaurazione del giudizio direttissimo, seppure consente di «pervenire con immediatezza all’accertamento di responsabilità penale dell’imputato» (sentenza n. 41 del 2022), può risolversi, talvolta, anche in uno spazio di poche ore, il che rende non infrequente che l’imputato non sia assistito dal difensore di fiducia, e che si trovi, inoltre, a dover compiere la scelta sul rito senza disporre di alcun apprezzabile lasso di tempo, quando non in modo addirittura istantaneo.
5.– Alla luce di tali ragioni, si rende quindi necessario che questa Corte, riaffermando quanto contenuto nell’ordinanza n. 254 del 1993 e preso atto dell’incompatibilità con l’art. 24 Cost. dell’interpretazione delle disposizioni censurate fatta propria dalla «consolidata giurisprudenza di legittimità» (sentenza n. 68 del 2021), dichiari l’illegittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen. in quanto interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
5.1.– Restano assorbite le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU e all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.