SENTENZA N. 228
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Sabino CASSESE; Giudici : Giuseppe TESAURO, Paolo NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), promosso dalla Commissione tributaria regionale per il Lazio nel procedimento vertente tra D.R. ed altra, in proprio e nella qualità di associati dello “Studio legale Delfino” e l’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Viterbo, con ordinanza del 10 giugno 2013, iscritta al n. 238 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2014 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 giugno 2013 la Commissione tributaria regionale per il Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005).
Oggetto del giudizio sono tre avvisi di accertamento emessi in relazione all’anno d’imposta 2004, in relazione ai quali vi è l’accertamento del maggiore imponibile ai fini IRPEF e IRAP basato sulla disposizione di cui all’art. 32, comma 1, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo risultante dopo le modificazioni introdotte dall’art. 1 della legge n. 311 del 2004.
La disposizione censurata così recita: «I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni».
2.– Le censure del giudice rimettente investono la seconda parte della norma.
Rileva il giudice a quo che l’art. 1 della legge n. 311 del 2004, inserendo nel corpo di tale parte della disposizione le parole «o compensi», ha esteso ai lavoratori autonomi l’ambito operativo della presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente (così come quelle su questo versate) costituiscono compensi assoggettabili a tassazione, se non sono annotate nelle scritture contabili e se non sono indicati i soggetti beneficiari dei pagamenti.
La disposizione censurata, se applicata agli anni d’imposta in corso o anteriori alla novella legislativa, comporterebbe per i contribuenti professionisti un onere probatorio imprevedibile e impossibile da assolvere, in contrasto con l’art. 24 della Costituzione e con il principio di tutela dell’affidamento richiamato dall’art. 3, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).
Essa violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., alla luce di entrambe le letture di cui la norma è passibile: la prova contraria che incombe sul contribuente o richiederebbe necessariamente anche la giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura piana del testo normativa»; oppure dovrebbe ritenersi soddisfatta «con la mera indicazione del beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale quanto inutile sul piano dell’accertamento dei maggiori redditi».
La disposizione, se applicata a prelevamenti anteriori alla data di entrata in vigore della legge n. 311 del 2004, lederebbe, inoltre, l’art. 111 Cost., in quanto con la legge del 2004 sarebbero stati introdotti effetti «a sorpresa» a vantaggio dell’Agenzia delle entrate e a danno dei contribuenti, con violazione del principio di parità delle parti.
Infine, la presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente costituiscono compensi assoggettabili a tassazione violerebbe il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., oltre che l’art. 3 Cost., e ciò in quanto per il reddito da lavoro autonomo non varrebbero le correlazioni logicopresuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d’impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto oggettivamente estraneo all’attività di produzione del reddito professionale».
3.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per la declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
La disposizione impugnata, in primo luogo, non lederebbe il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.
L’art. 1 della legge n. 311 del 2004, con riferimento all’art. 32, comma 1, numero 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, si sarebbe, infatti, limitato a chiarire un dato già insito nella precedente formulazione della norma, espressamente sancendo che la presunzione di imponibilità delle operazioni di addebito/prelevamenti si applica anche ai lavoratori autonomi. D’altro canto, tale presunzione sarebbe ispirata dalla volontà del legislatore di valorizzare l’analisi, da parte dell’ufficio accertatore, della maggiore capacità di spesa, comunque manifestata e non giustificata dal lavoratore autonomo, e di correlare tale maggiore capacità con le ulteriori operazioni attive anch’esse effettuate presuntivamente “in nero”, nell’ambito della specifica attività esercitata.
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, inoltre, il fondamento economico-contabile sotteso al meccanismo presuntivo, che si basa per le imprese prevalentemente sull’acquisto e vendita di beni, sarebbe configurabile anche per i lavoratori autonomi. Infatti, anche per esercitare attività professionali sarebbe necessario l’acquisto di beni o comunque di servizi per rendere prestazioni, anche di natura complessa.
Sussisterebbero, quindi, entrambi i presupposti di legittimità costituzionale delle presunzioni in materia fiscale, e cioè che l’indice noto da cui si desume il fatto ignoto sia «concretamente rivelatore di ricchezza» (sentenza n. 283 del 1987) e che il «nesso inferenziale risponda a regole di comune esperienza» (sentenza n. 109 del 1967).
Secondo la difesa dello Stato, peraltro, la norma potrebbe – e dovrebbe – essere interpretata nel senso che soltanto movimentazioni di un certo importo possono assumere valenza presuntiva, come confermato dalla prassi applicativa dell’Amministrazione finanziaria e, in particolare, dalla circolare 19 ottobre 2006, n. 32/E dell’Agenzia delle entrate, Direzione centrale accertamento. Del resto, la presunzione de qua avrebbe una ragionevole funzione deterrente mirando a indurre i professionisti, al pari degli imprenditori, a prestare particolare attenzione a una coerente rispondenza tra movimenti bancari, compresi i prelievi in conto corrente, e registrazioni contabili.
Non sussisterebbe, inoltre, il denunciato contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela dell’affidamento. E ciò in considerazione del «diritto vivente» consolidato in anni successivi all’entrata in vigore della disposizione de qua, secondo cui la tesi contraria all’applicabilità della presunzione de qua ai redditi da lavoro autonomo prima della modifica introdotta dalla legge n. 311 del 2004 – pur essendo in astratto sostenibile, facendo leva sul termine «ricavi» – avrebbe dato adito a forti sospetti di incostituzionalità.
Proprio alla luce di tale consolidata giurisprudenza sarebbe, infine, da escludere la denunciata violazione dell’art. 111 Cost., tenuto conto dell’applicabilità della presunzione in esame ai percettori di reddito da lavoro autonomo già in epoca anteriore alla modifica di cui alla legge n. 311 del 2004. Non sarebbe quindi ravvisabile un «ribaltamento dell’onere della prova, avvenuto con legge successiva […] idoneo a provocare degli effetti “a sorpresa”», come erroneamente paventato dal giudice a quo.
4.– In data 21 maggio 2014 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, sostanzialmente ribadendo le proprie argomentazioni ed insistendo sulla giustificazione della presunzione in esame, la quale mirerebbe a reprimere l’evasione tanto del professionista che acquista beni o servizi in nero e quanto del fornitore del professionista stesso.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 10 giugno 2013 la Commissione tributaria regionale per il Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005).
La norma dispone che i dati ed elementi trasmessi su richiesta (ex art. 32, comma 1, numero 7, del d.P.R. n. 600 del 1973), rilevati direttamente (ex art. 33, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 600 del 1973) ovvero nei controlli relativi alle imposte sulla produzione o consumo [ex art. 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative)] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 del medesimo d.P.R. n. 600 del 1973, salvo che il contribuente dimostri che ne ha tenuto conto nella determinazione dei redditi o che essi non hanno rilevanza a tal fine. Prevede, poi, che i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito delle predette operazioni sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti beneficiari e sempreché non risultino dalle scritture contabili.
La presunzione disciplinata da tale ultima parte della norma nella sua originaria formulazione (limitata ai «ricavi») interessava unicamente gli imprenditori, l’art. 1 della legge n. 311 del 2004 (inserendo anche i «compensi») ne ha poi esteso l’ambito operativo ai lavoratori autonomi.
1.1.– La questione sollevata si articola in due gruppi di censure: uno – comprensivo della seconda (artt. 3 e 24 della Costituzione) e della quarta censura (artt. 3 e 53 Cost.) – avente ad oggetto l’estensione della inversione della prova e della presunzione de qua ai compensi dei lavoratori autonomi; l’altro – comprensivo della prima (art. 24 Cost.) e della terza censura (art. 111 Cost.) – avente ad oggetto l’applicazione retroattiva della norma agli anni di imposta precedenti all’entrata in vigore della legge n. 311 del 2004.
Con riferimento al primo gruppo di censure, il giudice rimettente argomenta la violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., oltre che dell’art. 3 Cost., rilevando che per il reddito da lavoro autonomo non varrebbero le correlazioni logicopresuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d’impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto oggettivamente estraneo all’attività di produzione del reddito professionale», idoneo a costituire un «mero indice generale di spesa». Inoltre, la norma censurata sarebbe «irrazionale» qualunque sia la lettura ad essa data tra quelle possibili: o la prova contraria che incombe al contribuente potrebbe ritenersi soddisfatta «con la mera indicazione del beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale quanto inutile sul piano dell’accertamento dei maggiori redditi» oppure – seguendo quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria – richiederebbe necessariamente anche la giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura piana del testo normativo».
Con riferimento al secondo gruppo di censure, il giudice rimettente sostiene che la disposizione impugnata, se applicata agli anni d’imposta in corso o anteriori alla novella legislativa, comporterebbe per i contribuenti professionisti un onere probatorio imprevedibile e impossibile da assolvere, in contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela dell’affidamento, richiamato anche nell’art 3, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), nonché con l’art. 111 Cost. per violazione del principio di parità delle parti.
1.2.– A parere del Presidente del Consiglio dei ministri sussisterebbero entrambi i presupposti di legittimità costituzionale delle presunzioni in materia fiscale richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, e cioè che l’indice noto da cui si desume il fatto ignoto sia «concretamente rivelatore di ricchezza» (sentenza n. 283 del 1987) e che il nesso inferenziale risponda a regole di comune esperienza (sentenza n. 109 del 1967). Del resto, il fondamento economico-contabile sotteso al meccanismo presuntivo sarebbe configurabile anche per i lavoratori autonomi, posto che anche per esercitare attività professionali sarebbe necessario l’acquisto di beni o di servizi, al fine di rendere prestazioni, anche di natura complessa.
Non sussisterebbe, poi, il denunciato contrasto con l’art. 24 Cost. e con il principio di tutela dell’affidamento o con l’art. 111 Cost., in considerazione del «diritto vivente» consolidato in anni successivi all’entrata in vigore della disposizione de qua, secondo cui l’applicabilità della presunzione in esame ai percettori di reddito da lavoro autonomo derivava, già anteriormente alla modifica di cui alla legge n. 311 del 2004, da un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata.
2.– In via preliminare, va rilevata la inammissibilità della seconda censura, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., alla luce del carattere alternativo e ancipite della sua formulazione.
Il giudice rimettente ha infatti sostenuto la natura irrazionale della norma e la sua portata lesiva del diritto di difesa basandosi sulla doppia e alternativa interpretazione che della disposizione può essere data, senza sciogliere tale alternativa e senza porre le due interpretazioni in rapporto di subordinazione logica. L’omissione conferisce carattere ancipite alla prospettazione della censura, oltre a rendere perplessa la motivazione sulla rilevanza, così determinando l’inammissibilità della questione sollevata, sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 280 del 2011 e n. 355 del 2010).
3.– Nel merito la questione è fondata in riferimento alle censure di cui agli artt. 3 e 53 Cost., con conseguente assorbimento di quelle relative agli artt. 24 e 111 Cost.
4.– Anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo.
Secondo tale doppia correlazione, in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati.
Il fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenuto da questa Corte (sentenza n. 225 del 2005) congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi.
L’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo. Tale marginalità assume poi differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali.
4.1.– Si aggiunga che la non ragionevolezza della presunzione è avvalorata dal fatto che gli eventuali prelevamenti (che peraltro dovrebbero essere anomali rispetto al tenore di vita secondo gli indirizzi dell’Agenzia delle entrate) vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria; assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali.
4.2.– Peraltro, l’esigenza di combattere un’evasione fiscale ritenuta rilevante nel settore trova una risposta nella recente produzione normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari. Si pensi, da ultimo, al decreto del Ministro dello sviluppo economico 24 gennaio 2014 (Definizioni e ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di debito), che ha dato attuazione all’art. 15, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, della legge 17 dicembre 2012, n. 221, alla cui stregua dal 1° gennaio 2014 vi è l’obbligo – sia pure sprovvisto di sanzioni – di accettare pagamenti, di importo superiore a trenta euro, effettuati con carte di debito in favore di imprese e professionisti per l’acquisto di prodotti o per la prestazione di servizi.
La tracciabilità del danaro, oltre ad essere uno strumento di lotta al riciclaggio di capitali di provenienza illecita, persegue il dichiarato fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale attraverso la limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che si possono prestare ad operazioni “in nero”.
5.– Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), limitatamente alle parole «o compensi».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 ottobre 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI