Sentenza 93/2010 (ECLI:IT:COST:2010:93)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: AMIRANTE - Redattore: FRIGO
Udienza Pubblica del ;    Decisione  del 08/03/2010
Deposito del 12/03/2010;   Pubblicazione in G. U. 17/03/2010  n. 11
Norme impugnate: Art. 4 della legge 27/12/1956, n. 1423; art. 2 ter della legge 31/05/1965, n. 575.
Massime:  34452  34453 
Massime:  34452  34453 
Atti decisi: ord. 176/2009

Massima n. 34452 Massima successiva
Titolo
Costituzione e leggi costituzionali - Potestà legislativa - Limite del rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma, Cost.) - Obblighi derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo (CEDU) - Eventuale contrasto di norma interna con norma CEDU - Impossibilità di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione convenzionale - Necessità di proposizione della questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost.

Testo

Le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Pertanto, ove si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica, e, qualora tale soluzione risulti impercorribile, non potendo comunque disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. In sede di scrutinio, poiché le norme della CEDU si collocano ad un livello sub-costituzionale, la Corte costituzionale, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata a verificare se una norma convenzionale si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione, nel qual caso, peraltro eccezionale, dovrà essere esclusa l'idoneità della stessa norma convenzionale a integrare il citato parametro.

Sui rapporti tra norme della CEDU e ordinamento costituzionale italiano, nonché sulle condizioni di proponibilità della questione di legittimità costituzionale di una norma interna contrastante con una norma convenzionale e sui limiti del sindacato demandato alla Corte costituzionale, v. le citate sentenze n. 317/2009, n. 311/2009, n. 239/2009, n. 39/2008, n. 349/2007 e n. 348/2007.

Atti oggetto del giudizio
legge  27/12/1956  n. 1423  art. 4
legge  31/05/1965  n. 575  art. 2  ter

Parametri costituzionali
Costituzione  art. 111  co. 1
Costituzione  art. 117  co. 1

Altri parametri e norme interposte
convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Roma 04/11/1950)  art. 6  par. 1
legge  04/08/1955  n. false

Massima n. 34453 Massima precedente
Titolo
Misure di prevenzione - Procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione - Gradi di merito - Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle forme dell'udienza pubblica - Preclusione - Violazione del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie garantito dall'art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - Illegittimità costituzionale in parte qua - Assorbimento dell'ulteriore motivo di censura.

Testo

Sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., l'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e l'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. Le censurate disposizioni, prevedendo che le misure di prevenzione siano applicate in esito ad un procedimento camerale senza la partecipazione del pubblico, violano, infatti, l'art. 6, par. 1, della CEDU poiché, nonostante l'incidenza diretta, definitiva e sostanziale delle misure de quibus su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale, il patrimonio e la stessa libertà di iniziativa economica, non contemplano la possibilità per l'interessato di chiedere un dibattimento pubblico, ledendo il principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, costituzionalmente rilevante anche in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione. L'esigenza di garantire la pubblicità del giudizio penale nelle fasi di merito del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione non pregiudica, in conformità alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, il potere del giudice di disporre che si proceda, in tutto o in parte, senza la presenza del pubblico in rapporto a particolarità del caso concreto, che facciano emergere la necessità di tutelare valori contrapposti, nei limiti in cui, ai sensi dell'art. 472 cod. proc. pen., è legittimato lo svolgimento del dibattimento penale a porte chiuse. (Restano assorbite le censure relative all'art. 111, primo comma, Cost.).

In merito al carattere giurisdizionale del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, v., tra le altre, la citata sentenza n. 77/1995.

Nel senso che la pubblicità del giudizio, specialmente penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale, in forza dell'art. 101, primo comma, Cost., trova in quella sovranità la sua legittimazione, v. le citate sentenze n. 373/1992, n. 69/1991, n. 50/1989, n. 212/1986, n. 17/1981, n. 16/1981, n. 12/1971 e n. 65/1965.

Sul carattere non assoluto del principio di pubblicità del giudizio e sulle particolari ragioni giustificative di discipline derogatorie, v. le citate sentenze n. 212/1986 e n. 12/1971.

Atti oggetto del giudizio
legge  27/12/1956  n. 1423  art. 4
legge  31/05/1965  n. 575  art. 2  ter

Parametri costituzionali
Costituzione  art. 117  co. 1
Costituzione  art. 111  co. 1

Altri parametri e norme interposte
convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Roma 04/11/1950)  art. 6  par. 1
legge  04/08/1955  n. false


Pronuncia

SENTENZA N. 93

ANNO 2010


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), promosso dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel procedimento di prevenzione relativo a S.V. con ordinanza del 18 dicembre 2008, iscritta al n. 176 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione di S.V. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Andrea R. Castaldo per S.V. e l’avvocato dello Stato Massimo Bachetti per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 18 dicembre 2008, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ha promosso, in riferimento agli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui «non consentono che la procedura di applicazione delle misure di prevenzione si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica».

Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione personale e patrimoniale, nel corso del quale era stato disposto, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, il sequestro di un ampio complesso di beni (partecipazioni societarie, impianti di carburante, immobili, conti correnti e libretti di risparmio), ritenuti nella disponibilità della persona nei cui confronti era stata proposta la misura. Riferisce altresì che, in udienza, il difensore del proposto aveva chiesto che la procedura fosse trattata in forma pubblica, eccependo l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che ne prevedono lo svolgimento in camera di consiglio.

A tale riguardo, il rimettente osserva che, in forza dell’art. 4, sesto comma, della legge n. 1423 del 1956, il tribunale provvede sulle proposte di applicazione delle misure di prevenzione «in camera di consiglio, […] osservando, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 636 e 637 del codice di procedura penale» (il richiamo si riferiva al codice del 1930, vigente al tempo dell’entrata in vigore di detta legge). A sua volta, l’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nel disciplinare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, opera un espresso riferimento al procedimento previsto dalla legge n. 1423 del 1956, statuendo, inoltre, al quinto comma, che ove i beni oggetto di sequestro adottato in via cautelare appartengano a terzi, questi sono chiamati dal tribunale ad intervenire nel procedimento e «possono, anche con l’assistenza di un difensore, […] svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni».

Il dettato normativo risulterebbe, pertanto, inequivoco nello stabilire che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, tanto personali che patrimoniali, abbia luogo «in camera di consiglio»: formula che – alla luce di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – implicherebbe attualmente un rinvio alla disciplina generale dettata dall’art. 127 cod. proc. pen., il quale prevede espressamente, al comma 6, che l’udienza in camera di consiglio – e, dunque, anche quella del procedimento che interessa – si svolge «senza la presenza del pubblico».

Ciò premesso, il rimettente rileva che, con due recenti pronunce – la sentenza 13 novembre 2007, emessa nella causa Bocellari e Rizza contro Italia, e la sentenza 8 luglio 2008, emessa nella causa Pierre ed altri contro Italia – la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che la procedura di applicazione delle misure di prevenzione prevista dall’ordinamento italiano si pone in contrasto, sotto il profilo considerato, con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Richiamando la propria giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ha nell’occasione ribadito che la pubblicità delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma della Convenzione, tutela le persone soggette ad una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici. Con particolare riguardo ai procedimenti in discussione, la Corte non ha negato validità ai rilievi svolti, nelle sue difese, dal Governo italiano, per giustificare la deroga alla pubblicità delle udienze: e, cioè, che le procedure per l’applicazione delle misure di prevenzione – in specie patrimoniali – possono assumere un carattere altamente tecnico, in quanto basate essenzialmente su documenti e indagini finanziarie, e possono implicare, al tempo stesso, esigenze di protezione della vita privata di terze persone, anche minori, coinvolte quali intestatari formali dei beni. La Corte europea ha rilevato, tuttavia, che è necessario tener conto della «posta in gioco» nelle procedure in esame, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», nonché degli effetti che esse possono produrre sulle persone coinvolte: in questa prospettiva non è possibile affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale», ai fini del rispetto del citato art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, che i soggetti coinvolti nelle procedure stesse «si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

Dalle affermazioni ora ricordate si dovrebbe necessariamente dedurre – ad avviso del rimettente – che le norme censurate violino, in parte qua, l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: parametro rispetto al quale – secondo quanto chiarito dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale – le disposizioni della CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono il ruolo di «norme interposte».

Contrariamente a quanto sostenuto dal pubblico ministero nel procedimento a quo, non sarebbe possibile, d’altra parte, interpretare le norme sottoposte a scrutinio in senso conforme alla Convenzione tramite l’applicazione analogica dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale, nel prevedere che il giudizio abbreviato si svolge di regola in camera di consiglio, stabilisce, tuttavia, che esso viene trattato in udienza pubblica «quando ne fanno richiesta tutti gli imputati». Mancherebbero, infatti, i presupposti per tale operazione ermeneutica, sia perché il ricorso all’analogia è consentito solo in presenza di una lacuna normativa, nella specie non ravvisabile; sia in ragione della diversità strutturale e funzionale tra il giudizio abbreviato e il procedimento di prevenzione: essendo il primo volto all’accertamento della responsabilità dell’imputato per un determinato «fatto-reato» e il secondo, invece, alla verifica della sussistenza di indizi di appartenenza ad associazioni criminali del soggetto proposto per l’applicazione della misura, nonché della riconducibilità dei beni, di cui il proposto medesimo dispone, a fenomeni di reimpiego dei proventi di attività illecite.

Il giudice comune, d’altronde – sempre alla luce dei dicta delle citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – non è abilitato a disapplicare la disciplina interna contrastante con quella convenzionale: onde non resterebbe altra via, per rimuovere il rilevato contrasto, che quella di sollevare questione di legittimità costituzionale.

Le ricordate affermazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo inducono, per altro verso, il rimettente a dubitare della legittimità costituzionale delle norme censurate anche con riferimento all’art. 111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dalle leggi n. 1423 del 1956 e n. 575 del 1965 appaia strutturato, nel complesso, in maniera tale da assicurare l’effettività del diritto di difesa, la previsione del suo svolgimento nella forma dell’udienza camerale non garantirebbe un controllo sull’esercizio dell’attività giurisdizionale adeguato alla gravità dei provvedimenti adottabili, idonei ad incidere in modo definitivo sul diritto di proprietà «di beni e di capitali». In tale prospettiva, anche ai fini dell’attuazione di un «processo equo», dovrebbe essere prevista la possibilità di svolgere il procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati.

Quanto, infine, alla rilevanza della questione, essa risulterebbe indubbia, giacché il difensore del soggetto proposto, nel formulare l’eccezione di incostituzionalità, ha espressamente chiesto che il procedimento prosegua in pubblica udienza.

2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con un atto nel quale si è limitato a chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Con una successiva memoria, la difesa erariale ha, poi, esposto le proprie argomentazioni, rilevando – circa la censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. – che, secondo quanto precisato dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e n. 317 del 2009, l’attitudine delle norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ad integrare il citato parametro non comporta una loro «sovraordinazione» sul piano della gerarchia delle fonti. Di conseguenza, benché la Corte costituzionale non possa sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, è comunque tenuta a valutare come tale interpretazione si inserisca – anche in termini di «bilanciamento» di valori – nell’ordinamento costituzionale italiano, avuto riguardo, soprattutto, al complesso dei diritti fondamentali.

Nella specie, la previsione, per l’applicazione delle misure di prevenzione, di una procedura in camera di consiglio senza presenza del pubblico troverebbe la sua ratio nelle esigenze di celerità e nelle finalità di sicurezza, e di conseguente riservatezza, che caratterizzano i procedimenti in questione, i quali spesso coinvolgono forme di criminalità ad «alto tasso di pericolosità». Né, d’altro canto, ciò comporterebbe pregiudizi al diritto di difesa, come sarebbe reso palese dal fatto che essa risulta parimenti prevista dal codice di procedura penale per lo svolgimento dell’udienza preliminare, del giudizio abbreviato e per alcune categorie di giudizi in appello e dinanzi alla Corte di cassazione, senza che ciò abbia mai dato adito a dubbi di legittimità costituzionale.

Quanto, poi, alla censura di violazione dell’art. 111, primo comma, Cost., essa sarebbe palesemente infondata, in quanto la nozione costituzionale di «giusto processo» non ricomprenderebbe anche la garanzia della partecipazione del pubblico alle udienze.

3. – Si è costituito, altresì, S. V., persona nei cui confronti è stata proposta la misura di prevenzione nel procedimento a quo, chiedendo che la questione venga accolta.

Nell’aderire alle argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, la difesa della parte privata ribadisce, in particolare, che, se è vero che il legislatore deve ritenersi abilitato a prevedere, in relazione all’oggetto della causa e alle diverse fasi dei procedimenti, differenti forme processuali, proprio la gravità dei provvedimenti che l’autorità giudiziaria può adottare in materia di prevenzione patrimoniale imporrebbe la pubblicità dell’udienza, soprattutto se richiesta dagli interessati, quale garanzia di trasparenza e di attuazione di un processo equo.


Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui «non consentono che la procedura per l’applicazione di una misura di prevenzione si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica».

Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate – prevedendo che le procedure per l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali si svolgano, senza alcuna eccezione, in camera di consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico – violerebbero l’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo proprio con specifico riferimento ai procedimenti in esame. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti – pur a fronte dell’elevato grado di tecnicismo proprio di tali procedimenti e delle esigenze, in esse sovente presenti, di protezione della vita privata di terzi indirettamente interessati da controlli finanziari – l’entità della «posta in gioco» e gli effetti che le procedure stesse possono produrre impongono di ritenere che il controllo del pubblico sull’esercizio della giurisdizione rappresenti una condizione necessaria ai fini del rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti, onde dovrebbe essere offerta ai medesimi «almeno la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» competenti.

Le norme sottoposte a scrutinio lederebbero, altresì, l’art. 111, primo comma, Cost., in quanto – a causa della gravità delle misure adottabili dall’autorità giudiziaria a seguito delle procedure considerate – l’attribuzione agli interessati della facoltà di richiederne la trattazione in udienza pubblica risulterebbe indispensabile ai fini dell’attuazione di un «equo processo».

2. – In via preliminare, va rilevato che, malgrado la generica formulazione del quesito, il dubbio di costituzionalità sottoposto all’esame della Corte deve ritenersi circoscritto alla mancata previsione della possibilità di trattazione in udienza pubblica dei procedimenti di prevenzione nei gradi di merito (prima istanza ed appello).

A questi soltanto risulta, infatti, riferito il principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle decisioni poste a fondamento delle censure; né, d’altro canto, si rinviene nell’ordinanza di rimessione alcuna argomentazione a sostegno di una loro eventuale estensione al giudizio di cassazione (aspetto che resterebbe, peraltro, irrilevante nel procedimento a quo).

3. – Così definita, la questione, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata.

4. – A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008).

Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009), e, ove tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante), deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato.

A sua volta, nel procedere al relativo scrutinio, la Corte costituzionale, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione, come da quella Corte interpretata – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato (sentenze n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007).

5. – Nella specie, il giudice rimettente muove da una lettura della disciplina censurata adeguata al vigente quadro normativo, dal quale emerge con chiarezza che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali – del quale questa Corte ha avuto modo di rimarcare il carattere giurisdizionale (tra le altre, sentenza n. 77 del 1995) – si svolge in camera di consiglio, senza la partecipazione del pubblico.

La trattazione della procedura in camera di consiglio è, infatti, espressamente prevista – con riguardo, rispettivamente, al primo grado e al giudizio di impugnazione davanti alla corte d’appello – dal sesto e dall’undicesimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956. Tale disciplina, relativa all’applicazione delle misure di prevenzione personali, opera, d’altronde, anche in rapporto a quelle patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso previste dalla legge n. 575 del 1965, il cui art. 2-ter richiama specificamente, al primo comma, il procedimento previsto dalla legge del 1956 e, al quinto comma, fa ulteriore riferimento alla trattazione in camera di consiglio, nel regolare il diritto di intervento riconosciuto ai terzi cui eventualmente appartengano i beni sequestrati.

La previsione per cui la procedura si svolge «in camera consiglio» comporta, per altro verso – in conformità ad un indirizzo interpretativo avallato anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 maggio 2003-18 giugno 2003, n. 26156) – l’operatività, ove non diversamente disposto, della disciplina generale in materia di «procedimento in camera di consiglio» dettata dall’art. 127 cod. proc. pen.: e, dunque – in mancanza di previsioni derogatorie sul punto – anche della disposizione del comma 6 di tale articolo, in forza della quale «l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico».

6. – Tale assetto ha indotto, tuttavia, a dubitare della compatibilità della disciplina italiana del procedimento applicativo delle misure di prevenzione con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale stabilisce – per la parte conferente – che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata […], pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale […]», soggiungendo, altresì, che «il giudizio deve essere pubblico, ma l’ingresso nella sala di udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia».

Sullo specifico tema, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa in maniera uniforme – tanto da potersi parlare di indirizzo consolidato – oltre che nelle due pronunce diffusamente richiamate nell’ordinanza di rimessione (la sentenza 13 novembre 2007, nella causa Bocellari e Rizza contro Italia, e la sentenza 8 luglio 2008, nella causa Pierre ed altri contro Italia), anche nella successiva sentenza 5 gennaio 2010, nella causa Bongiorno contro Italia.

Ravvisando una violazione della citata norma della Convenzione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto, in specie, «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma stessa, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

A tale conclusione la Corte europea è pervenuta richiamando, in via preliminare, la propria giurisprudenza, in forza della quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre 2000, nella causa Riepan contro Austria). Con la trasparenza che essa conferisce all’amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi, a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l’equo processo (ex plurimis, sentenza 25 luglio 2000, nella causa Tierce e altri contro San Marino).

Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità dell’udienza, in rapporto alle particolarità della vicenda sottoposta al loro esame: ma l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze della causa». La stessa Corte europea ha ritenuto, in effetti, che alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica. Ma nella maggior parte dei casi in cui la Corte è pervenuta a tale conclusione in rapporto a procedimenti davanti ad autorità giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel merito, il ricorrente aveva avuto, comunque, la possibilità di sollecitare che la causa fosse trattata in udienza pubblica.

La situazione – ha osservato la Corte di Strasburgo – è, tuttavia, diversa quando, sia in primo grado che in appello, una procedura «sul merito» si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale ed assoluta, senza che la persona soggetta alla giurisdizione fruisca di quella facoltà. Una procedura siffatta non può essere, invero, considerata conforme all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, giacché, salvi casi del tutto eccezionali, l’interessato deve avere almeno la possibilità di chiedere un dibattimento pubblico; richiesta che potrà essere eventualmente disattesa, qualora lo svolgimento a porte chiuse risulti giustificato «dalle circostanze della causa e per i motivi sopra richiamati» (al riguardo, sentenza 12 aprile 2006, nella causa Martinie contro Francia).

Con particolare riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte europea non ha contestato che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione – di cui, come detto, è previsto lo svolgimento in camera di consiglio tanto in primo grado che in appello (art. 4 della legge n. 1423 del 1956), senza che alle parti sia riconosciuta la facoltà di chiedere l’udienza pubblica – possa presentare «un elevato grado di tecnicità», in quanto tendente (nel caso di misure patrimoniali) al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario».

Non è, tuttavia, possibile – secondo la Corte europea – non considerare l’entità della «posta in gioco» nelle procedure di prevenzione, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», coinvolgendo così direttamente la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione, nonché gli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione, questa, a fronte della quale «non si può affermare che il controllo del pubblico» – almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto – «non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato».

7. – Da quanto precede si deve trarre la necessaria conseguenza che le norme censurate violano, in parte qua, l’art. 117, primo comma, Cost.

Al riguardo, va senz’altro escluso che la norma internazionale convenzionale, così come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione.

L’assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie: principio che – consacrato anche in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) – trova oggi ulteriore conferma nell’art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall’art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009.

Questa Corte ha avuto modo, in effetti, di affermare in più occasioni che la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione (sentenze n. 373 del 1992; n. 69 del 1991; n. 50 del 1989; n. 212 del 1986; n. 17 e 16 del 1981; n. 12 del 1971 e n. 65 del 1965). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971).

Le osservazioni della Corte di Strasburgo colgono, d’altro canto, le specifiche peculiarità del procedimento di prevenzione, che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali. Si tratta, cioè, di un procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio (quest’ultimo, tra l’altro, aggredito in modo normalmente “massiccio” e in componenti di particolare rilievo, come del resto nel procedimento a quo), nonché la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente “inabilitanti” previste a carico del soggetto cui è applicata la misura di prevenzione (in particolare, dall’art. 10 della legge n. 575 del 1965). Il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato.

8. – Sotto diverso profilo, il giudice a quo ha correttamente escluso che sia possibile allineare la disciplina censurata alle pronunce della Corte europea per via d’interpretazione. In particolare, ha escluso che a tale risultato si possa pervenire per il tramite dell’applicazione analogica – al procedimento di prevenzione – dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale prevede che il giudizio abbreviato – normalmente trattato in camera di consiglio – si svolga in udienza pubblica quando ne fanno richiesta tutti gli imputati.

Il rimettente ha rilevato, infatti, che difettano le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perché il ricorso all’analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo, qui non ravvisabile in presenza di una specifica disposizione contraria (il citato art. 127, comma 6, cod. proc. pen.); sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di prevenzione).

9. – Le censure relative all’art. 111, primo comma, Cost. restano assorbite.

10. – Gli artt. 4 della legge n. 1423 del 1956 e 2-ter della legge n. 575 del 1965 devono essere, pertanto, dichiarati costituzionalmente illegittimi per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.

In conformità alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, resta fermo il potere del giudice di disporre che si proceda in tutto o in parte senza la presenza del pubblico in rapporto a particolarità del caso concreto, che facciano emergere esigenze di tutela di valori contrapposti, nei limiti in cui, a norma dell’art. 472 cod. proc. pen., è legittimato lo svolgimento del dibattimento penale a porte chiuse.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA