SENTENZA N. 175
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Paolo MADDALENA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, e 24, primo comma, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), come novellato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con una ordinanza del 6 aprile 2010 e con quattro ordinanze dell’8 aprile 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 217, 218, 219, 220 e 221 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione di M. G. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2011 e nella camera di consiglio del 20 aprile 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con le cinque ordinanze di analogo tenore indicate in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 41, 97 e 117 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo comma, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), come novellato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n.112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n.180, nella parte in cui essi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, costituente “diritto vivente”, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione alla professione forense possano essere motivati con l’attribuzione di un mero punteggio numerico.
1.1. — In ciascuna ordinanza il rimettente premette che, nei giudizi a quibus, alcuni partecipanti alle prove scritte dell’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense nella sessione 2008, presso la Corte d’appello di Milano, hanno impugnato, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, i rispettivi provvedimenti di non ammissione alle prove orali, deducendo la insufficienza della mera votazione numerica (senza segni grafici che ponessero in evidenza le parti non positivamente valutate dalla commissione) e la impossibilità di ricostruzione dell’iter logico attraverso il quale le commissioni erano addivenute a valutazioni negative; che, in ogni giudizio, si è costituito il Ministero della giustizia chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata; che il Tribunale amministrativo ha accolto la domanda cautelare dei ricorrenti, al fine di consentire loro lo svolgimento delle prove orali.
1.2. — Sotto il profilo della rilevanza delle questioni, il giudice a quo osserva che, alla luce del quadro normativo in tema di svolgimento dell’esame di ammissione alla professione di avvocato, i ricorsi dovrebbero essere respinti.
Dopo avere riportato il contenuto delle norme censurate, sottolinea come, secondo l’orientamento ormai costante del Consiglio di Stato, non sarebbe necessario che la commissione esaminatrice supporti l’indicazione del voto numerico con un’ulteriore motivazione.
In particolare, in base al suddetto indirizzo giurisprudenziale, la motivazione espressa numericamente rappresenterebbe in sé una «motivazione sintetica», idonea a rendere palese la valutazione compiuta dalla commissione, esternata attraverso la graduazione del voto e la omogeneità del giudizio attribuito all’elaborato dai suoi componenti in base a criteri predeterminati.
Ciò sarebbe sufficiente a consentire il sindacato giurisdizionale sul provvedimento di non ammissione alle prove orali, nel caso di discordanza di giudizi tra i commissari e di contraddizione, nella attribuzione del voto, tra specifici ed obiettivi elementi di fatto e i criteri di massima prestabiliti dalla commissione esaminatrice.
Il rimettente ricorda che questa Corte, dando atto dell’esistenza di un diverso orientamento della giurisprudenza, propenso ad ammettere la necessità della motivazione del voto numerico, ha dichiarato (con ordinanze n. 28 del 2006, n. 419 del 2005, n. 233 del 2001 e n. 466 del 2000) manifestamente inammissibili, in quanto finalizzate ad ottenere un avallo interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale della disciplina de qua, per assunto contrasto con i principi di imparzialità della pubblica amministrazione e di tutela giurisdizionale in relazione agli atti di essa.
Successivamente la Corte, considerando ormai «diritto vivente» l’indirizzo giurisprudenziale a sostegno della sufficienza del punteggio numerico, ha, con sentenza n. 20 del 2009, dichiarato non fondata la medesima questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 113, primo comma, e 117, primo comma, Cost., in quanto i parametri evocati erano volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi (artt. 24 e 113), nonché ad assicurare la parità delle parti nel processo (art. 111), in coerenza con i principi espressi nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 117, primo comma), cioè garanzie non messe in discussione dalle norme in questione.
1.3. — Di qui la nuova proposizione della medesima questione, alla luce di diversi parametri concernenti gli aspetti sostanziali dell’esercizio della potestà amministrativa.
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, in primo luogo, il giudice a quo pone in evidenza il collegamento tra il requisito della motivazione degli atti amministrativi – diretta a rendere trasparente e controllabile l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione – con i principi di imparzialità dell’azione amministrativa e di parità di trattamento dei cittadini sanciti dagli artt. 97 e 3 Cost.
In alcune pronunce questa Corte avrebbe affermato che la necessaria motivazione degli atti amministrativi costituirebbe un baluardo dei cittadini contro un esercizio arbitrario del potere discrezionale della pubblica amministrazione (sentenze n. 12 del 1972 e n. 12 del 1965), nonché strumento di controllo democratico del Parlamento su scelte lato sensu politiche dell’esecutivo (sentenza n. 86 del 1977).
Inoltre, la Corte avrebbe asserito la copertura costituzionale (art. 97 Cost.) dei principi sanciti dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), con riguardo al giusto procedimento e alla regola della motivazione degli atti amministrativi, in quanto l’esternazione delle ragioni alla base delle scelte amministrative garantirebbe la trasparenza e la verificabilità delle stesse, anche in funzione del controllo giurisdizionale (sentenze n. 34 del 2010; n. 390 del 2008; n. 103 del 2007, in tema di spoil system; n. 377 del 2007, in tema di responsabile del procedimento nelle procedure tributarie).
Alla luce delle suddette argomentazioni, ad avviso del rimettente, la regola della motivazione degli atti amministrativi dovrebbe applicarsi anche nei procedimenti valutativi di correzione di elaborati scritti nell’ambito di concorsi pubblici o di esami di abilitazione allo svolgimento delle professioni, essendo comunque necessaria una adeguata giustificazione quanto ai criteri prescelti e alla loro applicazione al caso concreto.
Infatti, non potendo il giudice amministrativo operare un autonomo apprezzamento della situazione di fatto, la motivazione costituirebbe lo strumento, attraverso il quale egli potrebbe operare un «sindacato indiretto» sulla correttezza della valutazione, anche sulla base della verifica della attendibilità del criterio scientifico applicato.
Come già affermato da questa Corte, la trasparenza delle scelte amministrative andrebbe assicurata anche se assunte da organi tecnici, in quanto il carattere non politico dell’organo non assicurerebbe l’imparzialità dell’esercizio della funzione pubblica (sentenza n. 453 del 1990).
Ad avviso del rimettente, la mancanza di motivazione del «voto numerico» dei provvedimenti di non ammissione alle prove orali dei candidati partecipanti agli esami di abilitazione alla professione forense comporterebbe un difetto di trasparenza in contrasto con il principio di imparzialità che postula la conoscibilità e pubblicità delle scelte amministrative anche tecniche (art. 97 Cost.), nonché con il principio di uguaglianza e di pari dignità di tutti i cittadini di fronte all’esercizio del potere amministrativo (art. 3 Cost.).
Peraltro, secondo il giudice a quo, la “sufficienza” del voto numerico per i provvedimenti di non ammissione dei partecipanti agli esami di abilitazione alla professione forense contrasterebbe con gli artt. 4 e 41 Cost., sotto il profilo dell’interesse legittimo (avente natura sostanziale e non solo processuale) degli stessi candidati all’accesso al lavoro, nonché con l’art. 24 Cost., sotto il profilo dell’interesse della collettività, e degli aspiranti all’esercizio della professione, alla adeguatezza e preparazione della classe forense, stante l’imprescindibile ruolo degli avvocati ai fini della rappresentanza in giudizio e quindi dell’esercizio del diritto di difesa.
Infine, sarebbe violato anche l’art. 117 Cost., costituendo i principi del giusto procedimento e della trasparenza parte del «patrimonio costituzionale comune dei Paesi europei» in forza dell’art. 253 del Trattato istitutivo delle Comunità europee del 25 marzo 1957, operante nell’ordinamento interno come norma interposta in forza del richiamo operato dallo stesso art. 117 Cost.
Secondo il rimettente, il punteggio numerico indicherebbe il risultato finale della valutazione, ma non consentirebbe di comprendere l’iter logico attraverso il quale la commissione esaminatrice ha fatto applicazione dei criteri di valutazione da essa stessa prestabiliti secondo legge. Il giudizio espresso in termini meramente numerici impedirebbe, pertanto, ogni forma di controllo sulla scelta tecnico – discrezionale e ogni «sindacato indiretto» sulla correttezza della valutazione della commissione esaminatrice, in violazione dei principi di trasparenza e imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione.
2. — In ciascun giudizio è intervenuto, con atti depositati il 14 settembre 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
2.1. — La difesa dello Stato – dopo avere richiamato le pronunce di questa Corte sulla manifesta inammissibilità delle questioni (con riferimento all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e alle norme denunciate nei giudizi in oggetto), in quanto finalizzate ad ottenere un avallo interpretativo sulla inesistenza di un obbligo di motivazione analitica per gli esami di abilitazione e i concorsi in genere, senza che tale tesi costituisse «diritto vivente» – sottolinea che la Corte stessa, con la sentenza n. 20 del 2009, preso atto della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla sufficienza della motivazione espressa con punteggio numerico, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità delle medesime norme denunciate nei giudizi in oggetto, in riferimento agli artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, Cost., ritenendo, in sostanza, i parametri evocati operanti sul piano esclusivamente processuale.
Pertanto, ad avviso della Presidenza del Consiglio, con riferimento all’art. 24 Cost., la presente questione dovrebbe essere dichiarata manifestamente infondata.
2.2. — Per quanto concerne l’asserita violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost., secondo il Presidente del Consiglio dei ministri non sarebbe ravvisabile — né il rimettente chiarirebbe al riguardo alcunché – disparità di trattamento dei candidati all’esame di abilitazione rispetto all’esercizio del potere, posto che per tutti il criterio di manifestazione del giudizio sarebbe estrinsecato con le medesime modalità.
Quanto all’asserita violazione anche dell’art. 97 Cost., la difesa dello Stato pone in evidenza come l’art. 3 della legge n. 241 del 1990, collegando la motivazione alle risultanze dell’istruttoria, farebbe riferimento all’attività amministrativa provvedimentale e non già all’attività valutativa di giudizio.
Ne conseguirebbe che il voto, associato ai criteri generali definiti a livello normativo (d.l. n. 112 del 2003, convertito dalla legge n. 180 del 2003), nonché ai criteri di massima stabiliti dalla commissione esaminatrice, consentirebbe di ricostruire l’iter logico seguito nella valutazione degli elaborati scritti da parte della commissione medesima.
La motivazione espressa numericamente, dunque, sarebbe in grado di assicurare la chiarezza sulle valutazioni di merito compiute dalla commissione e garantirebbe il rispetto dei principi costituzionali di economicità, efficienza e speditezza dell’attività amministrativa (avuto riguardo anche all’elevato numero di esaminandi, all’eterogeneità della preparazione degli stessi e all’obbligo di concludere le operazioni in tempi strettissimi).
La difesa dello Stato sottolinea, inoltre, come anche nell’ordinamento scolastico il giudizio in ordine alla preparazione di un candidato sia stato sempre espresso con l’attribuzione di un voto numerico (artt. 81 e 82 del regio decreto 6 maggio 1923, n. 1054 [Ordinamento della istruzione media e dei convitti nazionali]). In ordine alla asserita limitazione di tutela giurisdizionale in ipotesi di giudizi espressi in termini meramente numerici, il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia che le valutazioni delle commissioni giudicatrici degli esami di abilitazione o dei concorsi sono sindacabili per sviamento logico, errore di fatto e contraddittorietà rilevabile ictu oculi, per cui la affermata “idoneità” del punteggio numerico ad integrare l’obbligo di motivazione non farebbe venire meno la possibilità di sindacato giurisdizionale sulla ragionevolezza, coerenza, logicità della valutazione (anche sulla base del possibile accesso agli atti di competizione).
Quanto alla necessità di assicurare la trasparenza delle scelte amministrative anche quando queste siano assunte da organi tecnici, la difesa erariale richiama la pronuncia di questa Corte, in base alla quale l’imparzialità dell’amministrazione sarebbe già sufficientemente garantita dal carattere tecnico e non politico degli organi amministrativi che procedono alla correzione degli elaborati.
Pertanto, anche con riguardo agli evocati artt. 3 e 97, la questione andrebbe dichiarata manifestamente infondata.
2.3. — Con riferimento alla assunta violazione degli artt. 4 e 41 Cost., sotto il profilo dell’interesse all’accesso al lavoro (subordinato o autonomo) dei candidati partecipanti all’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, la difesa dello Stato sottolinea come, con specifico riferimento allo “statuto” delle libere professioni, il riconoscimento in capo agli Ordini e ai Collegi professionali di particolari poteri di accertamento dei requisiti di capacità e idoneità di coloro che aspirino a esercitare la professione (ad esempio: possesso di titolo di studio; esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione), di vigilanza sull’esercizio della professione e di disciplina nei confronti degli iscritti, garantirebbe la preparazione tecnico-professionale e l’idoneità morale degli esercenti la professione forense, interessi il cui fondamento costituzionale sarebbe da rinvenire proprio nell’art. 41, secondo comma, Cost. (l’attività economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana).
La votazione costituirebbe una sintesi delle ragioni poste a fondamento della valutazione delle prove scritte, percepibili ictu oculi attraverso la semplice associazione della stessa con i criteri generali indicati sul piano normativo e integrati dalla singola commissione esaminatrice. La finalità di tale valutazione sarebbe quella di accertare la capacità e la preparazione culturale del candidato che intenda espletare la professione forense (la sufficienza dell’onere motivazionale è stata affermata dal Consiglio di Stato, anche in relazione al concorso per uditore giudiziario).
2.4. — Quanto all’asserita violazione dell’art. 117 Cost., attraverso la norma interposta di cui all’art. 253 del Trattato CE (attualmente art. 296 TFUE), la difesa dello Stato rileva che il diritto comunitario non disciplina le modalità in cui detta motivazione deve essere esternata, potendosi ritenere conforme a tale diritto anche la manifestazione di giudizio sintetizzata nel voto numerico. Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, non risulterebbe neanche invocabile l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni ai sensi del Trattato 29 ottobre 2004 (Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), norma applicabile «agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. II-111, comma 1), mentre la disciplina degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense non sarebbe attinente all’attuazione del diritto comunitario.
Anche sotto quest’ultimo profilo, la questione di legittimità costituzionale sarebbe manifestamente infondata.
3. — Con riferimento al giudizio r. o. n. 219 del 2010, si è costituito, con memoria depositata il 13 settembre 2010, il signor G. M., chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, in riferimento ai medesimi parametri evocati nell’ordinanza di rimessione.
3.1. — In punto di fatto, la parte privata premette che essa aveva partecipato agli esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato nella sessione 2008, presso la Corte di appello di Milano; che l’esito della valutazione delle prove scritte era stato negativo; che aveva impugnato dinanzi al giudice amministrativo il giudizio di non ammissione alle prove orali, espresso con voto numerico completamente immotivato; che il Ministero della giustizia si era costituito in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso; che, in via cautelare, essa era stata ammessa a sostenere le prove orali, poi superate in data 12 novembre 2009.
In punto di diritto, la parte privata sottolinea che l’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo, sancito dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990, troverebbe uniforme applicazione, con la sola eccezione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale. Inoltre, pone in evidenza che l’indicazione dei «presupposti fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione» sarebbe necessaria per la verifica dell’iter logico seguito dall’autorità nell’adozione del provvedimento e l’obbligo di motivazione costituirebbe il corollario del principio di buon andamento dell’Amministrazione enunciato nell’art. 97 Cost.
L’obbligo di motivazione degli atti amministrativi troverebbe fondamento anche a livello di diritto comunitario, tutelato attraverso l’art. 117 Cost., e sarebbe da ritenere sufficientemente adempiuto allorché l’autorità procedente esponga in modo plausibile le ragioni di fatto e di diritto a sostegno dell’atto adottato.
Pertanto, la parte privata ritiene che le disposizioni censurate debbano essere lette ed integrate con l’art. 3 della legge n. 241 del 1990, essendo la motivazione finalizzata a rendere trasparente e controllabile l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione, garantendone l’imparzialità (art. 97 Cost.) e la parità di trattamento dei cittadini di fronte alla medesima (art. 3 Cost.).
Al riguardo, segnala la molteplicità dei casi in cui, proprio perché carenti di motivazione, le valutazioni delle prove scritte degli esami di abilitazione o di concorso sarebbero risultate totalmente diverse a seconda della commissione giudicatrice, deputata alla correzione. Soltanto una valutazione motivata potrebbe assicurare la conoscibilità dei motivi di tali discrepanze.
Né, ad avviso della parte privata, sussisterebbero insormontabili ragioni pratiche di speditezza idonee ad impedire la motivazione del voto negativo delle prove d’esame (ad esempio, sottolineatura dei brani censurati e/o indicazione delle parti del brano contenenti errori o insufficienze).
Infine, la parte suddetta sottolinea l’interesse al lavoro (subordinato o autonomo) dei candidati che partecipano all’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense (artt. 4 e 41 Cost.), nonché l’interesse della collettività e degli stessi aspiranti alla detta professione affinché sia garantita la professionalità di coloro che superano l’esame di abilitazione ai fini della rappresentanza in giudizio e dunque dell’esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Tali interessi sarebbero soddisfatti esclusivamente attraverso la esternazione e la conoscibilità delle motivazioni dei giudizi di non ammissione agli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense.
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, con le cinque ordinanze di analogo tenore indicate in epigrafe, dubita, in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 41, 97 e 117 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo comma, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), come novellato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n.112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n.180, nella parte in cui essi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale costituente “diritto vivente”, consentono che i giudizi di non ammissione dei candidati che partecipano agli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense possano essere motivati con l’attribuzione di un mero punteggio numerico.
In ciascun giudizio il rimettente premette che, alla luce della normativa censurata, i ricorsi, proposti dalle parti private avverso i provvedimenti di non ammissione alle prove orali dell’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati, dovrebbero essere respinti. Infatti, tale normativa, secondo un orientamento del Consiglio di Stato divenuto ormai costante, escluderebbe che la commissione esaminatrice, nel procedere alla correzione degli elaborati, debba supportare l’indicazione del voto numerico con una ulteriore motivazione. Ciò perché il voto espresso numericamente costituirebbe in sé una motivazione sintetica, ma comunque idonea a rendere palese la valutazione compiuta dalla commissione, esternata attraverso la graduazione del voto e l’omogeneità del giudizio attribuito all’elaborato.
Tanto sarebbe sufficiente a rendere possibile il sindacato giurisdizionale sul provvedimento di non ammissione che, in presenza dell’ampio potere tecnico-discrezionale spettante agli organi preposti alla valutazione, potrebbe avvenire soltanto in caso di espressione di giudizi discordanti tra i commissari o di contraddizione tra specifici elementi di fatto, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente attribuzione del voto.
Il giudice a quo richiama i precedenti di questa Corte, menzionati in narrativa, e pone l’accento sull’ordinanza (recte: sentenza) n. 20 del 2009, che ha preso atto dell’evoluzione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, ormai consolidata sul principio della sufficienza del punteggio numerico, da considerare “diritto vivente” e, quindi, suscettibile di essere sottoposto allo scrutinio di legittimità costituzionale, sia pur pervenendo ad una declaratoria di non fondatezza in base ai parametri in quella sede evocati. Tuttavia, ritiene che la questione meriti di essere riesaminata, alla luce delle argomentazioni del pari esposte in narrativa.
2. — I cinque giudizi, aventi ad oggetto identiche questioni, vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3. — Le questioni non sono fondate.
L’art. 17-bis, comma 2, del r.d. n. 37 del 1934, e successive modificazioni, nel testo vigente stabilisce che «Per ciascuna prova scritta ogni componente delle commissioni d’esame dispone di dieci punti di merito; alla prova orale sono ammessi i candidati che abbiano conseguito, nelle tre prove scritte, un punteggio complessivo di almeno 90 punti e con un punteggio non inferiore a 30 punti per almeno due prove».
L’art. 23, quinto comma, del medesimo testo normativo dispone che «La commissione assegna il punteggio a ciascuno dei tre lavori raggruppati ai sensi dell’art. 22, comma 4, dopo la lettura di tutti e tre, con le norme stabilite nell’articolo 17-bis».
Infine, l’art. 24, primo comma, del r.d. n. 37 del 1934 statuisce che «Il voto deliberato deve essere annotato immediatamente dal segretario, in tutte lettere, in calce al lavoro. L’annotazione è sottoscritta dal presidente e dal segretario».
Come si vede, il criterio prescelto dal legislatore per la valutazione delle prove scritte nell’esame de quo è quello del punteggio numerico, costituente la modalità di formulazione del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su ciascuna prova, con indicazione del punteggio complessivo utile per l’ammissione all’esame orale.
Tale punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato, che non solo stabilisce se quest’ultimo ha superato o meno la soglia necessaria per accedere alla fase successiva del procedimento valutativo, ma dà anche conto della misura dell’apprezzamento riservato dalla commissione esaminatrice all’elaborato e, quindi, del grado di idoneità o inidoneità riscontrato.
Inoltre, il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione contemplati nell’art. 22, nono comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento della professione di avvocato), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36; ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento.
3.1. — In questo quadro, le argomentazioni addotte dal rimettente, con riferimento ai parametri costituzionali evocati, non possono essere condivise.
Infatti, è vero che la motivazione è diretta a rendere trasparente e controllabile l’esercizio della discrezionalità amministrativa, garantendo così l’imparzialità della pubblica amministrazione nonché la parità di trattamento dei cittadini di fronte ad essa. Non è esatto, però, che il criterio del punteggio numerico sia inidoneo a costituire motivazione del giudizio valutativo espresso dalla commissione esaminatrice.
Come poco sopra si è notato, il detto criterio (peraltro diffusamente adottato nelle procedure concorsuali ed abilitative) rivela una valutazione che, attraverso la graduazione del dato numerico, conduce ad un giudizio di sufficienza o di insufficienza della prova espletata e, nell’ambito di tale giudizio, rende palese l’apprezzamento più o meno elevato che la commissione esaminatrice ha attribuito all’elaborato oggetto di esame. Pertanto, non è sostenibile che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione. Esso, in realtà, si traduce in un giudizio complessivo dell’elaborato, alla luce dei parametri dettati dall’art. 22, nono comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa.
D’altro canto, va anche considerato che il criterio in questione risponde ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97, primo comma, Cost.), che rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, avuto riguardo sia ai tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia al numero dei partecipanti alle prove.
Neppure può sostenersi che la normativa censurata si ponga in contrasto con l’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). Fermo restando che il criterio del punteggio numerico è idoneo ad esprimere un giudizio sufficientemente motivato, si deve osservare che il citato art. 3, comma 1, va coordinato con l’art. 1, comma 1, della medesima legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’attività amministrativa è retta (tra gli altri) da criteri di economicità e di efficacia, che giustificano la scelta del modulo valutativo adottato dal legislatore.
3.2. — Ciò posto, venendo all’esame dei singoli parametri evocati dalle ordinanze di rimessione, va rilevato che il richiamo all’art. 3 Cost. non è fondato.
Al riguardo, il TAR della Lombardia ritiene che l’insufficienza del criterio del punteggio numerico darebbe luogo ad un difetto di trasparenza che si porrebbe «in inevitabile contrasto con il principio di imparzialità che postula, invece, la conoscibilità e la pubblicità delle scelte amministrative, finendo anche per riverberarsi a danno della posizione di uguaglianza e pari dignità di tutti i cittadini di fronte all’esercizio del potere amministrativo».
Tuttavia, ribadite le considerazioni sopra esposte circa la sufficienza della motivazione espressa tramite il punteggio numerico, si deve escludere il difetto di trasparenza lamentato dal rimettente; e, quanto alla censura concernente il danno alla posizione di uguaglianza e pari dignità di tutti i cittadini, essa risulta proposta in termini generici ed astratti, che non consentono di coglierne la riferibilità alla fattispecie, dato che il criterio di esternazione del giudizio tramite punteggio numerico si applica con le stesse modalità a tutti i candidati agli esami di cui si tratta.
Analoghi rilievi valgono anche per la censura mossa con riferimento all’art. 97 Cost., alla luce di quanto sopra esposto.
Inoltre, ad avviso del giudice a quo, sarebbero violati gli artt. 4 e 41 Cost., perché sarebbe pregiudicato l’interesse legittimo (avente natura sostanziale e non soltanto processuale) dei candidati partecipanti all’esame di abilitazione professionale, sotto il profilo dell’accesso al lavoro subordinato o autonomo.
Neppure questa doglianza è fondata.
La normativa censurata si limita ad individuare, in base ad una scelta del legislatore immune da irragionevolezza e non arbitraria (per quanto sopra detto), un criterio di valutazione delle prove di esame per abilitazione all’esercizio della professione forense. Il Tribunale rimettente sostiene che la trasparenza dell’operato delle commissioni esaminatrici sarebbe imposta dal rilievo costituzionale degli interessi implicati nel procedimento. Ma già si è visto che il sistema individuato dal legislatore è in grado di assicurare tale trasparenza, onde la dedotta violazione non sussiste.
La violazione dell’art. 24 Cost. va, a sua volta, esclusa.
Invero, come già questa Corte ha chiarito (sentenza n. 20 del 2009 e giurisprudenza in essa richiamata), la citata norma costituzionale, che enuncia il principio dell’effettività del diritto di difesa in ambito generale, è diretta a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio delle situazioni giuridiche ed opera esclusivamente sul piano processuale, mentre la denunziata illegittimità costituzionale concerne un momento del procedimento amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense e, dunque, riguarda il profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento di esclusione del candidato. Pertanto, la disciplina censurata, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo, non è idonea ad interferire col diritto di difesa e si sottrae all’ambito applicativo del citato art. 24.
Infine, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 117 Cost. (da intendere, alla luce della lettura congiunta della motivazione e del dispositivo delle ordinanze, come art. 117, primo comma, Cost.). Infatti, i principi del giusto procedimento e della motivazione delle scelte amministrative «non sono di esclusiva pertinenza della legislazione interna ma costituiscono parte del “patrimonio costituzionale comune dei Paesi europei” in forza dell’art. 253 del Trattato istitutivo delle Comunità europee ed operano, quindi, anche nell’ordinamento interno come norme interposte in forza del richiamo operato dall’art. 117 Cost. (Corte costituzionale, 17 marzo 2006, n. 104)».
Neppure tale doglianza è fondata.
Infatti, a prescindere dall’erronea qualificazione dell’art. 253 del Trattato istitutivo delle Comunità europee del 25 marzo 1957 (oggi art. 296 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) come norma interposta, la disciplina degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario.
Ne segue l’inconferenza del richiamo all’art. 117, primo comma, Cost.
3.3. — Conclusivamente, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalle ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, devono essere dichiarate non fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, comma 2, 23, quinto comma, 24, primo comma, del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato e di procuratore), come novellato dal decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 41, 97 e 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2011.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI