Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato il 31 agosto 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, per violazione degli artt. 1, 5, 52, 94 e 95 della Costituzione, in relazione agli artt. 1, comma 1, lettere b) e c), 39, 40 (che ha sostituito l’art. 202 del codice di procedura penale) e 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia, in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio degli imputati Nicolò Pollari e Pio Pompa per il reato di peculato aggravato continuato, di cui al capo A) dell’imputazione, formulata nell’ambito del procedimento penale n. 02/15 R.G. Dib. e n. 5970/09 R.G. P.M., pendente davanti al Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale.
1.1.– Il ricorrente riferisce che la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia aveva proceduto ad indagini preliminari nei confronti di Nicolò Pollari, già direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) dal 15 ottobre 2001, e di Pio Pompa, consulente dal novembre 2001 e quindi dipendente del medesimo Servizio dal dicembre 2004 al dicembre 2006, quale direttore di sezione addetto all’ufficio del direttore. In base all’ipotesi accusatoria, i due indagati si sarebbero resi responsabili, in concorso tra loro, del delitto di peculato aggravato continuato (artt. 314, 81, secondo comma, 61, numero 2, e 110 del codice penale), per essersi appropriati ed aver fatto uso, tra l’estate del 2001 e il luglio del 2006, di somme e di risorse umane e materiali del SISMI, utilizzandoli per scopi estranei a quelli istituzionali del Servizio. In particolare, il Pompa – su richiesta o, comunque sia, con l’approvazione del Pollari – avrebbe svolto attività dirette a raccogliere ed elaborare informazioni sulle opinioni politiche, i contatti e le iniziative di magistrati, funzionari dello Stato, giornalisti e parlamentari, di associazioni di magistrati, anche europei, di giornalisti, di parlamentari e di movimenti sindacali, acquisendo, tra l’altro, informazioni sulle indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Milano per il sequestro di Abu Omar a mezzo del giornalista Renato Farina, al quale sarebbe stato versato un compenso di almeno 30.000 euro; con l’aggravante di aver agito al fine di commettere o di far commettere a terzi diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio (capo A dell’imputazione).
Ai medesimi Pollari e Pompa era contestato, inoltre, di aver preso cognizione, nelle suindicate qualità, della corrispondenza elettronica circolante all’interno della lista chiusa dei destinatari delle comunicazioni dell’associazione MEDEL (Magistrats européens pour la démocratie et les libertés), commettendo, in tal modo, il reato di violazione di corrispondenza aggravata continuata (artt. 616, primo comma, 81, secondo comma, 61, numero 9, e 110 cod. pen.); fatto accertato in Roma il 5 luglio 2006 (capo B dell’imputazione).
Entrambi gli indagati, con memorie depositate in vista dell’interrogatorio di cui all’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen., avevano eccepito che, per difendersi dalle accuse loro mosse, avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del SISMI.
A fronte di ciò, il pubblico ministero, con note del 27 ottobre e del 19 novembre 2009, aveva chiesto al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge n. 124 del 2007, di confermare l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, ritenute essenziali per la definizione del procedimento.
Con note del 3 e del 22 dicembre 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri aveva confermato il segreto di Stato in ordine a tutti i punti indicati dal pubblico ministero e, in particolare, con riguardo a «modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la gestione da parte di Pio Pompa della sede [del] SISMI di via Nazionale, 230 in Roma, allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari», e quanto a «modi e forme di retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e Jenny Tontodimamma, collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari».
A seguito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero il 29 dicembre 2009, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Perugia aveva sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione alle predette note del 3 e del 22 dicembre 2009, di conferma del segreto di Stato.
Il conflitto era stato deciso dalla Corte con sentenza n. 40 del 2012, nel senso della spettanza al Presidente del Consiglio dei ministri del potere di emettere le note in questione.
Con sentenza del 1° febbraio 2013, il Giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato, quindi, il non luogo a procedere nei confronti degli imputati in ordine al reato di peculato, per l’esistenza del segreto di Stato, e in ordine al reato di violazione di corrispondenza, perché estinto per prescrizione.
In accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia e dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Perugia, la Corte di cassazione, con sentenza 13 novembre 2014-13 gennaio 2015, n. 1198, aveva annullato con rinvio la decisione, limitatamente alla statuizione relativa al delitto di peculato. Il giudice di legittimità aveva censurato, in specie, la mancanza, nella sentenza impugnata, di qualsiasi delucidazione in ordine alle ragioni per le quali, ai fini dell’accertamento del predetto delitto, non sarebbe stata sufficiente la dimostrazione dell’origine pubblica delle risorse impiegate in attività non istituzionali: origine pubblica che sembrava essere stata riconosciuta dal Giudice dell’udienza preliminare.
Tornato il processo davanti a quest’ultimo, l’imputato Nicolò Pollari aveva ulteriormente opposto l’esistenza del segreto di Stato in ordine ai seguenti fatti e temi di prova:
«a) Se la sede di via Nazionale a Roma fosse una sede del SISMI o di altro soggetto pubblico o privato: se fosse finanziata con risorse “pubbliche” ovvero con risorse “non pubbliche” e da quale soggetto;
b) se la sede di Via Nazionale a Roma fosse finanziata dallo Stato o da altro ente pubblico italiano o straniero;
c) se la sede di Via Nazionale a Roma fosse finanziata da un soggetto italiano privato o straniero;
d) sulla funzione della sede di Via Nazionale a Roma, sulle persone che lì operavano e la usavano e sulle attività ivi espletate;
e) se la sede di Via Nazionale a Roma fosse una sede operativa del SISMI oppure fosse una sede operativa di altri soggetti italiani o stranieri ovvero di privati;
f) se, dunque, la sede di Via Nazionale a Roma sia mai stata finanziata con erogazioni iscritte nel bilancio dello Stato o altro ente pubblico o in qualche modo riconducibile a tali bilanci;
g) se, inoltre, la sede di via Nazionale a Roma fosse un sito riferibile a privati o a soggetti stranieri, finanziato con risorse private o straniere;
h) se le somme asseritamente erogate da Pompa Pio a Farina Renato fossero di origine pubblica o privata o connesse ad operazioni di intelligence autorizzate dal Governo;
i) il nome del soggetto, persona fisica o giuridica, pubblica o privata, erogatore e titolare delle somme asseritamente versate al Farina, nonché il nome di colui che avrebbe amministrato e concretamente disposto di tali somme e infine chi possa aver materialmente consegnate al Farina e chi sia il destinatario finale di tali somme;
j) se tali somme siano state prelevate dal bilancio dello Stato, di altro ente pubblico o dello stesso SISMI, ovvero provengano da soggetti terzi diversi o da soggetti estranei alla P.A.;
k) se tali somme siano state erogate e pagate da un soggetto italiano o straniero;
l) sulla finalità sottesa a tali erogazioni e sul beneficiario delle relative somme;
m) se tali erogazioni siano state effettuate, a titolo di rimborso spese, in relazione a specifiche operazioni autorizzate dal Governo in cui sia stato in alcun modo coinvolto Renato Farina: su chi possa aver interessato, al riguardo, il Farina e sulle ragioni di tale interessamento verso la sua persona;
n) sulla natura e sull’oggetto di tali operazioni. Sugli Organi che le avevano richieste, disposte e/o autorizzate;
o) se tali operazioni attenessero ad accertamenti ed indagini relativi alla cattura e/o all’omicidio di ostaggi italiani in Iraq od al reperimento di documentazione da produrre, in proposito, ad Autorità italiane competenti. Se tali operazioni inoltre riguardassero il periodo in cui sono state condotte operazioni politico/militari in Iraq ed in riferimento alla presenza italiana e/o di italiani in quel paese, al tempo della c.d. “seconda guerra del golfo”».
Il Giudice dell’udienza preliminare, con nota del 4 maggio 2015, aveva quindi informato il Presidente del Consiglio dei ministri della nuova opposizione del segreto di Stato, chiedendo la conferma della sua esistenza.
In risposta all’interpello, il Presidente del Consiglio dei ministri, con nota del 4 giugno 2015, aveva rappresentato che i fatti e i temi di prova in esso indicati risultavano «compresi nella sfera di efficacia di segreti di Stato già vigenti, in ragione di determinazioni di apposizione o di conferma adottate in passato dai [suoi] predecessori».
Ciò nonostante, nel corso dell’udienza preliminare del 16 luglio 2015, il pubblico ministero aveva concluso insistendo nel chiedere il rinvio a giudizio degli imputati per il delitto di peculato, sul presupposto della piena utilizzabilità degli elementi di prova presenti in atti (documenti e prove dichiarative), dai quali risulterebbe un rapporto diretto tra il Pompa e il Pollari in ordine all’attività svolta da quest’ultimo mediante l’utilizzazione di risorse umane, finanziarie e materiali del SISMI (e, in particolare, della sede di Via Nazionale, che si asserisce gestita dal Pompa). Alla luce della trascrizione della fonoregistrazione dell’udienza, la tesi del pubblico ministero si baserebbe sull’assunto che il rapporto in questione non sarebbe affatto coperto da segreto di Stato.
1.2– Ad avviso del ricorrente, la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati risulterebbe lesiva delle attribuzioni costituzionali del Presidente del Consiglio dei ministri in materia di tutela del segreto di Stato.
Il conflitto sarebbe senz’altro ammissibile sotto il profilo soggettivo, dovendo reputarsi pacifiche, alla luce della giurisprudenza costituzionale, sia la legittimazione attiva del ricorrente, quale potere dello Stato abilitato a difendere la predetta sfera di attribuzioni; sia la legittimazione passiva della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia, quale organo competente a manifestare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, in quanto direttamente investito delle funzioni previste dall’art. 112 Cost., e dunque gravato dell’obbligo di esercitare l’azione penale e le attività di indagine a questa finalizzate.
Egualmente indubbia risulterebbe l’ammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo. Il ricorso sarebbe volto, infatti, a salvaguardare l’integrità delle attribuzioni costituzionali del Presidente del Consiglio dei ministri nell’esercizio dell’attività politica volta alla tutela della sicurezza dello Stato, concretatasi, nella specie, nella conferma del segreto di Stato su tutti i fatti e temi di prova indicati nell’atto di interpello del Giudice dell’udienza preliminare: attribuzioni che risulterebbero lese dalla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero, in quanto basata sull’utilizzazione di elementi di prova coperti da segreto.
Quanto al merito, il ricorrente rammenta come la Corte costituzionale abbia costantemente fondato, fin dalla sentenza n. 86 del 1977, la legittimità costituzionale dell’istituto del segreto di Stato sulla sua preordinazione alla tutela dei supremi valori dell’esistenza, dell’integrità e dell’essenza dello Stato democratico: valori posti al vertice di quelli cui poggia la salus rei publicae e, dunque, idonei a giustificare la resistenza di tale presidio rispetto ad altri interessi, pur costituzionalmente tutelati, quali quelli connessi all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Nella medesima fondamentale sentenza dianzi citata, la Corte ha individuato, altresì, nel Presidente del Consiglio dei ministri, quale organo responsabile della politica generale del Governo ai sensi dell’art. 95 Cost., il titolare del potere di segretazione: potere di natura squisitamente politica, il cui esercizio soggiace all’esclusivo controllo del Parlamento, dinanzi al quale il Governo è politicamente responsabile (art. 94 Cost.).
Il Parlamento italiano, dapprima con la legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato) e, quindi, con la legge n. 124 del 2007, ha disciplinato la materia facendo puntuale applicazione delle indicazioni della Corte.
In particolare, l’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della legge n. 124 del 2007, demanda al Presidente del Consiglio dei ministri l’apposizione e la tutela del segreto di Stato, nonché la sua conferma. L’art. 39 delimita l’area degli atti, dei documenti, delle notizie e delle attività coperti da segreto. Il successivo art. 40, sostituendo l’art. 202 cod. proc. pen., disciplina la tutela del segreto sul versante processuale penale, imponendo ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio di astenersi dal deporre su fatti coperti da segreto di Stato (comma 1); facendo obbligo all’autorità giudiziaria dinanzi alla quale venga opposto, da parte di un testimone, un segreto di Stato di informarne il Presidente del Consiglio dei ministri, sospendendo ogni iniziativa volta all’acquisizione della notizia oggetto del segreto (comma 2); regolando la procedura volta all’acquisizione della conferma del segreto e le conseguenze della conferma, nel senso di prevedere che, laddove la conoscenza di quanto coperto dal segreto sia essenziale per la definizione del processo, il giudice deve dichiarare non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, e consentendo comunque all’autorità giudiziaria di procedere in base ad elementi autonomi dagli atti, documenti e cose coperti da segreto (commi 3, 4, 5 e 6).
L’art. 41 vieta, a sua volta, ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato, ribadendo l’obbligo dell’autorità giudiziaria, dinanzi alla quale, nel corso di un processo penale, sia opposto il segreto di Stato, di informarne il Presidente del Consiglio dei ministri (comma 1), e regolando in modo similare la richiesta di conferma e le conseguenze di quest’ultima, in particolare quanto all’inibizione, per l’autorità giudiziaria, di acquisire e utilizzare, anche indirettamente, le notizie coperte da segreto (commi 3, 5 e 6).
Alla luce di tale quadro normativo, l’illegittimità della richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura della Repubblica di Perugia risulterebbe evidente.
Il segreto di Stato opposto dall’imputato Pollari ha infatti ad oggetto, tra l’altro, la funzione della sede di via Nazionale in Roma, le persone che vi operavano o la usavano e le attività ivi espletate. Avendo il Presidente del Consiglio dei ministri confermato l’esistenza del segreto su tutte le circostanze indicate nel predetto atto di interpello, apparirebbe chiara l’infondatezza dell’assunto del pubblico ministero, secondo il quale il rapporto diretto tra gli imputati Pollari e Pompa, riguardo alle attività che il Pompa avrebbe compiuto utilizzando risorse del SISMI – e, in particolare, la sede di via Nazionale – non sarebbe coperto da segreto: trattandosi, al contrario, di circostanza agevolmente riconducibile al tema di prova di cui alla lettera f) dell’atto di interpello.
L’utilizzazione, da parte del pubblico ministero, degli elementi di prova concernenti il suddetto rapporto si risolverebbe, quindi, in una inammissibile sostituzione dell’autorità giudiziaria all’autorità politica nella concreta determinazione di ciò che costituisce oggetto del segreto di Stato in relazione alla vicenda processuale in questione, ponendosi, altresì, in aperto contrasto con il ricordato divieto di acquisizione e utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto, sancito dall’art. 41, comma 5, della legge n. 124 del 2007.
Il ricorrente chiede, pertanto, alla Corte di dichiarare che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia chiedere il rinvio a giudizio degli imputati per il reato di peculato aggravato continuato, di cui al capo A) dell’imputazione, sulla base degli elementi di prova presenti in atti concernenti il rapporto diretto tra gli imputati Pollari e Pompa in relazione all’attività ascritta a quest’ultimo, e, conseguentemente, di annullare detta richiesta.
2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile con l’ordinanza n. 217 del 2016 e poi novamente depositato dall’Avvocatura generale dello Stato presso la cancelleria della Corte, con la prova della rituale notifica, il 9 novembre 2016.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia non si è costituita.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Perugia, in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio degli imputati Nicolò Pollari e Pio Pompa per il reato di peculato aggravato continuato, di cui al capo A) dell’imputazione, formulata nell’ambito del procedimento penale n. 02/15 R.G. Dib. e n. 5970/09 R.G. P.M., pendente davanti al Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale.
2.– Giova preliminarmente riepilogare, nei suoi termini essenziali, la vicenda che ha dato origine al conflitto, quale emerge dalle deduzioni e dalle produzioni documentali del ricorrente, nonché dalla ricostruzione già operata da questa Corte nella sentenza n. 40 del 2012, richiamata dal ricorrente stesso.
Alla base della vicenda vi è la perquisizione e il conseguente sequestro di documenti, effettuati il 5 luglio 2006 su disposizione della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano nell’ambito delle indagini relative al sequestro di persona in danno di Osama Mustafa Nasr (alias Abu Omar), presso uno stabile di Via Nazionale in Roma, individuato come una sede del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI).
La perquisizione portava alla scoperta di un’attività di raccolta e di elaborazione di informazioni sulle iniziative, sui contatti e sugli orientamenti politici di magistrati, funzionari statali, giornalisti e parlamentari, nonché sulle iniziative di movimenti sindacali e associazioni di magistrati, finalizzata, secondo gli inquirenti, a consentire campagne di discredito nei confronti di soggetti considerati “ostili” alla maggioranza di governo dell’epoca.
Su tale presupposto, la Procura della Repubblica di Perugia procedeva ad indagini preliminari nei confronti dell’ex direttore del SISMI Nicolò Pollari e di Pio Pompa, già collaboratore e poi dipendente del Servizio, identificato come gestore della sede di Via Nazionale, in relazione a due ipotesi di reato.
Agli indagati veniva addebitato, in primo luogo, il delitto di peculato aggravato continuato, per essersi avvalsi, in concorso tra loro, di somme e di risorse umane e materiali del SISMI per scopi estranei a quelli istituzionali del Servizio, quale l’anzidetta attività di “dossieraggio”, acquisendo anche informazioni sulle indagini in corso a Milano sul sequestro Abu Omar a mezzo del giornalista Renato Farina, dietro versamento di un compenso di almeno 30.000 euro.
Ai due indagati era contestato, altresì, il reato di violazione di corrispondenza aggravata continuata, per aver preso cognizione, in concorso tra loro, della corrispondenza informatica interna all’associazione Magistrats européens pour la démocratie et les libertés (MEDEL).
In sede di interrogatorio, entrambi gli indagati opponevano, tuttavia, che, per difendersi compiutamente dalle accuse loro mosse, avrebbero dovuto rivelare notizie coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del Servizio.
Di fronte a ciò, il pubblico ministero chiedeva al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), di confermare l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, la cui conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del procedimento: conferma che interveniva – nei termini che si accenneranno subito appresso – con note del 3 e 22 dicembre 2009.
Ritenendo che gli elementi acquisiti e non coperti da segreto fossero idonei, comunque sia, a sostenere l’accusa in giudizio, il pubblico ministero formulava, il 29 dicembre 2009, richiesta di rinvio a giudizio degli imputati.
Investito della richiesta, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Perugia sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione alle predette note di conferma del segreto: conflitto che veniva deciso da questa Corte con la sentenza n. 40 del 2012, nel senso della spettanza al Presidente del Consiglio dei ministri del potere di emetterle.
Nell’occasione, questa Corte escludeva, tra l’altro, che costituisse motivo di illegittimità degli atti censurati il denunciato difetto di sintonia tra il tenore della conferma del segreto e quello dell’atto di interpello: vale a dire il fatto che – di fronte alla richiesta di confermare il segreto di Stato riguardo al “se” il SISMI avesse finanziato la sede di Via Nazionale e retribuito il Pompa e altra persona – il Presidente del Consiglio dei ministri avesse confermato invece il segreto in relazione a «modi e forme» dei finanziamenti e delle retribuzioni. Posto, infatti, che l’interpello, per i termini in cui era formulato, appariva riferibile tanto all’esistenza dei finanziamenti e delle retribuzioni, quanto alle relative modalità, la circostanza che il Capo dell’esecutivo avesse confermato il segreto «sul quomodo, e non anche sull’an», comportava semplicemente «che solo in rapporto al primo operi lo “sbarramento” all’esercizio dei poteri dell’autorità giudiziaria conseguente alla conferma».
Di seguito alla pronuncia di questa Corte, il Giudice dell’udienza preliminare, con sentenza del 1° febbraio 2013, dichiarava il non luogo a procedere nei confronti degli imputati in ordine al reato di peculato, per l’esistenza del segreto di Stato, e in ordine al reato di violazione di corrispondenza, perché estinto per prescrizione.
In accoglimento del ricorso proposto dal pubblico ministero, la sentenza veniva, tuttavia, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione limitatamente alla statuizione relativa al peculato (sesta sezione penale, sentenza 13 novembre 2014-13 gennaio 2015, n. 1198), non avendo essa chiarito perché, ai fini dell’accertamento di tale delitto, non sarebbe bastata la dimostrazione dell’origine pubblica delle risorse impiegate dagli imputati in attività non istituzionali, ma sarebbe occorsa la prova delle modalità della loro erogazione.
Tornato il processo davanti al Giudice dell’udienza preliminare, il Pollari chiedeva di essere sottoposto ad esame e, in tale sede, tornava ad opporre il segreto di Stato su una ulteriore serie di fatti e di temi di prova, attinenti alla stessa riferibilità al SISMI, ovvero ad altro soggetto, anche straniero o privato, della sede di Via Nazionale e, correlativamente, alla natura pubblica, privata o estera dei relativi finanziamenti, nonché alla provenienza delle somme erogate al Farina e alle finalità di tale erogazione (riguardo alla quale veniva prospettato un possibile collegamento con operazioni inerenti alla cattura e all’uccisione di ostaggi italiani in Medio Oriente).
Il Giudice informava, quindi, il Presidente del Consiglio dei ministri della nuova opposizione del segreto di Stato, chiedendo la conferma della sua esistenza.
Con nota del 4 giugno 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri rispondeva all’interpello in senso affermativo, rappresentando che i fatti e i temi di prova in esso indicati risultavano «compresi nella sfera di efficacia di segreti di Stato già vigenti, in ragione di determinazioni di apposizione o di conferma adottate in passato dai [suoi] predecessori» (determinazioni elencate nell’atto).
Alla successiva udienza preliminare del 16 luglio 2015, il pubblico ministero, rassegnando le proprie conclusioni ai sensi dell’art. 421 cod. proc. pen., insisteva, nondimeno, nel chiedere il rinvio a giudizio degli imputati per il delitto di peculato (unica imputazione rimasta). Il rappresentante della pubblica accusa assumeva, in particolare, a sostegno della sua richiesta, che sarebbe risultato «pacifico», alla luce degli elementi acquisiti, e «non assolutamente coperto da segreto», il «rapporto diretto» tra il Pompa e il direttore del SISMI Nicolò Pollari: rapporto dal quale avrebbe potuto desumersi la riferibilità al secondo delle attività svolte dal primo.
3.– È qui che si innesta l’odierno conflitto. Con ricorso depositato il 31 agosto 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri impugnava la «richiesta di rinvio a giudizio» della Procura della Repubblica di Perugia, ritenendola lesiva delle proprie attribuzioni in materia di tutela del segreto di Stato: attribuzioni desumibili – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – dagli artt. 1, 5, 52, 94 e 95 della Costituzione, e regolate, a livello di legislazione ordinaria, da varie disposizioni della legge n. 124 del 2007 (in particolare, dai suoi artt. 1, comma 1, lettere b e c, 39, 40 – che ha sostituito l’art. 202 del codice di procedura penale – e 41). Ciò, in quanto detta richiesta risulterebbe fondata sull’utilizzazione di elementi di prova relativi a temi ricompresi fra quelli sui quali era stato ritualmente opposto e confermato il segreto di Stato.
4.– Come dedotto e documentato anche dall’Avvocatura generale dello Stato in udienza pubblica, successivamente al deposito del ricorso il processo penale a carico del Pollari e del Pompa ha avuto ulteriori sviluppi.
Con sentenza del 16 settembre 2015 (depositata il successivo 9 ottobre), il Giudice dell’udienza preliminare, disattendendo la richiesta di rinvio a giudizio, ha infatti dichiarato il non luogo a procedere nei confronti degli imputati.
Il Giudice perugino ha ritenuto, in specie, che i fatti contestati a questi ultimi a titolo di peculato dovessero essere distinti in tre gruppi: quelli inerenti al reperimento di notizie dalle cosiddette «fonti aperte»; quelli relativi al reperimento di notizie da informatori dietro erogazione di compensi imprecisati; quello concernente il pagamento di 30.000 euro al Farina. I fatti dei primi due gruppi sono stati riqualificati come delitti di abuso di ufficio e in relazione ad essi il Giudice dell’udienza preliminare ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per essere il reato estinto per prescrizione. Con riguardo, invece, all’episodio relativo al versamento di somme al Farina, ferma restando la sua qualificazione come delitto di peculato, il Giudice ha dichiarato non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato, ritenendo che quest’ultimo osti – non già alla sostenibilità dell’accusa in giudizio – ma all’esercizio del diritto di difesa degli imputati in ordine al tema probatorio della provenienza dei fondi erogati.
Il pubblico ministero ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza, ma ha poi rinunciato all’impugnazione. Di conseguenza, la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso (sezione seconda penale, sentenza 17 maggio-29 settembre 2016, n. 40814), rendendo così definitiva la pronuncia di non luogo a procedere.
5.– Le circostanze ora riferite – come sostenuto anche dall’Avvocatura generale dello Stato in udienza pubblica – non determinano la cessazione della materia del contendere.
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare, infatti, che, nei conflitti di attribuzione, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere si impone solo quando l’atto impugnato risulti annullato con efficacia ex tunc, facendo implicitamente venir meno le affermazioni di competenza “fonti” del conflitto e privando il ricorrente dell’interesse ad ottenere una decisione sull’appartenenza del potere contestato, laddove invece il semplice esaurimento degli effetti dell’atto impugnato non basta a far cessare il dibattito circa la spettanza del potere (sentenza n. 150 del 1981).
Più in generale, si è rilevato, poi, che «il giudizio per conflitto è diretto a definire l’ambito delle sfere di attribuzione dei poteri confliggenti al momento della sua insorgenza, restando di regola insensibile agli sviluppi successivi delle vicende che al conflitto abbiano dato origine» (sentenza n. 106 del 2009).
Nella specie, risulta peraltro dirimente già il solo rilievo che, per due dei tre gruppi di fatti raccolti sotto il capo di imputazione relativo al peculato, il proscioglimento è stato pronunciato per prescrizione, e non già per l’esistenza del segreto di Stato. Ma, anche con riguardo all’ultimo fatto, v’è da osservare che la pronuncia di non luogo a procedere promana da un organo (il giudice dell’udienza preliminare) distinto – sul piano dell’articolazione dei poteri dello Stato – da quello (il pubblico ministero) che avrebbe adottato l’atto lesivo delle attribuzioni costituzionali del ricorrente, e non ne implica la rimozione.
6.– Ciò posto, il ricorso è tuttavia inammissibile.
Nella parte conclusiva dell’atto introduttivo del giudizio, il ricorrente indica, come oggetto tanto della richiesta della dichiarazione di non spettanza, quanto di quella di annullamento, la «richiesta di rinvio a giudizio».
In senso proprio e tecnico, detta formula evoca l’atto tipico di esercizio dell’azione penale, posto in essere dal pubblico ministero a chiusura delle indagini preliminari, ai sensi degli artt. 405 e 416 cod. proc. pen. Nel caso di specie, peraltro, tale atto rimonta al 29 dicembre 2009: dunque, a data anteriore di quasi sei anni rispetto a quella di introduzione del presente giudizio (31 agosto 2015).
La circostanza non sarebbe, di per sé, preclusiva della proposizione del ricorso. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato non è, infatti, soggetto ad alcun termine perentorio (sentenza n. 116 del 2003): né, d’altra parte, il lungo tempo trascorso può essere assunto, di per sé, come dato rivelatore della carenza dell’interesse a ricorrere (sentenze n. 58 del 2004 e n. 263 del 2003).
Plurimi elementi rivelano, tuttavia, come il conflitto in esame si rivolga, non contro l’originario atto di esercizio dell’azione penale, ma contro l’“insistenza” del pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio in sede di precisazione delle conclusioni nell’udienza preliminare del 16 luglio 2015, immediatamente a valle della quale si colloca la proposizione del ricorso.
Milita in questa direzione, anzitutto, lo stesso dato cronologico, rapportato allo sviluppo della vicenda processuale. La richiesta di rinvio a giudizio del 29 dicembre 2009 non venne all’epoca impugnata dal Presidente del Consiglio dei ministri con lo strumento del conflitto. Fu, al contrario – come si è visto – il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Perugia a sollevare conflitto di attribuzione nei suoi confronti, in relazione alle note di conferma del segreto di Stato del 3 e 22 dicembre 2009: conflitto risolto da questa Corte con la sentenza n. 40 del 2012 a favore del Presidente del Consiglio dei ministri. Quest’ultimo ha proposto l’odierno conflitto solo dopo che, nel 2015, tornato il processo davanti al Giudice dell’udienza preliminare a seguito dell’annullamento con rinvio della Corte di cassazione, si è innescata una nuova sequenza di opposizione e conferma del segreto di Stato, non “recepita”, in tesi, dal pubblico ministero nel formulare le sue conclusioni nella (nuova) udienza preliminare.
Significativa appare, altresì, la circostanza che la richiesta di rinvio a giudizio del 2009 non è stata prodotta dal ricorrente. Figura, invece, tra gli atti allegati al ricorso la trascrizione della fonoregistrazione dell’udienza preliminare del 16 luglio 2015, recante le conclusioni prese in tale occasione dal pubblico ministero.
Decisivo risulta, in ogni caso, il tenore delle doglianze. Il ricorrente si duole, in effetti, del fatto che, nell’udienza preliminare in questione, il pubblico ministero abbia concluso insistendo nel chiedere il rinvio a giudizio degli imputati «sul presupposto della piena utilizzabilità degli elementi di prova presenti in atti (documenti e prove dichiarative) dai quali risulterebbe un rapporto diretto tra l’imputato Pompa e l’imputato Pollari in ordine all’attività svolta da quest’ultimo, mediante l’utilizzazione di risorse umane, finanziarie e materiali del SISMI (in particolare della sede di via Nazionale, asseritamente gestita dallo stesso imputato Pompa)»: rapporto che – secondo il rappresentante della pubblica accusa – non sarebbe coperto da segreto di Stato. Ad avviso del ricorrente, la tesi del pubblico ministero sarebbe del tutto infondata, essendo il suddetto rapporto agevolmente riconducibile al tema di prova di cui alla lettera f) [recte: d)] dell’atto di interpello che ha dato luogo alla conferma del segreto da parte del Presidente del Consiglio dei ministri con la citata nota del 4 giugno 2015: tema concernente la funzione della sede di Via Nazionale, le attività in essa svolte e le persone che vi operavano.
Appare evidente come una simile censura non sia riferibile alla richiesta di rinvio a giudizio, tecnicamente intesa, del 29 dicembre 2009, anteriore di cinque anni e mezzo al predetto atto di conferma del segreto. All’epoca, il solo atto di conferma del segreto era quello espresso dalle note del 3 e 22 dicembre 2009, già scrutinato da questa Corte con la sentenza n. 40 del 2012 e, per quanto si è visto, di diverso tenore.
7.– È in questa prospettiva che il ricorso si palesa dunque carente dei requisiti di ammissibilità tanto soggettivo, quanto oggettivo.
Questa Corte ha riconosciuto, con giurisprudenza costante, al pubblico ministero la natura di potere dello Stato – legittimato, come tale, ad essere parte (attiva o passiva) di un conflitto di attribuzione – in quanto (e solo in quanto) investito dell’attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2013, n. 88 e n. 87 del 2012; ordinanze n. 218 del 2012, n. 241 e n. 104 del 2011, n. 276 del 2008 e n. 124 del 2007). Funzione con riferimento alla quale il pubblico ministero, organo non giurisdizionale, deve ritenersi competente a dichiarare definitivamente, in posizione di piena indipendenza, la volontà del potere giudiziario cui appartiene, come richiesto dall’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (sentenze n. 420 del 1995, n. 464, n. 463 e n. 462 del 1993).
In quest’ottica, la Corte ha ritenuto senz’altro ammissibile il conflitto di attribuzione proposto contro il pubblico ministero sia in relazione agli atti tipici di esercizio dell’azione penale – quali la richiesta di rinvio a giudizio (sentenze n. 88 del 2012 e n. 410 del 1998) o la richiesta di giudizio immediato (sentenza n. 87 del 2012) – o alla decisione di non esercitarla (richiesta di archiviazione: sentenza n. 487 del 2000); sia in relazione alle attività investigative compiute dall’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari (sentenze n. 1 del 2013, n. 88 e n. 87 del 2012; ordinanza n. 232 del 2003). E ciò anche in rapporto ad esigenze di difesa del segreto di Stato (sentenze n. 106 del 2009, n. 487 del 2000, n. 410 e n. 110 del 1998).
Il discorso è, però, diverso con riguardo agli atti del pubblico ministero successivi all’esercizio dell’azione penale e interni al processo con essa promosso (quale, nella specie, la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare).
Con riguardo a giudizi in via incidentale, questa Corte ha, infatti, ripetutamente escluso che simili attività ricadano sotto il cono della previsione dell’art. 112 Cost. (sentenze n. 460 del 1995 e n. 178 del 1991; ordinanza n. 312 del 2000), non potendo essere configurate come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (con particolare riguardo alle impugnazioni, ex plurimis, sentenze n. 242 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007 e n. 280 del 1995). Conclusione a cui sostegno militano anche i lavori preparatori della Costituzione, dai quali «risulta che la costituzionalizzazione dell’obbligo di esercitare l’azione penale fu trattata sotto i tre seguenti profili: rapporti del pubblico ministero con il potere esecutivo nel momento iniziale dell’azione penale; possibilità di prevedere eccezioni a tale obbligo nel senso di possibili sospensioni o ritardi nel suo esercizio; controllo del giudice sui possibili casi di mancata attivazione del pubblico ministero nei confronti di una determinata notitia criminis. Tutti argomenti attinenti al momento iniziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi» (sentenza n. 280 del 1995).
Per quanto specificamente attiene al caso in esame, la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare è atto espressivo, non dell’attribuzione costituzionale prevista dall’art. 112 Cost., ma delle tesi dell’organo dell’accusa in ordine alla regiudicanda (nella specie, riguardo al fatto che, anche dopo la nuova opposizione del segreto di Stato da parte di uno degli imputati e la sua conferma da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, sussistessero i presupposti per il rinvio a giudizio); tesi, come tali, carenti anche del connotato dell’idoneità lesiva, che pure condiziona, sul piano oggettivo, l’ammissibilità del conflitto tra poteri (ex plurimis, sentenza n. 463 del 1993; ordinanze n. 121 del 2011, n. 120 del 2009 e n. 398 del 1999).
D’altra parte, se anche le conclusioni del pubblico ministero fossero a favore dell’accusato, ciò non equivarrebbe certamente ad una rinuncia all’azione penale esercitata (che è irretrattabile), né le conclusioni vincolerebbero il giudice.
Sulla base di considerazioni similari, mutatis mutandis, questa Corte ha, del resto, già dichiarato inammissibile, con sentenza n. 163 del 2001, il conflitto tra enti proposto da una Regione, a tutela della garanzia dell’insindacabilità di un suo consigliere ai sensi dell’art. 122, quarto comma, Cost., nei confronti di un atto di impugnazione del pubblico ministero (nella specie, l’appello contro una sentenza assolutoria). Il conflitto è stato dichiarato inammissibile per difetto del requisito oggettivo, avendo la Corte rilevato che il suddetto atto di appello «è privo di qualsiasi portata “esterna” rispetto allo specifico alveo processuale in cui si iscrive; esso esprime soltanto l’esercizio del diritto di reclamo che l’ordinamento assicura, “nel” e “per” il processo, a tutte le parti, pubbliche o private che siano. L’impugnazione, infatti, qualunque sia il soggetto legittimato a proporla, ha come termine oggettivo di riferimento, non la posizione delle parti in quanto tali, ma unicamente la statuizione giurisdizionale avverso la quale si reclama. Sicché, è la statuizione in sé – e non certo l’atto di gravame – ad essere se mai potenzialmente suscettibile di assumere quella rilevanza esterna al processo, idonea a perturbare la sfera delle attribuzioni costituzionalmente riservate ad enti o poteri dello Stato». Si è ritenuta, peraltro, significativa anche la circostanza che la «Corte – mentre ha ritenuto il pubblico ministero legittimato a sollevare conflitto di attribuzione quale “potere”, allorché venga in discorso l’indipendenza nell’espletamento delle proprie attribuzioni finalizzate all’obbligatorio esercizio della azione penale […] – ha escluso che “il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado” possa ritenersi “riconducibile all’obbligo di esercitare l’azione penale”» (sentenza n. 163 del 2001).
Quanto affermato in relazione all’appello della pubblica accusa (che è atto che condiziona direttamente, comunque sia, la vicenda processuale, impedendo il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado), non può non valere, a fortiori, per la precisazione delle conclusioni in sede di udienza preliminare (che non ha nemmeno quell’effetto).
8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, il conflitto va dichiarato, dunque, inammissibile.