Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 16 febbraio 2017 e depositato il 23 febbraio 2017, la Regione Veneto ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270, 271, 272 e 275, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019).
1.1.– In primo luogo, la Regione Veneto impugna i commi 269, 270 e 272 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, i quali statuiscono:
«269. Ai fini della gestione delle risorse del fondo di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, ciascuna regione razionalizza l’organizzazione degli enti erogatori dei servizi per il diritto allo studio mediante l’istituzione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, di un unico ente erogatore dei medesimi servizi, prevedendo comunque una rappresentanza degli studenti nei relativi organi direttivi. Sono comunque fatti salvi i modelli sperimentali di gestione degli interventi di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68.
270. La norma del comma 269 costituisce principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica.
272. Le risorse del fondo di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sono direttamente attribuite al bilancio dell’ente regionale erogatore dei servizi per il diritto allo studio, a norma del comma 269 del presente articolo, entro il 30 settembre di ciascun anno. Nelle more della razionalizzazione di cui al medesimo comma 269, tali risorse sono comunque trasferite direttamente agli enti regionali erogatori, previa indicazione da parte di ciascuna regione della quota da trasferire a ciascuno di essi.».
Tale disciplina sarebbe lesiva degli artt. 3, 5, 97, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 Cost.
1.1.1.– La Regione Veneto sottolinea che la qualificazione di principio di coordinamento della finanza pubblica della disposizione di cui al comma 269, operata dal comma 270, non assumerebbe alcun valore prescrittivo. Infatti, come più volte affermato da questa Corte, al fine d’individuare la materia a cui ascrivere le disposizioni impugnate, non rileva la definizione data dallo stesso legislatore, dovendosi invece fare riferimento all’oggetto della disciplina in questione (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 203, n. 200 e n. 164 del 2012, n. 182 del 2011, n. 247 del 2010 e n. 237 del 2009).
La disposizione di cui al comma 269, alla luce della ormai costante giurisprudenza costituzionale (tra le tante, vengono richiamate le sentenze n. 64 e n. 43 del 2016, n. 79 e n. 44 del 2014, n. 236, n. 205 e n. 36 del 2013, n. 262, n. 211 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010, n. 297, n. 237 e n. 139 del 2009, n. 289, n. 159 e n. 120 del 2008 e n. 169 del 2007), non potrebbe comunque essere inquadrata all’interno del «coordinamento della finanza pubblica». Infatti, i limiti posti dal legislatore statale al fine di garantire l’equilibrio complessivo dei conti pubblici possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali solo qualora stabiliscano un limite complessivo, che lasci agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa, nonché quando abbiano il carattere della transitorietà. Sarebbe necessario, quindi, che il legislatore renda comunque possibile l’estrapolazione dalle disposizioni statali di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale, non prevedendo in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa. In caso contrario, la norma statale non potrebbe essere ritenuta di principio, a prescindere dall’auto-qualificazione operata dal legislatore.
A conferma di ciò, vengono ricordate le misure previste dall’art. 9, commi da 1 a 6, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, ove si prevedeva la soppressione o l’accorpamento di enti, agenzie o organismi degli enti territoriali. Tali disposizioni sono state ricondotte all’interno dei principi fondamentali di coordinamento finanziario, ma soltanto perché limitate all’inderogabile risultato di una riduzione del 20 per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali (così la sentenza n. 236 del 2013). L’accorpamento o la soppressione di taluni di questi enti, pertanto, poteva essere uno strumento per ottenere tale riduzione, ma non l’unico strumento.
Le disposizioni impugnate, in violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., invece, non indicherebbero alcun obiettivo di contenimento della spesa regionale, limitandosi ad una generica affermazione circa l’esigenza di razionalizzare l’organizzazione degli enti erogatori dei servizi per il diritto allo studio. Inoltre, le stesse non avrebbero carattere transitorio, imponendo una modifica definitiva all’assetto organizzativo di tali enti, senza lasciare uno spazio di libertà alle scelte delle Regioni, in virtù del contenuto strettamente vincolante dell’obbligo di creare un unico ente erogatore.
1.1.2.– La disciplina statale sarebbe altresì in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., incidendo direttamente sulle competenze residuali delle Regioni in materia di «organizzazione amministrativa regionale» e di «diritto allo studio» e ledendo così gli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost.
Non tenendo conto delle peculiarità territoriali e delle diverse modalità di erogazione dei servizi, infatti, verrebbero compromesse l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’attuale modello organizzativo regionale, basato sulla necessità di assicurare, in una realtà regionale policentrica, una distribuzione capillare dei servizi di diritto allo studio all’interno del territorio. Per tali ragioni, la Regione Veneto sottolinea di aver già manifestato, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano (da qui: Conferenza Stato-Regioni), la propria contrarietà alla creazione di un unico ente, come risulta dal parere sul disegno di legge di bilancio del 17 novembre 2016.
1.1.3.– Le disposizioni censurate, infine, sarebbero illegittime in quanto non recherebbero alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni, in violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
Infatti, in ambiti caratterizzati da una pluralità di competenze, qualora non risulti possibile comporre il concorso di competenze statali e regionali mediante un criterio di prevalenza, l’intervento del legislatore statale deve avvenire nel rispetto del principio di leale collaborazione, da ritenersi congruamente attuato mediante la previsione dell’intesa (ex plurimis, sono richiamate le sentenze n. 21 e n. 1 del 2016, n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008). Un’esigenza di coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali riconosciuta, nella forma dell’intesa, anche nella diversa ipotesi della “attrazione in sussidiarietà” della funzione legislativa allo Stato (vengono richiamate in particolare la sentenza n. 303 del 2003, nonché, tra le più recenti, le sentenze n. 251 e n. 7 del 2016).
1.2.– In secondo luogo, la ricorrente impugna l’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016, che così dispone:
«271. Nelle more dell’emanazione del decreto di cui all’articolo 7, comma 7, del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, e allo scopo di consentire che l’assegnazione delle risorse del fondo di cui al comma 268 del presente articolo avvenga, in attuazione dell’articolo 18, commi 1, lettera a), e 3, del medesimo decreto legislativo n. 68 del 2012, in misura proporzionale al fabbisogno finanziario delle regioni, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con decreto emanato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, che si esprime entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale [sic] il decreto può essere comunque adottato, determina i fabbisogni finanziari regionali.».
La disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117, quarto comma, Cost., e del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost., prevedendo un semplice parere, anziché un’apposita intesa, riguardo al decreto che determina i fabbisogni finanziari regionali in una competenza regionale residuale, quale il «diritto allo studio».
1.2.1.– Premette la parte ricorrente che, riguardo a tale materia, questa Corte, pur non avendo avuto l’occasione di esprimersi direttamente sul relativo inquadramento, ne avrebbe riconosciuto la pertinenza alla competenza regionale residuale in diversi obiter dicta (sono richiamate le sentenze n. 61 del 2011, n. 299 e n. 134 del 2010). Ciò sarebbe stato confermato anche dallo stesso legislatore statale con il decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, recante «Revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti, in attuazione della delega prevista dall’articolo 5, comma 1, lettere a), secondo periodo, e d), della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e secondo i principi e i criteri direttivi stabiliti al comma 3, lettera f), e al comma 6», che ha definito un sistema integrato di strumenti e servizi in cui allo Stato spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre le Regioni hanno la competenza in materia di diritto allo studio (in particolare, art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 68 del 2012).
Le Regioni, d’altronde, insieme alle università, avrebbero svolto funzioni attive in tale ambito già a partire dal decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382). In base a tale assetto normativo, quindi, la legge della Regione Veneto 7 aprile 1998, n. 8 (Norme per l’attuazione del diritto allo studio universitario), ha disposto che gli interventi finalizzati all’attuazione del diritto allo studio sono gestiti dalle tre aziende regionali per il diritto allo studio universitario, prevedendo che l’erogazione delle borse di studio possa essere affidata alle università, previa stipula di apposita convenzione con la Regione.
1.2.2.– Ciò premesso, il fondo vincolato statale a cui si riferisce la disposizione impugnata è disciplinato dall’art. 18, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 68 del 2012 e concorre, assieme al gettito derivante dall’importo della tassa regionale per il diritto allo studio e alle risorse proprie delle Regioni, alla copertura del fabbisogno finanziario necessario affinché queste ultime possano garantire l’erogazione delle borse di studio agli studenti universitari in possesso dei relativi requisiti. I criteri e le modalità di riparto di tale fondo sono definiti con un decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentito il Consiglio nazionale degli studenti universitari. Il medesimo decreto interministeriale (aggiornato con cadenza triennale) individua anche l’importo delle borse di studio, nonché i requisiti di eleggibilità per l’accesso alle stesse.
Siffatto decreto, nondimeno, non risulterebbe ad oggi emanato e l’ultimo riparto delle risorse del fondo, relativo alle risorse disponibili nel 2015, sarebbe stato operato con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 24 ottobre 2016, sulla base dei criteri di cui all’art. 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 aprile 2001 e dei dati trasmessi dalle Regioni.
Il comma 271 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, dunque, introdurrebbe una disposizione di fatto elusiva e contraddittoria del coerente percorso previsto dal d.lgs. n. 68 del 2012, il quale, per giungere ad una definizione del fabbisogno finanziario delle Regioni rispettosa della relativa autonomia, aveva previsto la necessaria intesa per la definizione dell’importo della borsa e dei criteri e delle modalità di riparto del fondo integrativo statale.
Questa Corte, del resto, avrebbe più volte dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni che disciplinavano il riparto o la riduzione di fondi e trasferimenti destinati ad enti territoriali, nella misura in cui, rinviando a fonti secondarie di attuazione, non prevedevano “a monte” lo strumento dell’intesa, sia nei casi d’intreccio di materie riconducibili alla potestà legislativa statale e regionale, sia in quelli d’interferenza con la potestà legislativa regionale residuale (tra le tante, sono richiamate le sentenze n. 211 e n. 147 del 2016, n. 273, n. 182 e n. 117 del 2013, n. 27 del 2010, n. 168 del 2008 e n. 222 del 2005). Inoltre, come recentemente statuito nella sentenza n. 251 del 2016 «[i]l parere come strumento di coinvolgimento delle autonomie regionali e locali non può non misurarsi con la giurisprudenza di questa Corte che, nel corso degli anni, ha sempre più valorizzato la leale collaborazione quale principio guida nell’evenienza, rivelatasi molto frequente, di uno stretto intreccio fra materie e competenze e ha ravvisato nell’intesa la soluzione che meglio incarna la collaborazione (di recente, sentenze n. 21 e n. l del 2016)».
1.3.– Da ultimo, la Regione Veneto ha impugnato il comma 275 dell’art. 1 della legge n. 232 del 2016, ove si prevede:
«275. Entro il 30 aprile di ogni anno, la “Fondazione Articolo 34”, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, bandisce almeno 400 borse di studio nazionali, ciascuna del valore di 15.000 euro annuali, destinate a studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi, al fine di favorirne l’immatricolazione e la frequenza a corsi di laurea o di laurea magistrale a ciclo unico, nelle università statali, o a corsi di diploma accademico di I livello, nelle istituzioni statali dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, aventi sedi anche differenti dalla residenza anagrafica del nucleo familiare dello studente.».
La disposizione impugnata introduce forme di sostegno al diritto allo studio, affidando l’erogazione di borse di studio nazionali alla «Fondazione Articolo 34», prevista dal precedente comma 273 – già «Fondazione per il Merito», di cui all’art. 9, comma 3, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106 – istituita per la realizzazione degli obiettivi di interesse pubblico del Fondo per il merito di cui all’art. 4, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nonché allo scopo di promuovere la cultura del merito e della qualità degli apprendimenti nel sistema scolastico e nel sistema universitario.
1.3.1.– Secondo la ricorrente, indicando che sia solamente sentita la Conferenza Stato-Regioni, la disposizione censurata violerebbe gli artt. 117, quarto comma, e 119, Cost., nonché il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost. Trattandosi di un intervento rientrante nella materia di competenza residuale regionale concernente il «diritto allo studio», infatti, la disciplina delle relative modalità di erogazione dovrebbe necessariamente stabilire una sede adeguata di coinvolgimento delle Regioni, segnatamente nella forma dell’intesa. D’altronde, misure di questo tipo sarebbero già state adottate dal legislatore, prevedendo appunto lo strumento dell’intesa (come per il Piano nazionale per il merito di cui all’art. 59 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98).
La lesione delle attribuzioni regionali, peraltro, sarebbe aggravata da quanto previsto dal successivo comma 283, secondo cui gli studenti percettori di tale borsa nazionale sono esonerati dal pagamento della tassa regionale per il diritto allo studio. Il gettito derivante dalla riscossione di tale tassa, infatti, è interamente devoluto all’erogazione delle borse di studio regionali (art. 3, comma 23, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»). La previsione di qualsiasi forma di esonero inciderebbe, quindi, sulla copertura del fabbisogno finanziario delle Regioni necessario per garantire l’erogazione delle borse stesse, comportando di conseguenza un aggravio sul bilancio regionale. A maggior ragione, pertanto, la disposizione impugnata dovrebbe prevedere il coinvolgimento delle Regioni nella forma dell’intesa.
2.– Con atto depositato il 28 marzo 2017, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che il ricorso promosso dalla Regione Veneto sia dichiarato infondato. Le relative argomentazioni, per gli aspetti qui in esame, sono state illustrate soltanto nella successiva memoria depositata in prossimità dell’udienza.
2.1.– Con riferimento alla prima questione promossa dalla parte ricorrente, la creazione di un unico ente regionale risponderebbe a diverse esigenze, non solo di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento e razionalizzazione della spesa, essendo finalizzata a garantire l’effettiva erogazione delle borse e a tutelare il diritto allo studio in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, salvaguardando gli studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, nel rispetto dell’art. 34 Cost.
2.1.1.– Nel dettaglio, dovrebbe ritenersi infondata la censura relativa alla violazione del riparto di competenze in materia di «organizzazione amministrativa regionale». Infatti, l’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione, pur essendo materia riconducibile al novero delle competenze regionali residuali, incontrerebbe il limite dell’esercizio della potestà legislativa statale sul «coordinamento della finanza pubblica», dal momento che lo Stato potrebbe imporre alle Regioni prescrizioni organizzative connesse ad esigenze di equilibrio complessivo della finanza pubblica e al rispetto del patto di stabilità interno e comunitario.
La giurisprudenza costituzionale, anche in considerazione della situazione di eccezionale gravità del contesto finanziario, avrebbe fornito una lettura estensiva delle norme di principio di coordinamento finanziario, che potrebbero recare anche vincoli specifici per il contenimento della spesa delle Regioni e degli enti locali (sono richiamate le sentenze n. 52 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 417 del 2005). Così, ad esempio, per le riduzioni di spesa per incarichi di studio e consulenza (è richiamata la sentenza n 262 del 2012), per l’obbligo di soppressione o accorpamento da parte degli enti locali di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite (è richiamata la sentenza n. 236 del 2013), per la determinazione del numero massimo di consiglieri e assessori regionali e per la riduzione degli emolumenti dei consiglieri (sono citate le sentenze n. 23 del 2014 e n. 198 del 2012). Inoltre, la specificità delle prescrizioni, di per sé, non farebbe escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione (sono richiamate le sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007). Infine, nella dinamica dei rapporti tra Stato e Regioni, la stessa nozione di principio fondamentale non potrebbe essere cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, dovendo tenere conto del contesto e del momento congiunturale in relazione ai quali l’accertamento va compiuto e della peculiarità della materia (è citata la sentenza n. 16 del 2010).
2.1.2.– Quanto alla violazione della competenza regionale sul «diritto allo studio universitario», la difesa statale precisa che tale materia non compare né tra quelle di esclusiva competenza statale, né tra quelle di competenza concorrente; la qual cosa, com’è noto, non ne comporterebbe però l’attribuzione alla potestà residuale delle Regioni.
Il diritto allo studio, previsto dai commi terzo e quarto dell’art. 34 Cost., sarebbe un diritto sociale, di cui dovrebbe essere garantito un determinato livello di tutela su tutto il territorio nazionale. Esso rappresenterebbe, dunque, un settore sul quale s’innesta, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., quel limite alle competenze regionali rappresentato dalla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». E, a tal proposito, proprio il d.lgs. n. 68 del 2012 prevede, all’art. 3, comma 2, che «[f]erma restando la competenza esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei LEP, al fine di garantirne l’uniformità e l’esigibilità su tutto il territorio nazionale, le regioni esercitano la competenza esclusiva in materia di diritto allo studio, disciplinando e attivando gli interventi volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale per il concreto esercizio di tale diritto. Le regioni, nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio, possono integrare la gamma degli strumenti e dei servizi di cui all’articolo 6.».
L’intervento del legislatore statale, dunque, potrebbe anche essere ricondotto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di esclusiva competenza dello Stato, provvedendo a garantire livelli minimi di uniformità di trattamento ed omogeneità di una serie di strutture che rivestono carattere assolutamente primario sul piano dei diritti dell’individuo e, in particolare del diritto allo studio universitario. In relazione a tale potestà, quindi, sarebbe irrilevante l’invocazione di competenze regionali.
2.2.– Riguardo alla questione relativa all’art. l, comma 271, della legge n. 232 del 2016, la difesa statale asserisce che tale disposizione non recherebbe alcuna violazione delle competenze regionali, essendo la definizione dei fabbisogni finanziari delle Regioni strettamente connessa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, materia rientrante nella competenza legislativa statale. Pertanto, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni costituirebbe un sufficiente strumento di raccordo tra lo Stato e la Regione.
2.3.– Infine, con riferimento all’art. l, comma 275, della legge n. 232 del 2016, la parte resistente afferma che, riconducendosi la disposizione impugnata anche in tal caso alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe ritenersi un’idonea forma di coinvolgimento delle Regioni.
3.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha ribadito le argomentazioni del ricorso introduttivo, nonché replicato alle difese dell’Avvocatura generale dello Stato, anche alla luce dei più recenti sviluppi normativi.
3.1.– Riguardo alla prima questione, la ricorrente ribadisce l’illegittimità della previsione in capo alla Regioni dell’obbligo di istituire un unico ente regionale per l’erogazione del diritto allo studio.
3.1.1.– In primo luogo, infatti, non potrebbe ritenersi, come sostiene la difesa statale, che la misura sia finalizzata, o comunque idonea, a garantire livelli essenziali delle prestazioni, poiché non vi sarebbe alcun rapporto di consequenzialità tra l’obbligo di accorpamento regionale e la determinazione dei livelli delle prestazioni. L’individuazione degli standard strutturali organizzativi e qualitativi degli enti operanti nel campo dei servizi educativi e di istruzione – quali quelli di cui alle disposizioni impugnate – sarebbe, invece, di esclusiva competenza del legislatore regionale, limitandosi ad incidere sull’assetto organizzativo e gestorio di tali enti (sono richiamate le sentenze n. 284 del 2016 e n. 120 del 2005).
3.1.2.– In secondo luogo, il modello organizzativo sarebbe strategicamente speculare alla conformazione delle Università del Veneto – a cui è attribuita la gestione delle borse di studio regionali per gli studenti iscritti alle stesse – poiché ogni Azienda regionale per il diritto allo studio universitario (ESU) è ubicata in corrispondenza della sede universitaria di riferimento (Padova, Venezia e Verona).
L’istituzione di un unico ente per il diritto allo studio a livello regionale, pertanto, rischierebbe di travolgere tale impostazione e di dissipare il know-how di gestione aziendale del Veneto, nonché di compromettere la presenza degli studenti negli organi di governo in un numero significativo, come attualmente previsto nei consigli di amministrazione degli enti erogatori.
L’irragionevolezza dell’accorpamento, inoltre, sarebbe rafforzata dal fatto che gli enti attualmente operanti presenterebbero caratteristiche ottimali sotto il profilo organizzativo, gestorio e finanziario, mantenendo un elevatissimo livello qualitativo dei servizi di diritto allo studio in tutto il territorio regionale, nonché l’equilibrio di bilancio, nonostante i vincoli imposti dal legislatore statale (fra cui quello relativo al blocco delle assunzioni) e la riduzione del 20 per cento del contributo regionale di funzionamento, di cui all’art. 20 della legge della Regione Veneto 21 dicembre 2012, n. 47 (Disposizioni per la riduzione e il controllo delle spese per il funzionamento delle istituzioni regionali, in recepimento e attuazione del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012”, convertito con modificazioni dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213 e istituzione e disciplina del Collegio dei revisori dei conti della Regione del Veneto).
Andrebbe altresì considerato che neppure si avrebbero significativi risparmi di spesa. La necessità di mantenere un’elevata qualità dei servizi in tutto il territorio regionale, infatti, farebbe sì che le principali voci di costo relative al funzionamento di tali enti – personale, patrimonio, approvvigionamenti – rimarrebbero sostanzialmente invariate. L’unica eventuale e limitata riduzione di costi potrebbe derivare dalla creazione di un’unica direzione regionale, che sarebbe almeno in parte compensata dall’aumento del trattamento economico associato ai ruoli apicali, necessario in considerazione del maggiore carico di responsabilità sugli stessi gravante. Inoltre, la creazione di un unico ente comporterebbe la necessità d’individuare una nuova struttura dedicata, al momento non disponibile, con le relative spese per gli uffici istituzionali, che andrebbero a sommarsi a quelle degli attuali uffici periferici facenti capo agli enti preesistenti.
3.1.3.– Da ultimo, con riferimento alla lesione del principio di leale collaborazione, la parte ricorrente richiama la recente sentenza n. 261 del 2017, che ha ritenuto l’intervento del legislatore statale volto a ridurre il numero delle camere di commercio, mediante l’accorpamento di quelle preesistenti, giustificato dalla finalità di realizzare una razionalizzazione organizzativa di tali enti e di perseguire una maggiore efficienza nello svolgimento della loro attività. Tuttavia, incidendo anche su competenze regionali, si è ivi affermata la necessità della previsione di strumenti tesi al rispetto del principio di leale collaborazione, da individuarsi nell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.
3.2.– Per quanto concerne la questione relativa all’art. l, comma 271, della legge n. 232 del 2016, in via preliminare, la Regione Veneto ricorda che, in data 11 ottobre 2017, il decreto interministeriale previsto dalla disposizione impugnata è stato adottato, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni (sancita il 27 luglio 2017). Intesa che, come risulta dal preambolo del decreto, è stata ritenuta comunque “opportuna”.
L’attuazione della disposizione mediante intesa non escluderebbe la permanenza dell’interesse a ricorrere (e, anzi, confermerebbe ulteriormente i dubbi di legittimità), poiché il comma 271, pur avendo natura transitoria (intervenendo nelle more dell’adozione del decreto di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 68 del 2012), non avrebbe effetti limitati nel tempo (e lo stesso decreto interministeriale ha vigenza triennale). Pertanto, sino alla piena attuazione del d.lgs. n. 68 del 2012, la disposizione impugnata potrebbe ancora produrre effetti. Inoltre, come più volte ribadito da questa Corte, «l’intesa in Conferenza unificata non provoca la cessazione della materia del contendere, poiché un’eventuale pronuncia di accoglimento potrebbe comunque “reintegrare l’ordine costituzionale asseritamente violato, venendo a cadere sulla previsione normativa che ha costituito la causa dell’intesa stessa” (sentenza n. 40 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 98 del 2007; nonché, nel senso della persistenza dell’interesse a ricorrere a seguito di intesa, sentenza n. 141 del 2016)» (sentenza n. 125 del 2017).
Nel merito, non potrebbe accogliersi la tesi, prospettata dalla difesa statale, secondo cui la definizione dei fabbisogni finanziari regionali sarebbe strettamente connessa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di competenza esclusiva statale.
Tale titolo di legittimazione, infatti, atterrebbe alla fissazione del livello strutturale e qualitativo delle prestazioni (sentenza n. 192 del 2017), rappresentando degli standard minimi da assicurare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Con specifico riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni in sanità (LEA), questa Corte ha affermato che la deroga alla competenza legislativa delle Regioni «è ammessa solo nei limiti necessari ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenza n. 207 del 2010)» (sentenza n. 125 del 2015). Inoltre, anche se la determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolgerebbe necessariamente le Regioni «per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione» (sentenza n. 169 del 2017). E lo strumento che meglio garantirebbe il coinvolgimento delle Regioni sarebbe l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (ex multis, sono richiamate le sentenze n. 297 del 2012 e n. 134 del 2006).
3.3.– Infine, riguardo all’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, la parte ricorrente sottolinea che il procedimento di attuazione di tale disposizione non sarebbe nemmeno iniziato. Il comma 288 dell’art. l della legge n. 232 del 2016, infatti, in attesa del raggiungimento della piena operatività della «Fondazione Articolo 34», prevedeva l’istituzione, mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di una «cabina di regia», incaricata di attivare le procedure relative all’emanazione del bando per l’assegnazione delle borse. Tale atto non sarebbe stato adottato e la stessa fondazione non risulterebbe ancora costituita.
Ciò, tuttavia, non farebbe venir meno l’interesse a ricorrere della Regione, in quanto la disposizione censurata non avrebbe un’applicazione limitata nel tempo.
Considerato in diritto
1.– La Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse disposizioni della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019).
L’esame di questa Corte è qui limitato alle questioni relative all’art. 1, commi 269, 270, 271, 272 e 275, della suddetta legge, promosse in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, restando riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse dalla ricorrente.
1.1.– Un primo gruppo di questioni concerne l’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge n. 232 del 2016, ove si stabilisce che, per finalità di «coordinamento della finanza pubblica», le Regioni provvedano a creare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della stessa legge, un unico ente adibito all’erogazione dei servizi per il diritto allo studio, al bilancio del quale vengano direttamente attribuite le risorse del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio di cui all’art. 18 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, recante «Revisione della normativa di principio in materia di diritto allo studio e valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti, in attuazione della delega prevista dall’articolo 5, comma 1, lettere a), secondo periodo, e d), della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e secondo i principi e i criteri direttivi stabiliti al comma 3, lettera f), e al comma 6».
Secondo la Regione Veneto, le disposizioni impugnate violerebbero gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., poiché non si limiterebbero a fissare un limite complessivo di spesa né obiettivi generali di risparmio, ma introdurrebbero una precisa norma di dettaglio. Le disposizioni sarebbero altresì in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., incidendo direttamente sulle competenze residuali delle Regioni in materia di «organizzazione amministrativa regionale» e di «diritto allo studio», violando così anche gli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost. Da ultimo, verrebbe altresì leso il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost, non essendo prevista alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni.
1.2.– Una seconda questione riguarda l’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016, che, ai fini del riparto delle risorse del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, prevede che i fabbisogni finanziari regionali siano determinati con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano (da qui: Conferenza Stato-Regioni).
Asserisce la parte ricorrente che la disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117, quarto comma, Cost. e del principio di leale collaborazione, poiché, pur intervenendo su una competenza regionale residuale, quale il «diritto allo studio», prevedrebbe un semplice parere, anziché un’apposita intesa, sul decreto interministeriale che determina i fabbisogni finanziari regionali.
1.3.– Un’ultima questione è promossa in relazione all’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, che affida l’erogazione di borse di studio nazionali alla «Fondazione Articolo 34», prevista al precedente comma 273, già «Fondazione per il merito», di cui all’art. 9, comma 3, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106.
La disposizione censurata lederebbe gli artt. 117, quarto comma, e 119 Cost., nonché il principio di leale collaborazione, poiché, la disciplina delle modalità di erogazione dovrebbe necessariamente prevedere un adeguato coinvolgimento delle Regioni, segnatamente nella forma dell’intesa.
2.– Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non fondatezza del ricorso.
2.1.– In particolare, con riferimento alla prima questione, la creazione di un unico ente regionale di erogazione dei servizi per il diritto allo studio risponderebbe ad esigenze di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento e razionalizzazione della spesa, in conformità agli artt. 117, terzo comma, e 119, Cost., nonché alla necessità di garantire l’effettiva erogazione delle borse e a tutelare il diritto allo studio in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.
2.2.– Riguardo alla seconda questione, invece, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni costituirebbe un sufficiente strumento di raccordo, tenuto conto che la definizione dei fabbisogni finanziari delle Regioni sarebbe strettamente connessa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, materia ascritta alla competenza legislativa esclusiva statale.
2.3.– Infine, in relazione alla terza questione, rientrando l’erogazione di borse di studio nazionali nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe ritenersi un sufficiente strumento di raccordo tra lo Stato e le Regioni.
3.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge n. 232 del 2016, sono fondate.
3.1.– Le disposizioni impugnate pongono un obbligo assai puntuale in capo alle Regioni, tenute ad organizzare il sistema di erogazione dei servizi di diritto allo studio attraverso un unico ente, salvo poter accedere ai modelli sperimentali di gestione previsti dall’art. 12 del d.lgs. n. 68 del 2012. L’intervento legislativo incide, pertanto, su ambiti in cui può esercitarsi la competenza legislativa regionale, quali l’«organizzazione amministrativa della Regione» (sentenze n. 293 del 2012, n. 95 del 2008 e n. 387 del 2007) e il «diritto allo studio» (sentenze n. 2 del 2013, n. 61 del 2011, n. 299 e n. 134 del 2010, n. 50 del 2008, n. 300 e n. 33 del 2005).
Il comma 270 definisce il vincolo posto dal legislatore statale quale principio di coordinamento della finanza pubblica, idoneo a giustificare la compressione dell’autonomia regionale. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, tuttavia, l’autoqualificazione legislativa non è vincolante e, quindi, al fine d’individuare l’ambito di competenza su cui incidono le disposizioni «occorre fare riferimento all’oggetto e alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli effetti marginali e riflessi, in guisa da identificare correttamente anche l’interesse tutelato» (sentenza n. 203 del 2012; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 125 del 2017, n. 188 e n. 39 del 2014, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 169 del 2007).
Secondo tale giurisprudenza, inoltre, lo Stato può imporre limitazioni all’autonomia di spesa degli enti, purché preveda solo un limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente – lasciando alle Regioni libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa – e le suddette limitazioni abbiano il carattere della transitorietà (ex plurimis, sentenze n. 43 del 2016, n. 156 del 2015, n. 23 del 2014, n. 236 del 2013, n. 139 del 2012, n. 159 del 2008, n. 417 del 2005 e n. 36 del 2004).
È ben vero che questa Corte ha talvolta dato una lettura estensiva dei principi di coordinamento finanziario, a cui sono state ricondotte anche talune misure recanti vincoli specifici per il contenimento della spesa delle Regioni e degli enti locali, sovente in virtù del rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione con i principi fondamentali. È il caso, ad esempio, delle misure di razionalizzazione, anche mediante soppressione o accorpamento, di enti e agenzie (sentenza n. 236 del 2013) o degli interventi per la riduzione delle Comunità montane (sentenza n. 237 del 2009). Tuttavia, si trattava pur sempre di misure che, sebbene potessero portare anche alla soppressione o fusione di enti, non stabilivano direttamente il mezzo attraverso cui conseguire il risultato, limitandosi a fissare soglie ed obiettivi di riduzione di costi, nonché a prevedere indicatori in base a cui adottare interventi di riordino. Inoltre, anche quando le competenze statali prevedevano interventi tesi alla razionalizzazione mediante soppressione di enti, come nel caso delle camere di commercio, l’intreccio con le competenze regionali comportava che tali interventi fossero realizzati mediante procedure concertate con le Regioni (sentenza n. 261 del 2017).
Nel caso di specie, invece, richiamando generiche esigenze di razionalizzazione organizzativa, lo Stato ha previsto (e non in via transitoria) direttamente il modello organizzativo e gestorio a cui le Regioni sono tenute ad adeguarsi, cioè l’erogazione dei servizi di diritto allo studio attraverso un unico ente. Si tratta di una previsione puntuale e specifica, che non lascia alcun margine di attuazione alle stesse Regioni (se non riguardo alla struttura organizzativa dell’ente), né si presenta coessenziale all’esigenza di razionalizzare l’erogazione dei servizi per il diritto allo studio, esulando in tal modo dalla competenza statale attinente ai principi di coordinamento della finanza pubblica.
3.2.– Con particolare riferimento al diritto allo studio, trattandosi di un diritto sociale, non c’è dubbio che esso costituisca uno degli ambiti in cui lo Stato può esercitare la competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m). Lo stesso d.lgs. n. 68 del 2012, d’altronde, prevede un sistema integrato di strumenti e servizi, in cui allo Stato spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre alle Regioni competono la disciplina e l’attivazione degli interventi volti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale per il concreto esercizio di tale diritto, tra cui l’erogazione delle borse di studio.
Tuttavia, a differenza di quanto asserito dalla difesa statale, deve escludersi che le disposizioni impugnate siano ascrivibili alla potestà di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m). Siffatto parametro costituzionale, infatti, può essere invocato solo in relazione a specifiche prestazioni delle quali le norme statali definiscono il livello essenziale di erogazione (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2010, n. 328 del 2006, n. 285 e n. 120 del 2005 e n. 423 del 2004). In particolare, non possono ricondursi a tale titolo di legittimazione quelle disposizioni che non determinano alcun livello di prestazione, ma incidono direttamente sull’assetto organizzativo e gestorio demandato alla potestà legislativa delle Regioni, alle quali compete l’individuazione degli standard organizzativi e qualitativi degli enti operanti nel campo dei servizi educativi e di istruzione (sentenze n. 284 del 2016 e n. 120 del 2005).
Nel caso di specie, le disposizioni impugnate non provvedono a fissare alcun livello o standard delle prestazioni, stabilendo, invece, una determinata forma organizzativa per l’erogazione di un diritto sociale. La qual cosa, come sottolineato, esula dalla potestà esclusiva statale in esame.
3.3.– Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 269, 270 e 272, della legge n. 232 del 2016, per violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., con assorbimento delle ulteriori censure.
4.– È altresì fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016.
4.1.– In via preliminare, va precisato che il decreto interministeriale di cui al comma 271 è stato adottato in data 11 ottobre 2017, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni (sancita il 27 luglio 2017), sebbene la disposizione di legge impugnata preveda il mero parere. Come risulta dalle premesse di tale atto, infatti, l’intesa è stata ritenuta comunque “opportuna”. Ciò, tuttavia, non fa venir meno l’interesse a ricorrere della Regione Veneto, né incide sulla materia del contendere, poiché la disposizione impugnata, sebbene di natura transitoria, può trovare applicazione sino all’adozione del decreto di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 68 del 2012.
4.2.– La disciplina in esame individua le modalità per la determinazione dei fabbisogni regionali al fine del riparto delle risorse del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, che, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 68 del 2012, concorre, assieme al gettito della tassa regionale per il diritto allo studio e alle risorse proprie delle Regioni, al finanziamento degli interventi a sostegno di tale diritto.
Si tratta, in altri termini, di un fondo in materia di competenza regionale teso a garantire l’effettività del diritto allo studio. E la disciplina di un fondo siffatto, com’è noto, può sì intervenire anche in materie di competenza delle Regioni (sentenze n. 273 del 2013 e n. 232 del 2011), ma con il pieno coinvolgimento delle stesse nelle relative modalità di gestione (tra le tante, sentenze n. 211 e n. 147 del 2016, n. 168 e n. 94 del 2008 e n. 222 del 2005). L’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 68 del 2012, pertanto, prevede che il riparto di tale fondo è effettuato, in misura proporzionale al fabbisogno finanziario delle Regioni, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca scientifica, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentito il Consiglio nazionale degli studenti universitari. In via transitoria, sino all’adozione di siffatto decreto, ad oggi non ancora avvenuta, al riparto si è provveduto sulla base dei criteri di cui all’art. 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001, da ultimo con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 7 agosto 2017, adottato previa intesa con le Regioni.
Ebbene, la determinazione dei fabbisogni regionali è strettamente collegata e prodromica al riparto delle risorse del fondo statale, ma l’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016 prevede che sia effettuata con il mero parere della Conferenza Stato-Regioni, discostandosi così da quanto previsto per il riparto del fondo stesso.
Ciò, tuttavia, non può giustificarsi, come dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato, ascrivendo la disciplina in esame alla competenza esclusiva statale in materia di determinazione di livelli essenziali delle prestazioni, sebbene sia evidente che la disposizione impugnata persegua anche il fine di assicurare gli strumenti idonei alla realizzazione ed attuazione di un diritto sociale. Come già sottolineato, infatti, il titolo di legittimazione invocato dalla difesa statale è circoscritto a quanto necessario ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti siano assoggettati ad un regime di assistenza inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenze n. 192 del 2017 e n. 125 del 2015).
D’altronde, come già sottolineato da questa Corte riguardo ai livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA), se la determinazione degli stessi è un obbligo del legislatore statale, la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni. La dialettica tra Stato e Regioni, dunque, «dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale nonché dell’intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito materiale» (sentenza n. 169 del 2017).
Tale intreccio di competenze non può non risolversi, nel rispetto dei canoni della leale collaborazione (tra le tante, sentenze n. 192 del 2017, n. 251, n. 63, n. 21 e n. 1 del 2016, n. 273 del 2013, n. 27 del 2010, n. 168, n. 94 e n. 50 del 2008, n. 222 del 2005 e n. 423 del 2004), attraverso l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (ex multis, sentenze n. 169 del 2017, n. 297 del 2012 e n. 134 del 2006).
4.3.– Pertanto, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 271, della legge n. 232 del 2016, nella parte in cui prevede che il decreto interministeriale che determina i fabbisogni finanziari regionali è adottato previo parere della Conferenza Stato-Regioni, anziché previa intesa con detta Conferenza.
5.– Anche la questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, è fondata.
5.1.– Va premesso che la disposizione impugnata è stata sinora disapplicata e, inoltre, sostanzialmente svuotata dai successivi interventi del legislatore statale.
In primo luogo, la «Fondazione Articolo 34» non risulta ancora costituita e neppure è stato adottato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che, ai sensi del successivo comma 288, avrebbe dovuto istituire la «cabina di regia» incaricata, sino alla piena operatività della Fondazione, di attivare le procedure relative all’emanazione del bando. In secondo luogo, l’art. 1, comma 636, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), ha previsto l’incremento del fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio per 20 milioni di euro a decorrere dal 2018, utilizzando a tal fine parte delle risorse stanziate dall’art. 1, comma 286, della legge n. 232 del 2016 per l’attuazione della disposizione impugnata, risorse che a decorrere dal 2020 saranno del tutto cancellate.
Siffatti sviluppi, tuttavia, non fanno venir meno l’interesse a ricorrere della Regione Veneto, in quanto il comma 275 potrebbe trovare comunque una, seppur limitata, applicazione, qualora il legislatore statale provveda a darvi attuazione.
5.2.– Neppure in questo caso l’intervento legislativo può ritenersi espressione del titolo di legittimazione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., come asserito dalla difesa statale. La disposizione impugnata, infatti, prevede direttamente l’erogazione di una determinata prestazione relativa al diritto allo studio in favore dei singoli, individuando l’ente deputato ad adottare il relativo bando, sebbene con il parere della Conferenza Stato-Regioni.
Come affermato dalla costante giurisprudenza costituzionale, solo in circostanze eccezionali, quando ricorrano imperiose necessità sociali, la potestà statale in questione può consentire l’erogazione di provvidenze ai cittadini o la gestione di sovvenzioni direttamente da parte dello Stato in materie di competenza regionale (sentenze n. 192 del 2017, n. 273 e n. 62 del 2013, n. 203 del 2012, n. 121 e n. 10 del 2010). In particolare, ha scritto questa Corte, quando ciò «[…] risulti necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle peculiari situazioni sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo» (sentenza n. 10 del 2010).
Tali circostanze eccezionali non ricorrono nel caso di specie, come conferma, d’altronde, il successivo svuotamento dell’intervento legislativo.
La disposizione impugnata incide direttamente su competenze regionali e configura una “chiamata in sussidiarietà”, giustificata dall’esigenza di rafforzare, in modo uniforme sul territorio nazionale, l’effettività del diritto allo studio. Tuttavia, la fase amministrativa che, sulla base dei criteri individuati dalla legge, si conclude con l’erogazione delle borse di studio, limita il coinvolgimento delle Regioni alla mera audizione della Conferenza Stato-Regioni. Non sono correttamente rispettati, quindi, i canoni di leale collaborazione richiesti per la “chiamata in sussidiarietà”, individuati da costante giurisprudenza di questa Corte nello strumento dell’intesa (ex multis, sentenze n. 105 del 2017, n. 7 del 2016, n. 33 del 2011, n. 278 del 2010, n. 383 del 2005, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).
5.3.– Pertanto, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 275, della legge n. 232 del 2016, nella parte in cui prevede che, entro il 30 aprile di ogni anno, la «Fondazione Articolo 34» bandisce almeno 400 borse di studio nazionali, sentita la Conferenza Stato-Regioni, anziché d’intesa con detta Conferenza.