RITENUTO IN FATTO
1. - Il Tribunale di Roma, con ordinanza 29 aprile 1988 (R.O. n.
270 del 1988) ha sollevato questione di legittimità costituzionale,
in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 104 della Costituzione,
dell'art. 131, ultimo comma, c.p.c., aggiunto dall'art. 16, secondo
comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117.
La rilevanza della questione è motivata in relazione al fatto che
nel procedimento a quo, in sede di deliberazione, doveva farsi
applicazione - con la redazione del processo verbale del
provvedimento collegiale - della norma impugnata.
Il giudice a quo afferma, in relazione alla dedotta violazione
degli artt. 101 e 104 della Costituzione, che la compilazione del
processo verbale dei provvedimenti collegiali, correlata alla
possibilità della divulgazione delle posizioni assunte dai giudici
in sede di deliberazione, ove il verbale sia acquisito nel giudizio
di rivalsa, si pone in contrasto con il principio della segretezza
della camera di consiglio stabilito all'art. 276, primo comma, c.p.c.
Detto principio avrebbe "valenza costituzionale", in quanto
"funzionale all'indipendenza dell'attività giurisdizionale (art.
104, primo comma, della Costituzione) ed alla soggezione del giudice
soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione).
Infatti, soltanto attraverso l'impersonalità della deliberazione,
garantita dalla segretezza, ciascun componente del collegio sarebbe
sottratto a condizionamenti.
Argomento contrario a tali affermazioni non potrebbe trarsi
dall'istituto della dissenting opinion, tipico della tradizione
inglese, poiché l'espressione della dissenting opinion costituisce
una facoltà del giudice dissenziente e può ben riguardare solo le
ragioni della decisione e non anche il contenuto dispositivo del
provvedimento. Inoltre, essa mira a tutelarne l'immagine esterna.
Non vi sarebbe, inoltre, alcuna uniformità concettuale fra tale
istituto e quello regolato dall'art. 16 della l. n. 117 del 1988, che
prevede l'obbligo di dare atto del dissenso, e non già la mera
facoltà del dissenziente di esternarlo.
Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che nel verbale va
annotata l'unanimità o il dissenso su ogni questione. Il che implica
incertezze sulla riferibilità ai singoli componenti del decisum
finale.
L'unico risultato certo fra "tante incertezze e tante inutili
rivelazioni" sarebbe "che i voti di ciascuno saranno stati dati in un
contesto nel quale l'espressione di una o di un'altra opinione
potrebbe essere stata indotta da considerazioni diverse o ulteriori
rispetto a quelle che il giudice in sola scienza e coscienza avrebbe
valutato davvero determinanti. Il che è l'esatto contrario degli
scopi con la garanzia d'indipendenza perseguiti".
In relazione alla dedotta violazione dell'art. 97 della
Costituzione l'ordinanza rileva che la norma impugnata inciderebbe
negativamente anche sul buon andamento dell'amministrazione della
giustizia. Infatti, da un lato la deliberazione collegiale è spesso
il frutto di "mediazioni" tra difformi valutazioni in fatto e di
diverse opinioni in diritto che non possono essere ostacolate senza
compromettere la buona amministrazione della giustizia. D'altro lato,
la rapidità della decisione, non è agevolata dall'esame analitico
di tutti i fascicoli delle cause poste in deliberazione da parte di
ciascun membro del collegio, come la possibile responsabilità per
colpa da affermazione di fatto inesistente o da negazione di fatto
esistente ex actis (art. 2, terzo comma, lettere b e c, l. cit.)
richiederebbe.
Irragionevole è poi, avere imposto la verbalizzazione anche per
il caso di unanimità della decisione e non avere invece rimesso alla
facoltà del dissenziente di far constare il suo dissenso (soluzione
questa che, peraltro, secondo il giudice a quo, anche se più congrua
di quella prescelta, contrasterrebbe anch'essa con gli artt. 101 e
104 della Costituzione).
Nel prospettare l'illegittimità costituzionale della norma
impugnata, il giudice a quo rileva, infine, che un'eventuale
declaratoria d'illegittimità costituzionale di essa, comporterebbe
l'impossibilità di provare, ignorandosi la posizione assunta da
ciascun giudice in camera di consiglio, la responsabilità dei
singoli membri del collegio. Potendo ciò comportare un deteriore
trattamento, in materia di responsabilità, per il giudice
monocratico, questa Corte potrebbe trarne le necessarie conseguenze
ex art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, ove non ritenesse
giustificabile tale diverso trattamento.
2. - Davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata.
Nelle note depositate si premette che la estensione della nuova
disciplina in tema di responsabilità agli organi giudiziari
collegiali, è necessaria per garantire la parità di trattamento con
gli organi giurisdizionali monocratici e che la conseguente
disciplina della verbalizzazione dei provvedimenti giurisdizionali
collegiali, è a sua volta necessaria per assicurare, in ossequio al
precetto dell'art. 28 della Costituzione, la natura personale e
diretta della responsabilità dei giudici, evitando di configurare
una forma di responsabilità oggettiva.
Quanto ai singoli profili d'incostituzionalità, si osserva che la
singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei
provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del
magistrato giustificano una normativa differenziata, per i
magistrati, in tema di responsabilità, rispetto a quella degli altri
dipendenti dello Stato.
Inoltre, l'obbligo di verbalizzare non costituirebbe un ostacolo
alla funzionalità dell'organo collegiale, imponendo ai singoli
membri del collegio l'esame analitico di tutti i fascicoli di causa,
"trattandosi di decisione personale di ciascun giudice, da adottarsi
in relazione al grado del rapporto di fiducia intercorrente con il
relatore".
Quanto al valore costituzionale del principio della segretezza
delle deliberazioni degli organi giurisdizionali, nelle note
depositate se ne contesta il fondamento, ricordando l'esistenza di
giudici monocratici - non per questo ritenuti privi d'imparzialità e
indipendenza - e l'espressa previsione dell'art. 118 disp. att.
c.p.c.
3. - Questioni analoghe sono state sollevate con ordinanze 4
maggio 1988 del Tribunale di Roma (R.O. n. 326 del 1988); 2 maggio
1988 del Tribunale di Catanzaro (R.O. n. 350 del 1988); 3 maggio 1988
della Commissione tributaria di primo grado di Roma (R.O. n. 448 del
1988).
In tutte tali ordinanze si sottolinea la connessione tra
segretezza della deliberazione in camera di consiglio, indipendenza e
imparzialità del giudice.
Nell'ordinanza del Tribunale di Catanzaro si evidenzia anche che
il legislatore ha riconosciuto piena tutela al segreto professionale
(art. 351 c.p.p.), con la conseguente irrazionalità della disciplina
disposta dalla legge impugnata riguardo al trattamento normativo
riservato al segreto della camera di consiglio.
Nei giudizi così promossi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri chiedendo che le questioni siano dichiarate
non fondate per le ragioni già esposte nel giudizio promosso con
l'ordinanza 19 aprile 1988 del Tribunale di Roma.
4. - Questione in parte analoga è stata sollevata anche, nel
corso di un procedimento penale, dalla Corte d'Appello di Trieste,
con ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988).
Con tale ordinanza è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3
e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell'art. 16, primo comma, già citato, della l. 13 aprile 1988, n.
117.
Si afferma nell'impugnativa, in relazione al profilo attinente
all'art. 97 della Costituzione, che gli adempimenti connessi a tale
norma comportebbero uno "spreco di attività", rallentando
l'amministrazine della giustizia e così turbandone il buon
andamento.
La norma sarebbe anche irrazionale e concreterebbe un eccesso di
potere del legislatore perché solo nelle ipotesi di provvedimento
concernente la libertà provvisoria senza motivazione - e non anche
nelle altre ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988 -
potrebbe ragionevolmente ravvisarsi il dissenso di un componente del
Collegio rispetto alla maggioranza.
5. - Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o
comunque infondata.
La disciplina della verbalizzazione dei provvedimenti
giurisdizionali collegiali posta dall'art. 16 della l. n. 117 del
1988, risponderebbe all'esigenza di rendere applicabile, in ossequio
al principio di eguaglianza, anche agli organi giurisdizionali
collegiali la nuova disciplina sulla responsabilità civile dei
magistrati e ad assicurare, in ossequio al precetto dell'art. 28
della Costituzione, la natura personale e diretta della
responsabilità dei giudici componenti il collegio. In relazione a
tale esigenza la scelta operata dal legislatore non sarebbe
sindacabile e del tutto oscure sarebbero le obbiezioni
d'irrazionalità mosse con l'ordinanza di rimessione.
6. - Il Tribunale di Biella, con ordinanza 10 maggio 1988 (R.O. n.
327 del 1988), ha sollevato, a sua volta, questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione,
degli artt. 1, comma secondo, 2 e 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117,
nonché dell'art. 131 c.p.c., come modificato da detto art. 16.
Nell'ordinanza si rileva che, nell'ordinamento processuale civile,
la figura del relatore ha una funzione particolare in relazione alla
formazione della volontà del collegio. Egli riferisce agli altri
componenti sui fatti di causa e le questioni da decidere (art. 275
c.p.c.), assolvendo ad un compito essenziale ai fini del
funzionamento della giurisdizione.
Sarebbero, dunque, irrazionali le norme impugnate, in quanto non
prevedono un differente grado di responsabilità, all'interno
dell'organo collegiale, fra il relatore e gli altri membri non
relatori.
Ne deriverebbe la violazione dell'art. 3 della Costituzione,
perché non è differenziata la responsabilità dei membri del
collegio, con riguardo alla particolare loro posizione. Sarebbe,
inoltre, violato l'art. 28 della Costituzione in quanto esso non
consente la previsione di una responsabilità per fatto altrui.
Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, eccependo in via pregiudiziale l'inammissibilità della
questione per difetto di rilevanza, vertendo su norme che non
formavano oggetto di applicazione nel giudizio a quo. In via
subordinata ha dedotto l'infondatezza della questione, non ostando
l'art. 28 della Costituzione, alla responsabilità prevista dalle
norme impugnate per i magistrati e non essendo fondata la tesi
secondo la quale i membri dei collegi giudicanti non sarebbero tenuti
a controllare, consultando anche i fascicoli delle cause delle quali
non siano relatori, i fatti e le risultanze processuali.
7. - Con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 358 del 1988), nel corso
di un procedimento civile pendente dinanzi ad un pretore onorario di
Roma, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 7, terzo comma,
della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui prevede la
responsabilità dei pretori onorari non solo per dolo, come per i
conciliatori ed i giudici popolari, ma anche per la colpa di cui
all'art. 2, terzo comma, lett. b) e c) della l. n. 117 del 1988.
Secondo il giudice a quo tale differenza di trattamento non
troverebbe alcuna giustificazione.
Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile per difetto di rilevanza, perché essa non attiene né
ad una norma che deve essere applicata nel giudizio, né a norme che
ne regolano lo svolgimento.
Nel merito, si afferma che la questione è manifestamente
infondata, giacché la diversa disciplina dettata per il pretore
onorario troverebbe razionale fondamento nella sua qualifica
professionale e nella specifica formazione tecnica, per le quali egli
ragionevolmente sarebbe esposto a responsabilità anche per
violazione di legge.
8. - Con altra ordinanza, emessa il 2 maggio 1988 (R.O. n. 396 del
1988), il Tribunale di Bari - sezione specializzata per le
tossicodipendenze, composta dal presidente, un giudice e due esperti
- ha sollevato, in riferimento agli artt. 101, 104, 107 e 108 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7,
comma terzo, della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui
limita la responsabilità dei cittadini estranei alla magistratura
che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali ai
soli casi di dolo e colpa gravi di cui all'art. 2, comma terzo, lett.
b ) e c), con esclusione della "grave violazione di legge determinata
da negligenza inescusabile".
Secondo il giudice a quo la norma impugnata violerebbe gli artt.
101, 104 e 108 della Costituzione, implicando una disparità tra i
componenti del collegio in ordine all'obbligo di osservare la legge e
consentendo, assurdamente, "che i componenti c.d. laici possano, a
differenza degli altri, violare la legge senza conseguenze
personali", così alterandosi l'equilibrio interno del Collegio
giudicante.
Essa violerebbe anche l'art. 107, comma terzo, della Costituzione
- a norma del quale i magistrati si distinguono soltanto per le
funzioni esercitate - implicando una distinzione in rapporto alla
diligenza e perizia alle quali i componenti del collegio sono tenuti.
Dinanzi a questa Corte si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile per difetto di rilevanza riguardando norme non
applicabili nel giudizio a quo.
Ha dedotto, comunque, nel merito, l'infondatezza della questione.
In proposito, nelle note depositate, l'Avvocatura generale dello
Stato osserva che la ratio dell'esclusione della responsabilità dei
giudici laici per grave violazione di legge, è da ricercarsi sia
nella loro particolare esperienza professionale, diversa da quella
specifica nelle materie giuridiche propria dei giudici togati, sia
nel diverso apporto ad essi richiesto in relazione alla decisione.
9. - La Commissione tributaria di primo grado di Ravenna, con
ordinanza 28 aprile 1988 (R.O. n. 422 del 1988) - emessa nel corso di
un giudizio promosso da un contribuente avverso l'Ufficio IVA di
Ravenna - a sua volta ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della
Costituzione, nonché all'intero titolo quarto della Costituzione,
degli artt. 1, 7, terzo comma e 8, quarto comma, della l. 13 aprile
1988, n. 117.
Sulla rilevanza, nell'ordinanza di rimessione si afferma che le
questioni attengono alla costituzione del giudice e che essa sussiste
in quanto, ove le norme impugnate fossero illegittime, la decisione
della Commissione tributaria sarebbe nulla.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette
che la normativa della l. n. 117 del 1988 si applica anche alle
Commissioni tributarie. Mette quindi in evidenza alcune
irrazionalità che deriverebbero dal diverso regime di
responsabilità al quale sarebbero sottoposti i membri delle
commissioni tributarie, a seconda che siano magistrati o "membri
laici". Questi ultimi infatti, a differenza dei primi, rispondono
solo in caso di dolo e nelle ipotesi di colpa grave previsti
dall'art. 2, comma terzo, lett. b) e c) della l. n. 117 del 1988, con
esclusione dell'ipotesi della "grave violazione di legge determinata
da negligenza inescusabile".
Poiché i collegi giudicanti delle Commissioni Tributarie possono
(ai sensi dell'art. 2 d.P.R. n. 636 del 1972) essere composti e
presieduti da "magistrati" e da "estranei alla magistratura", secondo
il giudice a quo, dalla normativa impugnata deriverebbe la violazione
del principio di eguaglianza.
La violazione del diritto dei cittadini a che controversie
identiche siano decise da giudici di pari capacità o comunque tenuti
allo stesso grado di diligenza, costituirebbe violazione anche di un
principio generale desumibile dagli artt. 24 e 25 della Costituzione,
e dall'intero titolo quarto della Costituzione.
10. - Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, chiedendo in via pregiudiziale che le
questioni sollevate siano dichiarate inammissibili, per difetto di
rilevanza, riguardando norme che non dovevano essere applicate nel
giudizio a quo.
In via subordinata ha chiesto che siano dichiarate infondate.
In proposito l'Avvocatura Generale dello Stato è tornata a
sottolineare - come già in altri giudizi - che la ratio della
esclusione della responsabilità per grave violazione di legge del
giudice estraneo alla magistratura, è da individuare nella diversa
formazione culturale dei magistrati e dei laici.
Quanto alla diversità di trattamento degli utenti del servizio di
giustizia tributaria, essa deriverebbe non dalle norme impugnate, ma
da quelle che stabiliscono la composizione delle Commissioni
tributarie.
Comunque, la partecipazione ai collegi giudiziari di cittadini
estranei alla magistratura è espressamente prevista dall'art. 102
della Costituzione ed "alle diverse tendenze culturali dei singoli
Collegi Giudiziari", sarebbe posto rimedio "col sistema delle
impugnazioni e in definitiva con l'istituto del ricorso alla Corte
Suprema di Cassazione".
11. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia sezione
di Catania con ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988) ha
sollevato, in riferimento agli artt. 101, 104, 108 e 110 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'intera l.
13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui introduce e disciplina la
responsabilità dei giudici per colpa grave, con esclusione degli
artt. 10, 11, 12, 13, 14 e 15. In via subordinata ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3
della Costituzione, dell'art. 16 della stessa legge, nella parte in
cui dispone la verbalizzazione di ogni provvedimento giurisdizionale
collegiale, anche nel caso di decisione all'unanimità e di decisione
a maggioranza per il dissenso del relatore.
Affermata la rilevanza e la non manifesta infondatezza di tali
questioni, l'ordinanza osserva che la normativa impugnata contrasta
col principio di "terziarità" del giudice rispetto alle parti in
causa, così ledendone l'indipendenza, che ad essa è strettamente
collegata. Infatti la l. n. 117 del 1988 conferirebbe alle parti
"strumenti per condizionare il comportamento del giudice nel
processo", giacché la previsione di una responsabilità per colpa
grave introdurrebbe "meccanismi di controprocesso" a carico del
magistrato.
Inoltre, la proposizione di un'azione di responsabilità verso lo
Stato ai sensi della legge impugnata, costituirebbe, per il
magistrato, un fattore di intimidazione preventiva in relazione alla
sua futura attività giurisdizionale concernente la stessa parte che
ha proposto l'azione o, comunque, a controversie analoghe a quella da
cui tale azione è scaturita. L'esperibilità dell'anzidetta azione
spingerebbe il magistrato alla totale adesione ai principi
consolidati e segnerebbe la fine di ogni innovazione
giurisprudenziale, nonché la "tendenza dei giudici a convergere
verso valori medi e dominanti in tutti i casi in cui il giudizio si
sostanzi in una scelta di valori".
D'altro canto, la possibilità d'errore connaturata col processo
(l'istituto del giudicato serve, appunto, ad escludere la rilevanza
dell'errore dal momento in cui si forma) e l'esistenza, all'interno
di esso, dei mezzi d'impugnazione, rendono incompatibile - secondo il
giudice a quo - un sindacato, all'esterno del processo, alla stregua
del criterio di colpa, sul modo in cui il giudizio si è svolto.
A conforto di tali considerazioni - ed a sostegno del profilo
d'incostituzionalità attinente all'art. 10 della Costituzione -
nell'ordinanza di rimessione si deduce altresì che l'Assemblea
generale dell'O.N.U., con una risoluzione adottata il 29 novembre
1985, ha ritenuto di dover pronunziarsi negativamente sulla
ammissibilità di una responsabilità civile per colpa dei
magistrati.
Tale statuizione - secondo il giudice a quo - deve qualificarsi
come norma di diritto internazionale generale, in quanto contenuta in
un atto avente appunto natura di fonte di norme giuridiche
internazionali di carattere generale.
Quanto alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 16
della l. n. 117 del 1988 - sollevata in via subordinata alla
eventuale declaratoria di non fondatezza delle questioni anzi dette -
il giudice a quo contesta la ragionevolezza di esso nella parte in
cui impone la verbalizzazione dei provvedimenti giurisdizionali
collegiali anche nel caso di decisione all'unanimità e di decisione
a maggioranza per il dissenso del relatore.
Un ulteriore sospetto di incostituzionalità sotto il profilo del
contrasto con il principio di ragionevolezza viene prospettato,
infine, con riferimento all'assimilazione della responsabilità del
giudice estensore della sentenza (normalmente coincidente con il
relatore della causa) a quella degli altri componenti del collegio
che hanno espresso voto conforme alla decisione.
In proposito, nell'ordinanza si sottolinea che soltanto il
relatore-estensore, in quanto unico giudice a ricevere in consegna il
fascicolo della causa per lo studio e la relazione al collegio, è in
condizione di avere la diretta percezione di tutti gli atti e i
documenti processuali; inoltre, a fronte della collegialità della
deliberazione del dispositivo, la stesura della motivazione è opera
esclusiva dell'estensore.
12. - Anche nel giudizio così promosso è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni
siano dichiarate non fondate.
Nelle note depositate si osserva in proposito che l'affermazione
di principio sulla quale si basa l'ordinanza di rinvio, che cioè la
responsabilità del giudice per colpa grave sarebbe in contrasto con
precetti della Costituzione, è stata già smentita dalla Corte
costituzionale con la sentenza marzo 1968, n. 2, secondo la quale
l'art. 28 della Costituzione ha fissato un principio generale
valevole anche per i magistrati. La normativa impugnata, secondo
l'Avvocatura generale dello Stato, ponendo limiti alla
responsabilità del giudice per colpa grave, darebbe appunto
attuazione a tale principio, tenendo nel debito conto la peculiarità
della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti
giudiziali e la posizione super partes del magistrato. Inoltre, la
specifica elencazione delle ipotesi che realizzano la colpa grave del
giudice, diversificano chiaramente il giudizio di responsabilità da
quello di impugnazione ed escludono che la responsabilità possa
insorgere in relazione alla scelta di tesi giurisprudenziali.
La prescrizione della verbalizzazione del provvedimento
giurisdizionale, sia esso adottato all'unanimità ovvero a
maggioranza, risponde alla esigenza di salvaguardare la segretezza
della deliberazione collegiale fin quando questa non risulti in
chiaro contrasto con l'esigenza - avente anch'essa rilievo
costituzionale - di garantire la natura personale e diretta della
responsabilità dei giudici componenti il collegio ed evitare ogni
possibilità di configurare forme di responsabilità oggettiva.
Considerato in diritto
1. - La Corte è chiamata a pronunciarsi su un insieme di
questioni attinenti tutte al tema della responsabilità civile del
giudice, accomunate dall'oggetto e da profili analoghi, cosicché i
relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica
sentenza.
2. - La questione più generale, sollevata dal Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia, sezione di Catania, con
ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988), investe sotto un
duplice profilo l'intera l. 13 aprile 1988, n. 117 nella parte in cui
prevede e disciplina la responsabilità civile dei giudici per colpa
grave sotto un duplice profilo.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale remittente, la
previsione, in sé, di tale responsabilità contrasterebbe,
innanzitutto, con gli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione,
compromettendo l'imparzialità della magistratura, con l'attribuire
alle parti uno strumento di pressione idoneo ad influenzarne le
decisioni.
La possibilità di un "controprocesso, con finalità sanzionatorie
a carico del magistrato, farebbe sorgere in lui, al momento della
decisione di ogni controversia, un elemento d'interesse personale
alla prudenza, al conformismo, alle scelte meno rischiose in
relazione agl'interessi economici coinvolti nella causa", in
contrasto con il principio della soggezione del giudice soltanto alla
legge. Ne deriverebbe la lesione della sua stessa indipendenza, che
ha per presupposto uno status di piena libertà da ogni influenza e
intimidazione esterna.
Inoltre, la proposizione in concreto di azioni di danno verso lo
Stato, esponendo il giudice all'eventuale rivalsa, inciderebbe sulla
sua serenità - e quindi ancora sulla sua indipendenza - in relazione
a giudizi analoghi a quelli che abbiano dato luogo a tali azioni,
nonché ad altri proposti dinanzi a lui dalle stesse parti,
esplicando una "forza psicologica di dissuasione dalla reiterazione
di decisioni identiche o analoghe alla precedente". I giudici infine,
sarebbero spinti all'adesione forzata a principi giurisprudenziali
consolidati, per porsi al riparo da responsabilità, con la
conseguente compromissione dell'indipendenza della magistratura e di
ogni evoluzione giurisprudenziale.
Nell'ordinanza di rimessione si rileva ancora che la possibilità
di errore è connaturata al processo e l'esistenza, all'interno del
processo, di appositi mezzi d'impugnazione finalizzati
all'eliminazione dell'errore, costituiscono ragione
d'incompatibilità fra processo e responsabilità del giudice a
titolo di colpa.
Prospettando un secondo profilo d'incostituzionalità, il giudice
a quo deduce che l'Assemblea generale dell'O.N.U., tenendo conto
della particolarità della funzione giurisdizionale, con una
risoluzione adottata il 29 novembre 1985, ha affermato il principio
secondo il quale i giudici devono godere d'immunità personale dalle
azioni civili di risarcimento dei danni patrimoniali derivanti da
atti impropri od omissioni nell'esercizio delle funzioni
giurisdizionali. Poiché detta risoluzione dovrebbe qualificarsi come
norma di diritto internazionale generale, la legge impugnata
violerebbe l'art. 10 della Costituzione, il quale stabilisce che
l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute.
3. - La questione è infondata sotto entrambi i profili.
Va premesso che la legge 13 aprile 1988, n. 117 rappresenta il
punto di arrivo di una lunga evoluzione che, in materia di
responsabilità civile del giudice, ha conosciuto in Italia
significativi mutamenti.
Nei secoli dal XII al XV, prima del sorgere e dell'affermarsi dei
tribunali supremi, l'interpretazione del diritto all'interno dei vari
Stati italiani (spesso assai piccoli) era stata opera dei "dottori",
glossatori o commentatori-consulenti. Ciò essi avevano fatto
specialmente con i loro Consilia, basati sulla communis opinio e dati
ai giudici dell'epoca, spesso inesperti del giure e sottoposti al
sindacato di responsabilità, senza distinzione tra dolo e colpa. Da
questa indicazione muove il sentiero normativo non sempre lineare,
svoltosi, in un lungo arco di tempo, in parallelo con il vario
configurarsi della posizione del giudice.
L'affievolimento dell'idea dello Stato e della legge come volontà
dello Stato, determinato dalle invasioni barbariche, si riflesse
sull'idea della giurisdizione come funzione statale, funzione cioè
di formulazione e di attuazione della volontà della legge. E quanto
più la giurisdizione, dapprima con lo stabilimento delle istituzioni
feudali, poi con il frazionarsi sempre crescente della sovranità, si
venne polverizzando fra i giudici più diversi (popolari, regi,
imperiali, feudali, ecclesiastici, comunali) e venne assumendo
l'aspetto di una prerogativa del giudice, avente carattere
patrimoniale, trasmissibile ed alienabile, tanto più il processo
cessò di essere considerato come istituto pubblico di attuazione
della legge, e si profilò esclusivamente come una contesa fra
litiganti: il giudice non fu più considerato come l'organo pubblico
di una funzione statale, ma come l'arbitro incaricato di dirimere
questa contesa in base ai risultati delle prove.
Poi, col sorgere e col consolidarsi della figura del
giudice-funzionario, al quale era delegata l'amministrazione della
giustizia, si aprì la via, da un lato, al delinearsi con maggiore
precisione della responsabilità disciplinare, dall'altro, alla
limitazione della sua responsabilità civile ai soli fatti dolosi.
Su tali basi erano impostati la disciplina dell'art. 783 del
codice di procedura civile del 1865, il quale già limitava,
sostanzialmente, la responsabilità civile del giudice alle ipotesi
di "dolo, frode o concussione" e "denegata giustizia", nonché gli
artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile del 1940.
Questo assetto normativo privilegiava la responsabilità interna a
carattere disciplinare - del giudice, rispetto alla responsabilità
esterna, nel quadro di un ordinamento in cui non si erano ancora
affermati i principi - frutto di lunga evoluzione e di progressivo
ampliamento - relativi alla responsabilità in generale della
Pubblica Amministrazione.
Già prima della Costituzione repubblicana, dottrina e
giurisprudenza concordavano nell'affermazione (che trovò maggiore
ostacolo nei confronti dell'amministrazione militare e di quella
ferroviaria) del principio che la lesione del precetto del neminem
ledere determinava la responsabilità dell'ente pubblico.
Svolgimento di tale principio, con connessa specificazione dei
soggetti tenuti, è la regola enunciata nell'art. 28 della
Costituzione, secondo la quale i funzionari e i dipendenti dello
Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo
le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in
violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si
estende allo Stato e agli enti pubblici.
Questo precetto è stato interpretato nel senso che la
responsabilità dello Stato può esser fatta valere anteriormente o
contestualmente con quella dei funzionari e dei dipendenti, non
avendo carattere sussidiario (Corte cost. 8 giugno 1963, n. 88).
Quanto al valore del riferimento alle "leggi penali, civili e
amministrative", destinate a regolare in concreto la responsabilità
dei dipendenti pubblici, è da richiamare il t.u. delle disposizioni
concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10
gennaio 1957 n. 3). Secondo gli artt. 22 e 23 di tale normativa,
l'impiegato statale che "nell'esercizio delle attribuzioni ad esso
conferite dalla legge o dai regolamenti cagioni ad altri un danno
ingiusto" è personalmente obbligato a risarcirlo (art. 22, primo
comma). È danno ingiusto (inquadrabile nella sfera dell'art. 2043 c.
civ.) quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che
l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave "salve le
responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti" (art. 23,
primo comma). L'azione di risarcimento nei confronti dell'impiegato
statale può "essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta
nei confronti dell'Amministrazione, qualora in base alle norme ed ai
principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la
responsabilità dello Stato" (art. 22, primo comma). Nel caso che, in
seguito all'esperimento dell'azione diretta, l'Amministrazione abbia
risarcito il danno, è prevista l'azione in rivalsa contro il
dipendente (art. 22, secondo comma e 18, primo comma d.P.R. cit.).
5. - Mentre per gl'impiegati civili dello Stato venne emanata tale
normativa, che, in attuazione dell'art. 28 della Costituzione, li
rendeva direttamente responsabili dei "danni ingiusti" cagionati
nell'esercizio delle loro attribuzioni per colpa grave o dolo, per i
magistrati restò ferma la previgente disciplina, nella sua
consistenza di ius singulare, posta dagli artt. 55, 56 e 74 c.p.c..
In base a questa il giudice era civilmente responsabile soltanto
quando nell'esercizio delle sue funzioni fosse "imputabile di dolo,
frode o concussione" o quando senza giusto motivo rifiutasse,
omettesse o ritardasse "di provvedere sulle domande o istanze della
parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero". Tali
ipotesi si consideravano avverate solo ove la parte avesse depositato
in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o
l'atto e fossero decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito.
L'azione di responsabilità del giudice non poteva essere proposta
senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia.
Tale sistema determinava, in un certo senso, l'inversione della
situazione normativa previgente all'entrata in vigore della
Costituzione, poiché, mentre a quell'epoca soltanto per i magistrati
era legislativamente sancita una responsabilità diretta - sia pure
nelle limitate ipotesi anzi dette - con l'emanazione della
Costituzione e poi del d.P.R. n. 3 del 1957, per gl'impiegati civili
dello Stato venne ad essere sancita una responsabilità più ampia,
diretta verso i terzi; in rivalsa, verso lo Stato.
Tale normativa si caratterizza per un diverso ambito di
operatività della responsabilità civile dello Stato verso i terzi:
infatti, mentre si ritiene che l'art. 23 dello statuto degli
impiegati civili dello Stato, stabilendo che il dipendente risponde
verso i terzi danneggiati solo se abbia agito con dolo o colpa grave,
non escluda che, anche fuori da tali ipotesi, il danneggiato possa
agire contro lo Stato; viceversa, in tema di danni derivanti
dall'esercizio di attività giudiziaria, è principio consolidato in
giurisprudenza che la responsabilità dello Stato sussiste solo nei
limiti in cui si è in presenza di una responsabilità del giudice a
norma dell'art. 55 c.p.c. e, cioè, solo qualora il fatto produttivo
di danno sia ascrivibile a dolo, frode o concussione del giudice e
nell'ipotesi di "denegata giustizia".
6. - In tale contesto normativo e giurisprudenziale questa Corte,
con la sentenza 14 marzo 1968, n. 2 - pronunciata quando erano in
vigore gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. - ha fissato alcuni principi, in
materia di responsabilità civile dei pubblici impiegati in generale;
tali princìpi è opportuno richiamare prima di passare all'esame dei
profili d'incostituzionalità prospettati con l'ordinanza del
Tribunale amministrativo regionale remittente.
Innanzitutto la Corte ha affermato che l'art. 28 della
Costituzione, con l'espressione "funzionari e dipendenti" dello
Stato, ha inteso riferirsi anche ai magistrati.
In secondo luogo ha ritenuto che il principio generale, stabilito
dall'art. 28, della responsabilità diretta dei pubblici dipendenti,
compresi i magistrati, non esclude, stante il rinvio alle leggi
ordinarie, che tale "responsabilità sia disciplinata variamente per
categorie e per situazioni". Appunto la peculiarità della funzione
giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziari, la stessa
posizione super partes del magistrato, legittimano la previsione di
"condizioni e limiti alla sua responsabilità"; senza, peraltro,
giungere ad una negazione totale di essa, che si porrebbe in
contrasto con l'art. 28 della Costituzione ed anche con l'art. 3, per
l'irragionevole differenza di trattamento rispetto agli altri
pubblici funzionari e dipendenti.
A proposito, infine, della responsabilità dello Stato, la Corte
ha statuito che, in materia di danni derivanti dall'attività
giudiziaria, a norma dell'art. 28 della Costituzione, lo Stato deve
rispondere necessariamente ove, secondo la disciplina vigente, debba
rispondere il giudice, mentre, "quanto alle altre violazioni di
diritti soggettivi", cagionate dal giudice fuori delle ipotesi in cui
egli debba rispondere, "il diritto al risarcimento nei riguardi dello
Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale", ma può
derivare da principi generali dell'ordinamento o da una specifica
legge ordinaria.
In epoca più recente la giurisprudenza, in più stretto
collegamento con il principio stabilito dall'art. 2043 cod.civ.,
ritenuto ormai generalmente applicabile alla P.A. sulla base del
rapporto organico corrente tra l'ufficio del giudice e lo Stato, era
giunta all'affermazione di una responsabilità diretta di
quest'ultimo anche al di fuori delle ipotesi in cui il giudice poteva
essere chiamato a rispondere direttamente del danno.
7. - In questo quadro si è inserito il referendum del 1987 sugli
artt. 55, 56 e 74 c.p.c., risoltosi con la loro abrogazione. A questa
ha fatto seguito l'emanazione della l. 13 aprile 1988, n. 117, con la
quale il Parlamento ha posto una nuova disciplina della materia,
sorretta dalla considerazione della peculiarità della funzione
giudiziaria che - come questa Corte aveva enunciato nella sentenza 3
febbraio 1987, n. 26, ammissiva del referendum - rende necessaria la
previsione di condizioni e limiti alla responsabilità dei
magistrati, in considerazione "dei disposti costituzionali
appositamente dettati per la magistratura (artt. 101-113) a tutela
della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni".
La legge impugnata si applica (art. 1) a tutti gli appartenenti
alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e
speciali che esercitano attività giudiziaria, ivi compresi i
magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali,
nonché "agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione
giudiziaria".
Il legislatore, restringendo l'ambito della responsabilità diretta
dei magistrati nei limiti consentiti dalla disposizione dell'art. 28
della Costituzione, ha previsto che essi rispondano direttamente
nella sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato,
commessi nell'esercizio delle loro funzioni (art. 13, primo comma).
Nelle altre ipotesi in cui è prevista la risarcibilità dei danni
(art. 2 e 3) derivanti dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, il
danneggiato può agire solo verso lo Stato, al quale è poi
attribuita una limitata azione di rivalsa (artt. 7 e 8).
8. - Le ipotesi in cui è ammessa l'azione contro lo Stato - e
quindi la rivalsa contro il magistrato - sono tassativamente
determinate dagli artt. 2 e 3 della legge. A norma dell'art. 2 "chi
ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un
atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato
con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per
diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il
risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale".
Secondo l'espressa - e tassativa - statuizione dell'articolo:
"costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza
inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di
un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti
del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un
fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del
procedimento;
d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della
persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza
motivazione". L'articolo precisa che "non può dare luogo a
responsabilità l'attività d'interpretazione di norme di diritto né
quella di valutazione del fatto e delle prove".
L'altra tassativa ipotesi in cui è ammessa l'azione di
responsabilità è costituita dal "diniego di giustizia", regolato
dall'art. 3, a norma del quale "costituisce diniego di giustizia il
rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di
atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il
compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il
provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo,
trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria". Tale termine
può essere prorogato, con decreto motivato, dal capo dell'ufficio,
mentre è ridotto a cinque giorni, ed è improrogabile, in tema di
libertà personale dell'imputato.
L'azione contro lo Stato, nei casi previsti dall'art. 2, può
essere esercitata (art. 4) soltanto quando siano stati esperiti i
mezzi ordinari d'impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i
provvedimenti cautelari e sommari, o quando non siano più possibili
la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non
sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento
nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il
danno. L'azione può comunque essere esercitata decorsi tre anni
dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tale termine non
si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il
fatto si è verificato.
In ogni caso l'azione va esercitata, a pena di decadenza, nel
termine di due anni ed è previsto un giudizio preliminare di
ammissibilità della stessa, inteso (art. 5) a verificare che siano
rispettati "i termini o i presupposti di cui gli artt. 2, 3 e 4" e
che non sussista la manifesta infondatezza della domanda.
L'art. 7 dispone che, entro un anno dall'avvenuto risarcimento, lo
Stato esercita l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato. La
misura della rivalsa (art. 8), esclusi i casi di responsabilità del
magistrato per dolo, non può superare una somma "pari al terzo di
un'annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali,
percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è
proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e
queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità".
L'esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante
trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il
pagamento di rate mensili in misura superiore al quinto dello
stipendio netto.
9. - La disciplina posta dalla l. n. 117 del 1988 è
caratterizzata dalla costante cura di predisporre misure e cautele
idonee a salvaguardare l'indipendenza dei magistrati nonché
l'autonomia e la pienezza dell'esercizio della funzione giudiziaria.
È muovendo da questa constatazione di carattere generale che
occorre procedere all'esame dei profili d'incostituzionalità della
legge sollevati dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia
in riferimento agli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione.
Come questa Corte ha affermato (sentenze 3 maggio 1974, n. 128; 27
marzo 1969, n. 60), il principio dell'indipendenza è vo'lto a
garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione
super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla
causa da decidere. A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in
ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di
pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare
l'obbiettività della decisione. La disciplina dell'attività del
giudice deve perciò essere tale da rendere quest'ultima immune da
vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o
sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile,
a renderla "libera da prevenzioni, timori, influenze che possano
indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano
scienza e coscienza". Peraltro (sentenza 14 marzo 1968, n. 2),
"l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e del giudice non
pongono l'una al di là dello Stato, quasi legibus soluta, né
l'altro fuori dell'organizzazione statale". Il magistrato deve essere
indipendente da poteri e da interessi estranei alla giurisdizione, ma
è "soggetto alla legge": alla Costituzione innanzi tutto, che
sancisce, ad un tempo, il principio d'indipendenza (artt. 101, 104 e
108) e quello di responsabilità (art. 28), al fine di assicurare che
la posizione super partes del magistrato non sia mai disgiunta dal
corretto esercizio della sua alta funzione.
10. - La Corte ha già rilevato (cfr. nn. 3 e 4) che l'art. 28
della Costituzione pone la regola - valida per i funzionari e i
dipendenti pubblici (e, quindi, anche per i giudici) - della loro
responsabilità diretta per "gli atti compiuti in violazione di
diritti", secondo "le leggi penali, civili ed amministrative". La
legge impugnata - facendo corretta applicazione dei princìpi
affermati da questa Corte nelle citate sentenze 14 marzo 1968, n. 2 e
3 febbraio 1987, n. 26 - secondo i quali, in relazione alla
peculiarità della funzione giudiziaria, la responsabilità ex art.
28 della Costituzione va regolata con la previsione di condizioni e
di limiti a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità del giudice
- ha riferito la responsabilità diretta del giudice alla sola
ipotesi di danni derivati da fatti costituenti reato. La
responsabilità indiretta verso lo Stato con la quale si è inteso
correggere tale ampia limitazione della responsabilità diretta del
giudice, è, a sua volta, limitata a talune fattispecie rigidamente
definite.
La limitatezza e tassatività delle fattispecie in cui è
ipotizzabile una colpa grave del giudice, rapportate a "negligenza
inescusabile" in ordine a violazioni di legge o accertamenti di
fatto, ovvero all'emissione di provvedimenti restrittivi della
libertà fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione;
la specifica e circostanziata delimitazione della responsabilità per
"diniego di giustizia", non consentono di ritenere che esse siano
idonee a turbare la serenità e l'imparzialità del giudizio, come
afferma l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per la
Sicilia. Il giudizio, per definizione è, infatti, diretto
all'accertamento dei fatti ed all'applicazione delle norme,
attraverso un'attività di valutazione ed interpretazione, nella
quale al giudice sono riservati ampi spazi.
La garanzia costituzionale della sua indipendenza è diretta
infatti a tutelare, in primis, l'autonomia di valutazione dei fatti e
delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto.
Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art.
2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera
d'irresponsabilità, fino al punto in cui l'esercizio della
giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca
in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile
dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa.
Né può sostenersi - come fa il giudice a quo - che la legge
impugnata spingerebbe il giudice a scelte interpretative accomodanti
e a decisioni meno rischiose in relazione agl'interessi in causa,
così influendo negativamete sulla sua imparzialità. Come si è ora
rilevato, l'art. 2, comma secondo, della l. n. 117 esclude
espressamente che possa dar luogo a responsabilità "l'attività
d'interpretazione di norme di diritto" e quella di valutazione del
fatto e delle prove.
Tale statuizione rende parimenti priva di fondamento la censura,
secondo la quale la proposizione di un'azione di risarcimento di
danni verso lo Stato, riferita ad una determinata causa, potrebbe
turbare l'imparzialità del giudice riguardo a cause analoghe o nelle
quali sia parte colui che abbia promosso il giudizio di
responsabilità. Ove ne ricorrano gli estremi, soccorre in tale caso
il rimedio dell'astensione. Comunque, va sottolineato che la
previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l.
cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di
azioni "manifestamente infondate", che possano turbarne la serenità,
impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per
l'astensione e la ricusazione.
11. - Per quanto riguarda la dedotta violazione dell'art. 10 della
Costituzione, sotto il profilo del contrasto con la risoluzione
dell'O.N.U. adottata il 29 novembre 1985 - che ha affermato il
principio secondo il quale i giudici debbono godere di una immunità
riguardo alle azioni civili per danni "derivanti da atti impropri od
omissioni nell'esercizio delle loro funzioni giurisdizionali" - la
questione va dichiarata non fondata. A norma dell'art. 10 della
Costituzione "l'ordinamento italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute" e tra queste non
rientrano le statuizioni contenute nelle risoluzioni dell'O.N.U. in
materia di dichiarazioni di principio alle quali, secondo la prassi
internazionale, è negato carattere cogente.
Esse, infatti, non costituiscono fonti di diritto, pur potendo
avere influenza nella formazione di consuetudini e di accordi
conformi al loro contenuto.
Il principio anzi detto, comunque, si inserisce in un insieme di
enunciazioni dirette a garantire l'indipendenza della magistratura e,
in relazione a tale finalità, non sembra che esso implichi,
necessariamente, il carattere totale dell'irresponsabilità, ben
potendo l'indipendenza della magistratura essere garantita con
apposite limitazioni e cautele, come ha ritenuto questa Corte, in
riferimento all'art. 28 della Costituzione, e come ha, per quanto si
è finora rilevato, rettamente disposto la l. n. 117.
12. - Passando gradatamente all'esame delle altre questioni, è da
considerare quella, prospettata dal Tribunale di Biella con ordinanza
10 maggio 1988 (R.O. n. 327 del 1988), relativa agli artt. 1, comma
secondo, 2 e 16 della l. n. 117 del 1988 cit., nonché all'art. 131
c.p.c., come modificato dall'art. 16 di questa legge.
Secondo l'ordinanza le norme impugnate, in quanto non stabiliscono
"un diverso grado di responsabilità", all'interno del collegio, tra
il relatore e gli altri giudici, contrasterebbero con gli artt. 3 e
28 della Costituzione. Sarebbe irragionevole, infatti, che i membri
del collegio diversi dal relatore rispondano nella stessa misura, in
tal modo configurandosi, in alcuni casi, una responsabilità per
fatto altrui.
In proposito il giudice a quo - il quale ha sollevato la questione
con riferimento ad un processo civile - osserva che, secondo le norme
del codice di procedura civile (artt. 275 e 738 c.p.c.), il giudice
relatore "fa la relazione della causa, esponendo i fatti e le
questioni". Sarebbe da escludere che anche gli altri componenti del
collegio siano tenuti ad esaminare gli atti di causa, a ciò ostando
l'immensa mole di lavoro gravante sui tribunali, che a fatica e con
tempi già lenti può essere svolto solo limitando il contributo, da
parte dei membri del collegio, alla decisione delle questioni così
come prospettate dal relatore. Ne deriverebbe che, riguardo alle
singole ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988, la
responsabilità del relatore e degli altri membri del collegio
dovrebbe essere differenziata.
In ordine alla rilevanza della questione, il Tribunale di Biella
ha affermato che la decisione da assumere nel giudizio a quo "è
concretamente e immediatamente produttiva di una responsabilità
potenziale, potendo dar luogo ad un giudizio di responsabilità". Le
norme impugnate, pertanto, influirebbero sulla serenità e
indipendenza di giudizio dei membri del collegio e, sotto tale
profilo, inciderebbero sull'esito del giudizio a quo.
L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Presidente
del Consiglio dei ministri, ha contestato la rilevanza della
questione, in quanto attinente a norme che non vengono in
applicazione nel giudizio a quo.
Questione analoga è stata sollevata anche con la già citata
ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 406 del 1988) del Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento all'art. 16
della l. 13 aprile 1988, n. 117, e con riguardo all'art. 3 della
Costituzione.
13. - L'eccezione d'irrilevanza è infondata.
L'art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, stabilendo che la
questione di costituzionalità proposta debba esser tale che "il
giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione" di essa, implica, di regola, che la rilevanza sia
strettamente correlata all'applicabilità della norma impugnata nel
giudizio a quo. Tuttavia, come questa Corte ha già implicitamente
ritenuto in altre occasioni (cfr. Corte cost. 24 novembre 1982, n.
196; 4 luglio 1977, n. 125; 15 maggio 1974, n. 128), debbono
ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo
direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status
del giudice, alla sua composizione nonché, in generale, alle
garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare. L'eventuale
incostituzionalità di tali norme è destinata ad influire su ciascun
processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la
composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la "protezione"
dell'esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano
ai diritti.
14. - Nel merito la questione è infondata.
La decisione emessa dall'organo giudiziario collegiale, nel nostro
ordinamento, tanto in materia civile che penale, è un atto unitario,
alla formazione del quale concorrono i singoli membri del collegio,
in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri.
La disciplina del processo infatti, è caratterizzata da un
complesso di regole, alla stregua delle quali la decisione, sia essa
sentenza, ordinanza o decreto, non rappresenta la somma di distinte
volontà e convincimenti dei membri del collegio, ma la loro sintesi
- operata secondo la regola maggioritaria - la quale rende la
decisione impersonale e imputabile al collegio nel suo insieme.
Per quanto concerne il processo civile, al quale specificamente si
riferisce la questione sollevata del Tribunale di Biella, ciò emerge
in maniera evidente dal disposto dell'art. 276 c.p.c., relativo al
giudizio di primo grado - richiamato dagli artt. 359 per il giudizio
di appello e 380 per quello di cassazione - secondo il quale "se
intorno ad una questione si prospettano più soluzioni e non si forma
la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti la
non esclusa e quella eventualmente restante e così successivamente
finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la
votazione definitiva". Tale meccanismo comporta che la decisione
possa essere, per il formarsi di maggioranze diverse sulle varie
questioni, diversa da quella che ciascuno dei membri del collegio
avrebbe adottato se fosse stato giudice monocratico. Coerentemente,
la motivazione della sentenza (art. 132 c.p.c.) (e non rileva in
questa sede il riferimento al complesso dei valori sociali e
istituzionali che ne sorreggono l'obbligo ex art. 111, primo comma,
della Costituzione), consiste nella esposizione dei motivi di fatto e
di diritto "della decisione" e quindi nell'indicazione dell'iter
logico che ha portato ad essa, senza che abbiano rilievo e necessità
di menzione eventuali opinioni dissenzienti, tanto in relazione alle
singole questioni che al decisum. Né la circostanza che essa sia
estesa dal relatore o - in caso di suo dissenso - dal presidente o da
altro giudice che abbia espresso voto conforme alla decisione (artt.
276 c.p.c.; 118 e 119 disp. att. c.p.c.), differenzia la posizione di
questi da quella degli altri membri del collegio.
Tale struttura della decisione collegiale è diversa da quella
prevista in altri ordinamenti, nei quali è riconosciuta autonomia
alla posizione assunta da ciascun membro del collegio, attraverso la
documentazione, nella sentenza, delle motivazioni (eventualmente
diverse) di ciascun giudice, o del suo dissenso (con le relative
ragioni) sullo stesso decisum. Né può ritenersi che la struttura
unitaria delle decisioni collegiali, nel nostro ordinamento, sia
stata alterata (a prescindere dal problema della sua legittimità
costituzionale, del quale ci si occuperà in seguito) dal disposto
del comma aggiunto all'art. 131 c.p.c. dall'art. 16 della l. n. 117
del 1988, a norma del quale "dei provvedimenti collegiali è
compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la
menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso,
succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da
indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna
delle questioni decise".
Quanto alla funzione del relatore, essa - secondo gli artt. 275 e
738 c.p.c. citati nell'ordinanza di rimessione - è caratterizzata da
un'attività ulteriore rispetto a quella degli altri membri del
collegio, costituita dal dovere di fare la relazione della causa, ma
nessuna delle norme che regolano il giudizio collegiale, riserva a
lui la disponibilità degli atti di causa e l'esame di essi ai fini
del decidere.
In tale contesto normativo, l'avere attribuito, in linea di
principio, come il legislatore ha fatto, pari responsabilità ai
membri del collegio, per le decisioni prese erroneamente, nelle
ipotesi qualificate dall'art. 2 come fattispecie di "colpa grave",
non appare affatto in contrasto né con l'art. 3, né con l'art. 28
della Costituzione. Infatti la pari responsabilità è correlata alla
parità di doveri di ciascun membro del collegio - sulla quale non
incide il compito specifico del relatore di fare la relazione al
collegio - ed alla struttura unitaria della motivazione e del decisum
degli organi giudiziari collegiali. È ovvio che tale affermazione
presuppone l'agevole possibilità di accesso all'informazione e alla
documentazione da parte di tutti i membri del collegio.
15. - Altra questione, prospettata dalla sezione specializzata per
le tossicodipendenze del Tribunale di Bari, con ordinanza 2 maggio
1988 (R.O. n. 396 del 1988), riguarda la legittimità costituzionale
dell'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella
parte in cui limita la responsabilità dei cittadini "estranei alla
magistratura" che concorrono a formare o formano organi giudiziari
collegiali, ai soli casi di dolo ed a quelli di colpa grave previsti
dall'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c), così escludendo ogni loro
responsabilità per l'ipotesi di grave violazione di legge
determinata da negligenza inescusabile, prevista dall'art. 2, lett.
c).
Secondo il giudice a quo la norma impugnata violerebbe gli artt.
101, comma secondo, 104, comma primo e 108, comma secondo, della
Costituzione in quanto, implicando che "i componenti c.d. laici
possano, a differenza degli altri, eventualmente violare la legge
senza conseguenze personali, determina una inconcepibile alterazione
dell'equilibrio interno del collegio giudicante, garantito
dall'ordinamento con il sistema del voto di ciascun componente,
espresso in piena e uguale libertà". La norma impugnata violerebbe
l'art. 107, comma terzo, della Costituzione, in quanto
differenzierebbe i giudici non già soltanto in base alla diversità
delle funzioni esercitate - come prescrive l'art. 107, comma terzo ma
anche in base alla diligenza alla quale i diversi componenti del
collegio sono tenuti. Si porrebbe, infine, in espresso contrasto con
l'art. 101, comma secondo, della Costituzione perché, assoggettando
i giudici alla legge, vieterebbe che alcuni di essi possano essere
esonerati dalla responsabilità prevista in via generale per "grave
violazione di legge determinata da negligenza inescusabile" (art. 2,
comma terzo, lett. a), l. n. 117 del 1988).
Questione analoga è stata sollevata anche dalla Commissione
tributaria di primo grado di Ravenna, con ordinanza 28 aprile 1988
(R.O. n. 422 del 1988) con la quale è stata dedotta l'illegittimità
costituzionale degli artt. 1, 7, terzo comma, e 8, quarto comma,
della l. 13 aprile 1988, n. 117, sotto il profilo che essi, limitando
la responsabilità dei "membri laici" delle commissioni tributarie ai
soli casi di dolo o colpa grave previsti dall'art. 2, comma terzo,
lett. b ) e c) della l. n. 117 del 1988, con esclusione della grave
violazione di legge determinata da negligenza inescusabile,
contrasterebbero con gli artt. 3, 24, 25 e l'intero titolo quarto
della Costituzione. Con l'art. 3 della Costituzione in quanto,
all'interno del collegio, la disciplina differenziata in sede di
rivalsa sarebbe incompatibile con l'esigenza della parità di
trattamento fra quanti esercitano identici compiti ed identiche
funzioni ed in quanto sussisterebbe una ingiustificata disparità di
trattamento fra utenti della giustizia tributaria: non sarebbe
possibile ammettere che controversie identiche vengano giudicate da
giudici tenuti a maggiore o minor diligenza. Con gli artt. 24 e 25 e
con l'intero titolo quarto della Costituzione, in quanto le norme
impugnate violerebbero il diritto dei cittadini a che controversie
identiche siano decise da giudici di pari capacità o comunque tenuti
allo stesso grado di diligenza.
Altra questione, che investe pure l'art. 7, terzo comma, della l.
13 aprile 1988, n. 117, è stata sollevata sotto altro aspetto dal
Pretore onorario di Roma, con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 358
del 1988). In tale ordinanza il giudice a quo deduce il contrasto con
l'art. 3 della Costituzione dell'art. 7, terzo comma, su detto "nella
parte in cui prevede la responsabilità dei Pretori onorari, non solo
per dolo ma anche per colpa grave, limitatamente ai casi di cui alle
lett. b ) e c), terzo comma, dell'art. 2 della stessa legge", in
quanto porrebbe in essere una irragionevole disparità di trattamento
rispetto ai giudici popolari ed ai giudici conciliatori, che
rispondono solo per dolo.
16. - L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il
Presidente del Consiglio dei ministri, ha eccepito l'irrilevanza
delle questioni sollevate, investendo esse norme non applicabili nei
giudizi a quibus. L'eccezione, peraltro, va disattesa per le stesse
ragioni indicate, in relazione ad analoga eccezione, sub n. 12.
17. - Passando all'esame del merito, va preliminarmente dichiarata
la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale
degli artt. 1 e 8 della l. n. 117 del 1988 sollevata dalla
Commissione tributaria di primo grado di Ravenna, in quanto
erroneamente il giudice a quo ha ritenuto che essi escludano, per i
"membri laici" delle Commissioni tributarie, la responsabilità per
grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile.
Detta esclusione, infatti, è prevista unicamente ed espressamente
nel terzo comma dell'art. 7 della l. n. 117 del 1988 (anch'esso
impugnato), sul quale ci si soffermerà appresso, mentre nessun
accenno ad esclusione, né diretto né indiretto, è contenuto negli
artt. 1 e 8.
Va pure preliminarmente rilevato che l'ordinanza del Pretore
onorario di Roma non è puntuale nell'impugnare l'art. 7, terzo
comma, della l. n. 117 del 1988 "nella parte in cui prevede la
responsabilità dei pretori onorari, non solo per dolo ma anche per
colpa grave, limitatamente ai casi di cui alle lett. b ) e c), terzo
comma, dell'art. 2 della stessa legge". Infatti l'art. 7, terzo
comma, della l. n. 117 del 1988 statuisce: "I giudici conciliatori e
i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini
estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi
giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa
grave di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c)".
Non essendo i vicepretori onorari - organi monocratici - "cittadini
estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi
giudiziari collegiali", è evidente che il giudice a quo erroneamente
ha ritenuto applicabile la limitazione di responsabilità prevista
dall'art. 7, terzo comma, per i "cittadini estranei" anche ai
vicepretori onorari. Questi rispondono, invece, ex art. 7, primo
comma, in sede di rivalsa, come tutti gli altri giudici monocratici -
escluso il giudice conciliatore - in tutte le ipotesi, dolose o
colpose, previste dagli artt. 2 e 3 della l. n. 117 del 1988.
Poiché, tuttavia, dalla motivazione dell'ordinanza risulta chiaro
che il giudice a quo ha inteso impugnare l'art. 7, terzo comma, in
quanto non limita la responsabilità dei vicepretori onorari al solo
caso di dolo, come è previsto invece per i giudici conciliatori e i
giudici popolari, la questione - una volta precisata - può essere
esaminata nel merito.
18. - Tutte le anzidette questioni, relative all'art. 7, terzo
comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sono infondate.
La normativa dettata nel terzo comma dell'art. 7 rappresenta il
punto di arrivo di una faticosa elaborazione legislativa. In
proposito il disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e
giustizia prevedeva che "i giudici conciliatori, i giudici popolari,
nonché i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a
formare organi giudiziari collegiali rispondono di colpa grave
esclusivamente nelle ipotesi di cui alle lettere b ) e c) del comma
terzo dell'art. 2".
Tale disposizione fu modificata dalla Commissione giustizia della
Camera dei deputati, nel cui testo era previsto unicamente che "gli
estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giurisdizionali
rispondono soltanto in caso di dolo": ciò - si legge nella relazione
- "per evitare il rischio di una fuga degli estranei dalla
partecipazione a funzioni giudiziarie". Sul testo della Commissione,
si accese un vivace dibattito e la Camera approvò una nuova stesura
della norma, secondo la quale "i giudici conciliatori, i giudici
popolari, nonché i cittadini estranei alla magistratura che
concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali
rispondono soltanto in caso di dolo". Passato il disegno di legge al
Senato, questo testo ottenne il parere favorevole della Commissione
affari costituzionali, considerato che i soggetti anzi detti "non
svolgono professionalmente attività giurisdizionali ed è quindi
equo che si richieda ad essi un diverso grado di conoscenza della
legge e, di conseguenza, di diligenza". La Commissione giustizia del
Senato, peraltro, modificò ancora la formulazione della norma,
proponendo quello che è divenuto il suo testo definitivo, ora
impugnato dai giudici remittenti.
La rivalsa nei confronti dei giudici conciliatori e dei giudici
popolari - come si legge nella relazione - fu limitata alla sola
ipotesi di dolo, ritenendosi che essi non posseggano "quelle
cognizioni di diritto e quella specializzazione in materia di fatto
che possano fondare la responsabilità per colpa grave". Viceversa,
per i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o
formano organi giudiziari collegiali, fu stabilita una
responsabilità, in sede di rivalsa, anche nelle ipotesi indicate
dalle lett. b ) e c) dell'art. 2, riguardanti i più macroscopici
errori di fatto, in quanto detti giudici "laici" sono da considerare
esperti nelle materie in cui esercitano la funzione giurisdizionale,
cosicché una loro totale irresponsabilità, in relazione agli errori
di fatto, sarebbe apparsa ingiustificata. Giustificata fu ritenuta,
invece, una loro completa irresponsabilità per gli errori, anche
macroscopici, commessi nell'interpretazione della legge "non
trattandosi di giuristi professionisti".
Dall'assemblea fu approvato quest'ultimo testo, sia pur con
discussioni. Pertanto, tra la normativa proposta dal Ministro di
grazia e giustizia (che prevedeva per i giudici conciliatori, i
giudici popolari e gli "esperti" chiamati a comporre gli organi
collegiali una responsabilità solo per dolo e colpa grave per
travisamento dei fatti) e quella adottata in un primo tempo, dalla
Camera (che prevedeva per essi solo una responsabilità per dolo), è
prevalsa una soluzione normativa intermedia, che ha previsto per i
giudici conciliatori e i giudici popolari la sola responsabilità per
dolo e per gli esperti chiamati a far parte degli organi collegiali,
una responsabilità per dolo e travisamento dei fatti ai sensi
dell'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c).
19. - Come emerge dall' esame degli atti parlamentari, sul tema in
oggetto sono possibili scelte diverse da quelle adottate dal
legislatore. Deve comunque riconoscersi la non irragionevolezza della
previsione di una più circoscritta area di responsabilità per
coloro che non hanno una specifica professionalità in relazione alle
materie giuridiche. La legge n. 117 del 1988, limitando alle sole
ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b
) e c), la responsabilità in sede di rivalsa dei "cittadini estranei
alla magistratura che concorrono a formare o formano organi
giudiziari collegiali", ha inteso riferirsi ad una vasta categoria di
soggetti, chiamati a partecipare, occasionalmente o per periodi di
tempo determinati, ad organi giudiziari collegiali, senza avere lo
status di magistrato. Tali soggetti sono chiamati a comporre collegi
che giudicano in materie, in relazione alle quali è necessaria una
particolare preparazione tecnica: di regola non è richiesta, tra i
requisiti in loro possesso, la laurea in giurisprudenza. Non è
perciò irragionevole - come è stato osservato durante i lavori
parlamentari - che essi siano responsabili dei più macroscopici
errori di fatto, in quanto le loro particolari conoscenze tecniche
sono richieste proprio in relazione agli accertamenti di fatto, e non
è parimenti irrazionale che, non essendo provvisti di specifiche
conoscenze di diritto, siano responsabili per le violazioni di legge
solo in caso di dolo.
Esaminando specificamente la questione sollevata dal Tribunale di
Bari, va rilevato che la sezione specializzata per le
tossicodipendenze, competente a disporre gl'interventi coattivi
previsti dall'art. 100 della l. 22 dicembre 1975, n. 685, al fine
della cura e del recupero delle persone dedite all'uso di sostanze
stupefacenti o psicotropiche, è composta da un consigliere di corte
d'appello che la presiede, da un giudice di tribunale e da due
"esperti" designati dal consiglio superiore della magistratura (art.
101, secondo comma, l. cit.).
Erroneamente il giudice a quo ritiene che la mancata previsione di
una pari responsabilità, in sede di rivalsa, per tutti i membri del
collegio violi gli artt. 101, comma secondo, 104, comma primo, 107,
comma terzo e 108, comma secondo, della Costituzione, alterando
l'equilibrio del collegio, differenziando i giudici in base ad un
elemento diverso dalle funzioni e sottraendo alcuni di essi allo
specifico obbligo di osservanza della legge, al quale è correlata la
responsabilità ex art. 2, comma terzo, lett. c) della l. n. 117 del
1988. L'istituzione di sezioni specializzate per determinate materie
presso gli organi giudiziari ordinari, "con la partecipazione di
cittadini idonei estranei alla magistratura", è prevista, infatti,
dalla stessa Costituzione all'art. 102, comma secondo, con il quale
si è inteso confermare espressamente la legittimità dei collegi
"misti", di magistrati e di esperti, già esistenti nel nostro
ordinamento.
La previsione costituzionale delle sezioni specializzate - come
quella istituita dall'art. 101, secondo comma, della l. n. 685 del
1975 - delle quali fanno parte soggetti aventi una preparazione
professionale ed uno status differenziati, implica che non può
essere messa in dubbio di per sé la legittimità costituzionale di
tali collegi. Parimenti, se del collegio possono legittimamente far
parte soggetti con uno status ed una posizione professionale
differenziata, debbono ritenersi legittime le norme che ne
differenziano lo status in relazione alla diversa situazione
professionale. Unico limite al riguardo è dato dalla necessità che
anche lo status degli "esperti" che fanno parte del collegio sia tale
da garantirne l'indipendenza (art. 108, comma secondo, della
Costituzione). Ma con questa esigenza non confligge la norma
impugnata, la quale, regolando un aspetto dello status dei membri del
collegio "estranei alla magistratura", ne disciplina il regime di
responsabilità in maniera diversa rispetto a quello previsto per i
giudici "togati", in coerenza con le rispettive attitudini tecniche,
senza incidere minimamente sulla indipendenza di ciascun membro del
collegio.
Neppure può ritenersi che la norma impugnata sostanzialmente
sottragga gli "esperti" allo specifico dovere di osservare la legge,
poiché essa introduce soltanto una diversa - e non irrazionale -
diversificazione del regime di responsabilità, conseguente alla
violazione di quell'obbligo. Neppure, infine, essa crea illegittime
differenziazioni tra giudici, vietate dall'art. 107, terzo comma,
della Costituzione, giacché il principio ivi stabilito, secondo il
quale i giudici si distinguono solo "per diversità di funzioni",
implica che tra essi non si possono stabilire rapporti di gerarchia e
non differenze, razionalmente non ingiustificate, nel regime di
responsabilità.
20. - Parimenti non fondata è la questione sollevata dalla
Commissione tributaria di primo grado di Ravenna relativamente
all'art. 7, terzo comma, della l. n. 117 del 1988.
In proposito va precisato che - per attenersi ai limiti di
rilevanza rispetto al giudizio a quo - la questione va esaminata con
esclusivo riferimento ai componenti delle commissioni tributarie di
primo grado.
Queste, a norma dell'art. 2 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636,
possono essere composte da uno o più sezioni, a ciascuna delle quali
sono assegnati un presidente, un vicepresidente e quattro membri. Il
presidente della commissione è scelto tra i magistrati, ordinari o
amministrativi, in servizio o a riposo o fra gl'intendenti e
gl'intendenti aggiunti di finanza a riposo. I presidenti delle
sezioni e i vicepresidenti, oltre che fra tali categorie, possono
essere scelti anche tra i laureati in giurisprudenza o in economia e
commercio.
Gli altri membri della commissione sono scelti dal presidente del
tribunale tra le persone designate dai consigli comunali dei comuni
della circoscrizione, o inserite in elenchi formati
dall'amministrazione finanziaria ed, eventualmente, in elenchi
formati - a richiesta del presidente del tribunale - dalle camere di
commercio e dai consigli degli ordini professionali degli avvocati,
ingegneri, dottori commercialisti e ragionieri. Costoro debbono
essere forniti (art. 4 d.P.R. n. 636 del 1972) di diploma
d'istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo. Il
collegio giudicante decide con l'intervento del presidente o del
vicepresidente e di due membri (art. 7, comma secondo, d.P.R. n. 636
cit.).
L'art. 10 del già richiamato d.P.R. n. 636 del 1972 statuisce che
"i componenti delle commissioni tributarie hanno tutti identiche
funzioni, indirizzate unicamente all'applicazione della legge in base
all'obbiettivo apprezzamento degli elementi di giudizio, esclusa ogni
considerazione d'interessi territoriali, di categoria o di parte".
La ratio di questa normativa va ricercata, oltre che
nell'opportunità di integrare la composizione delle commissioni
tributarie con "esperti" provenienti dall'amministrazione
finanziaria, nella volontà del legislatore di realizzare, in materia
di giustizia tributaria - attraverso la nomina di metà dei membri
della commissione tra le persone inserite in elenchi formati dai
consigli comunali - una varietà di provenienza dei membri, idonea a
garantire l'adeguato esame delle questioni in una materia nella quale
gli enti locali sono portatori di interessi particolarmente
qualificati.
Questa Corte, investita in passato di questioni di legittimità
costituzionale relative alla disciplina della composizione delle
commissioni tributarie, in relazione agli artt. 102 e 108 della
Costituzione, le ha ritenute non fondate (sentenze 7 giugno 1984, n.
154 e 24 novembre 1982, n. 196), affermando che le commissioni
tributarie sono organi di giurisdizione speciale (sentenza 3 agosto
1976, n. 215), che la disciplina di esse, nel suo complesso,
garantisce adeguatamente l'indipendenza dei componenti; che il
meccanismo di nomina di questi ultimi - ancorché suscettibile di
opportuni miglioramenti - è tale da fornire sufficienti garanzie
della idoneità alle funzioni da svolgere.
Deve ritenersi - come già si è rilevato a proposito delle
sezioni specializzate previste dall'art. 102, comma secondo, della
Costituzione - che alla legittimità del carattere composito delle
commissioni tributarie di primo grado consegue la non illegittimità
di quelle differenze che, nella disciplina della responsabilità dei
componenti del collegio, per gli errori compiuti nell'esercizio delle
loro funzioni, si connettano allo status di magistrati in servizio o
di estranei all'amministrazione della giustizia. La differenza di
status, alla quale si ricollega una specifica professionalità non
soltanto in relazione agli accertamenti di fatto ma anche a quelli di
diritto, giustifica infatti una differenziazione della
responsabilità in relazione agli errori di fatto e all'applicazione
della legge. Pertanto, l'art. 7, comma terzo, della l. n. 117 del
1988 - applicabile ai membri delle commissioni tributarie di primo
grado che, non essendo magistrati in servizio, rientrano nella
categoria degli "estranei alla magistratura" legittimamente
differenzia il regime di responsabilità dei componenti delle
commissioni tributarie di primo grado che non siano magistrati in
servizio, da quello previsto in generale per questi ultimi.
Appare tutt'altro che irrazionale, infatti, che i membri delle
commissioni tributarie, i quali non siano magistrati in servizio,
rispondano in via di rivalsa solo nei casi di dolo e colpa grave di
cui all'art.2, comma terzo, lett. b ) e c), essendo tale normativa
giustificata all'esigenza di trattare in maniera differenziata
situazioni differenti. Né ciò dà luogo ad incongruenze e
discriminazioni tra gli utenti della giustizia tributaria,
rispondendo comunque, nei loro confronti, in via diretta lo Stato in
tutte le ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988.
Vaga e imprecisata è la dedotta violazione del titolo quarto
della Costituzione, mentre non pertinente è il profilo riguardante
l'asserito contrasto della norma impugnata con gli artt. 24 e 25
della Costituzione, non limitando essa il diritto di agire e di
difendersi in giudizio, né distogliendo alcuno dal giudice naturale
precostituito per legge.
In conclusione, la censura promossa dalla Commissione tributaria
di primo grado di Ravenna è infondata sotto ogni profilo.
21. - Infondata è anche la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 7, comma terzo, della l. n. 117 del 1988,
sollevata dal Pretore onorario di Roma, in riferimento all'art. 3
della Costituzione, in quanto non limita la responsabilità dei vice
pretori onorari ai soli casi di dolo, come prevede, invece, per i
giudici conciliatori ed i giudici popolari.
Infatti, la differenza di trattamento appare giustificata dai
diversi requisiti richiesti per la nomina a vice pretore onorario
rispetto a quelli richiesti per la nomina a giudice conciliatore e
giudice popolare.
A norma del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, possono essere nominati
vice pretori onorari solo i laureati in giurisprudenza, i notai ed i
procuratori legali. Viceversa, per la nomina dei giudici popolari
delle Corti di assise (artt. 9 e 10 l. 10 aprile 1951, n. 287) non è
necessario il possesso di specifiche cognizioni di diritto, essendo
sufficiente l'aver conseguito un diploma di scuola media di primo
grado o di secondo grado (a seconda che si tratti di Corte d'assise
di primo grado o di appello). Lo stesso dicasi per la nomina dei
giudici conciliatori, prescrivendo al riguardo l'art. 23 R.D. 30
gennaio 1941, n. 12 unicamente che la scelta debba cadere "su
elementi capaci di assolvere adeguamente, per requisiti
d'indipendenza, carattere e prestigio, le funzioni di magistrato
onorario".
Il possesso di specifiche conoscenze giuridiche da parte dei vice
pretori onorari, che non sono richieste per la nomina a giudice
popolare o a giudice conciliatore, costituisce un elemento di
differenziazione rilevante rispetto al tema della responsabilità per
gli errori compiuti nell'esercizio delle rispettive funzioni: esso,
pertanto, è idoneo a giustificare la previsione, per i vice pretori
onorari, di una più ampia responsabilità rispetto a quella
stabilita per i giudici popolari ed i giudici conciliatori.
22. - Vanno esaminate da ultimo le questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto il primo e secondo comma dell'art.
16 della l. n. 117 del 1988 che hanno rispettivamente aggiunto
all'art. 148 c.p.c. e all'art. 131 c.p.p. un comma contenente la
seguente disposizione: "Dei provvedimenti collegiali è compilato
sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione
dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente
motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi
nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle
questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti
togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio
stesso, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso
la cancelleria dell'ufficio". Tale disposizione (a norma dell'art.
16, comma terzo) si applica a tutti i provvedimenti dei giudici
collegiali, aventi giurisdizione in materia penale e di prevenzione
nonché ai provvedimenti dei giudici collegiali aventi giurisdizione
in ogni altra materia.
In caso di proposizione dell'azione di rivalsa da parte dello
Stato nei confronti dei componenti del collegio, a norma dell'art.
16, comma quinto, il tribunale dinanzi al quale l'azione è proposta
chiede la trasmissione del plico sigillato contenente la
verbalizzazione della decisione alla quale essa si riferisce e ne
ordina l'acquisizione agli atti del giudizio.
23. - Il Tribunale di Roma, con ordinanze 29 aprile 1988 (R.O. n.
270 del 1988) e 4 maggio 1988 (R.O. n. 326 del 1988), e il Tribunale
di Catanzaro con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 350 del 1988),
hanno dedotto l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 anzi
detto, nella parte in cui ha aggiunto all'art. 131 c.p.c. la
disposizione relativa alla verbalizzazione dei provvedimenti
collegiali.
Secondo i giudici a quibus l'art. 16, prevedendo tale
verbalizzazione, contrasterebbe con gli artt. 101 e 104 della
Costituzione. Infatti, essendo la verbalizzazione correlata alla
divulgazione - in caso di giudizio di rivalsa dello Stato - delle
posizioni assunte dai giudici al momento della deliberazione, la
disposizione impugnata lederebbe il principio della segretezza della
camera di consiglio (art. 276, comma primo, c.p.c.), il quale avrebbe
rilievo costituzionale, perché diretto a garantire l'indipendenza
del giudice, assicurando l'impersonalità della decisione, ritenuta
una delle ragioni della collegialità.
Analoga questione è stata sollevata dalla Commissione tributaria
di primo grado di Roma, con ordinanza 3 maggio 1988 (R.O. n. 448 del
1988) in riferimento al terzo comma dell'art. 16, che - come si è
visto - estende la normativa sulla verbalizzazione dei provvedimenti
a tutti gli organi giurisdizionali collegiali, ivi comprese le
commissioni tributarie. Il giudice a quo, peraltro, mentre motiva la
non manifesta infondatezza della questione in riferimento agli artt.
101 e 104 della Costituzione, menziona, nel dispositivo, quali
parametri gli artt. 3, 97, 101 e 108 della Costituzione.
Il Tribunale di Catanzaro, con la citata ordinanza 2 maggio 1988
(R.O. n. 350 del 1988), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 16, anche in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, sotto il profilo della differenza di trattamento -
ritenuta irrazionale - del segreto della camera di consiglio rispetto
al segreto professionale (art. 351 c.p.p.).
La violazione dell'art. 3 della Costituzione è stata dedotta pure
dalla Corte d'Appello di Trieste, che, con ordinanza 26 aprile 1988
(R.O. n. 382 del 1988), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988, nella parte in
cui prevede la verbalizzazione delle decisioni relative ai
provvedimenti giurisdizionali penali. Secondo il giudice a quo, la
previsione della formalizzazione del dissenso deve intendersi
correlata alle ipotesi di responsabilità per colpa grave previste
dall'art. 2, comma terzo della legge, ma in relazione a queste essa
sarebbe priva di razionalità. Infatti, "qualora uno dei componenti
abbia reso noto l'errore in cui il collegio stia per incorrere", gli
altri componenti non potrebbero ignorare il rilievo senza trasformare
il proprio comportamento, precedentemente solo colposo, in doloso:
peraltro, in tal caso " si sarebbe in presenza di comportamento
integrante vera e propria ipotesi delittuosa, come tale ben
diversamente riscontrabile e censurabile".
Il Tribunale di Roma, con la citata ordinanza 29 aprile 1988, ha
dedotto il contrasto dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988 con l'art.
3 della Costituzione, per avere imposto la verbalizzazione delle
deliberazioni degli organi giudiziari collegiali, mentre analogo
obbligo non è stabilito per alcun altro organo collegiale,
amministrativo o legislativo. Più razionale sarebbe stato, secondo
il giudice a quo, prevedere la verbalizzazione del dissenso in via
facoltativa, a richiesta, cioè del dissenziente.
Quest'ultimo rilievo è sviluppato dal Tribunale amministrativo
regionale per la Sicilia nell'ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460
del 1988), con la quale è prospettata l'illegittimità
costituzionale dell'art. 16 - per contrasto con l'art. 3 della
Costituzione - in quanto impone la verbalizzazione di ogni
provvedimento giurisdizionale collegiale, anche quando sia stato
preso all'unanimità o con il dissenso del relatore. Ciò sarebbe
irrazionale, non essendovi motivo alcuno per verbalizzare la
decisione ove sia stata presa all'unanimità ovvero col dissenso del
relatore, risultando già tale dissenso dalla sentenza che, in casi
del genere, (a norma dell'art. 118, ultimo comma, disp. att. c.p.c.)
deve essere redatta da un altro componente del collegio, il quale la
sottoscrive facendo espressa menzione di esserne l'estensore.
Per razionalizzare la normativa, anche secondo il Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia, la verbalizzazione dovrebbe
avvenire unicamente a richiesta del dissenziente.
L'art. 16 della l. n. 117 del 1988 è stato impugnato, infine, dal
Tribunale di Roma, con la più volte citata ordinanza 29 aprile 1988
(R.O. n. 270 del 1988), dalla Corte d'Appello di Trieste con la già
menzionata ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988) e (seppur
immotivatamente sul punto) dalla Commissione tributaria di primo
grado di Roma con la citata ordinanza 3 maggio 1988 (R.O. n. 448 del
1988), in riferimento all'art. 97 della Costituzione.
Il Tribunale di Roma e la Corte d'Appello di Trieste deducono in
proposito che l'obbligo della verbalizzazione inciderebbe
negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della
giustizia, ostacolando possibili mediazioni tra difformi valutazioni
in fatto e in diritto ed allungando i tempi delle decisioni. In
particolare, la Corte d'Appello di Trieste afferma che l'osservanza
da parte dei componenti degli organi collegiali delle prescrizioni
imposte dalla norma impugnata ha la conseguenza di appesantire
gravemente il lavoro dei magistrati, distogliendoli dal compito di
amministrare la giustizia con una serie di adempimenti, inerenti alla
verbalizzazione di ogni questione decisa, che intralcia
irragionevolmente l'attività giudiziaria, compromettendone
l'efficienza.
24. - Il tema della responsabilità degli organi collegiali è uno
dei più delicati dell'intera materia della responsabilità civile
del giudice. Riaffiorano in esso, con particolare intensità, i
problemi della natura della deliberazione collegiale, del contributo
del membro dissenziente, del meccanismo di riferimento al collegio
della deliberazione non unanime. Tali temi concernenti la struttura
dell'atto - caratterizzato dal particolare legame che la natura e
l'esercizio della funzione determinano tra i membri del collegio - si
riflettono, a loro volta, sulla disciplina della responsabilità
civile del giudice. Le diverse vicende applicative, che hanno in ogni
tempo caratterizzato questa materia e coinvolto la giustificazione,
il contenuto, i limiti e le modalità del risarcimento per fatto
illecito del giudice (cfr. spec. nn. 3, 4 e 5), sono emerse in tutta
la loro pienezza nella elaborazione della normativa della l. n. 117
del 1988.
È stato osservato che, al riguardo, affiora anzitutto l'esigenza
di non sottrarre i componenti degli organi collegiali all'azione di
rivalsa, "per non creare nell'ambito della magistratura un'area
d'immunità politicamente inopportuna e non compatibile col principio
di uguaglianza" (cfr. il parere del Consiglio superiore della
magistratura sul disegno di legge governativo e la relazione a
quest'ultimo). In secondo luogo, va anche soddisfatta l'esigenza di
assicurare ai membri del collegio che, pur avendo partecipato alla
decisione, non l'abbiano condivisa - essendo restati in minoranza uno
strumento che consenta di dimostrare il loro dissenso e non essere
soggetti all'azione di rivalsa.
Il disegno di legge governativo si era fatto carico della prima
esigenza, ma non della seconda, limitandosi a stabilire (art. 8) che
le disposizioni sull'azione di rivalsa "si applicano anche ai
magistrati che esercitano le loro funzioni in organi collegiali". Lo
stesso aveva fatto la Commissione giustizia della Camera dei
deputati, che proponendo un testo (art. 10) analogo, nel quale - in
aggiunta - era precisato unicamente che "la responsabilità può
riguardare i componenti il collegio ovvero un singolo componente
quando la violazione del diritto è conseguenza d'inosservanza di
doveri che personalmente gli competono".
In assemblea sorsero vivaci contrasti, sottolineandosi il
carattere personale che deve avere la responsabilità, disatteso da
tale normativa. Ciò condusse, però, solo alla soppressione del
testo dell'art. 10 proposto dalla Commissione giustizia della Camera
e all'inserimento nell'art. 1 - che regola l'ambito di applicazione
della legge - dell'attuale secondo comma, che rende applicabili le
disposizioni della legge stessa "anche ai magistrati che esercitano
le proprie funzioni in organi collegiali". Prevalse, cioè,
l'opinione che dovesse essere affidata alla futura elaborazione
giurisprudenziale l'identificazione in concreto "delle forme di
responsabilità che possono configurarsi per gli organi collegiali" e
la definizione dei meccanismi "che potranno presiedere
all'individuazione delle posizioni eventualmente dissenzienti".
I rilievi critici già emersi nella discussione alla Camera dei
deputati - secondo i quali il Parlamento non poteva eludere,
rimettendola alla magistratura, l'individuazione dei meccanismi di
prova della responsabilità dei singoli membri del collegio, col
rischio di una sostanziale esclusione della responsabilità per
taluni componenti gli organi collegiali, ovvero della configurazione
di una loro responsabilità oggettiva - indussero il Senato a
prevedere e disciplinare la verbalizzazione del dissenso di taluno
dei membri del collegio (art. 18 del testo del disegno di legge
approvato dal Senato in prima lettura) con una norma analoga a quella
ora impugnata.
Alla Camera - alla quale la legge era ritornata in seconda lettura
- sorsero però nuovi contrasti sul punto. Prevalse l'opinione che la
possibilità di rendere pubblici le opinioni e i voti espressi in
camera di consiglio, avrebbe potuto condizionare la "libertà di
decisione" dei giudici, dando inoltre luogo ad un numero immenso di
verbalizzazioni, che avrebbe gravemente appesantito l'attività
giudiziaria. Pertanto la norma sulla verbalizzazione delle decisioni
degli organi collegiali fu soppressa. Reinserita dal Senato, nel
testo ora vigente (art. 16), fu infine definitivamente approvata
anche dalla Camera.
Come si vede, la norma impugnata (che è riprodotta nell'art. 125
del nuovo codice di procedura penale) è stata approvata tra
incertezza, contrasti e ripensamenti, che dimostrano la difficoltà
di contemperare collegialità e responsabilità del giudice, in un
quadro rispettoso, ad un tempo, di divergenti esigenze, di non facile
composizione.
L'ultimo comma dell'art. 16 prevede che "con decreto del Ministro
di grazia e giustizia vengono definiti i modelli dei verbali di cui
ai commi 1, 2 e 3 e determinate le modalità di conservazione dei
plichi sigillati, nonché della loro distruzione quando sono decorsi
i temini previsti dall'art. 4".
Tale decreto è stato emanato in data 16 aprile 1988 e con esso
sono state stabilite le modalità di attuazione dell'art. 16 della l.
n. 117 del 1988, precisandosi i relativi adempimenti e
predisponendosi nove tipi di modelli di processo verbale, in
relazione ai vari tipi di giudizio.
25. - Tra le questioni di legittimità costituzionale prospettate
in relazione all'art. 16 vanno innanzitutto dichiarate non fondate
quelle sollevate dai Tribunali di Roma e di Catanzaro e dalla
Commissione tributaria di primo grado di Roma - in riferimento agli
artt. 101 e 104 della Costituzione - sotto il profilo che l'art. 16,
incidendo sulla segretezza della camera di consiglio,
comprometterebbe l'indipendenza del giudice e l'imparzialità del
giudizio.
Invero, nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso
imprescindibile tra indipendenza del giudice e segretezza, nel senso
indicato nelle ordinanze di rimessione, cioè quale mezzo per
assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della
decisione. La Costituzione ha inteso assicurare l'indipendenza dei
giudici garantendo la non interferenza nel loro operato degli altri
poteri dello Stato (art. 104, comma primo); l'esclusione di ogni
gerarchia all'interno della magistratura (art. 107, comma terzo); la
soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101, comma secondo);
prevedendo organi di autogoverno (artt. 104 e 108): ma nessuna norma
costituzionale stabilisce il segreto delle deliberazioni degli organi
giudiziari, quale garanzia della loro indipendenza; né, a tal fine,
impone il segreto sull'esistenza di opinioni dissenzienti all'interno
del collegio. Viceversa, è espressamente prevista la figura di
giudici monocratici (art. 106, comma secondo), le cui decisioni non
possono essere impersonali ed è espressamente sancito, il principio
generale della responsabilità diretta dei giudici, per gli atti
compiuti in violazione di diritti (art. 28 della Costituzione), come
sopra si è visto.
A quest'ultimo principio non contraddice la conoscibilità
dell'operato anche di ciascun componente gli organi giudiziari
collegiali e quindi la deroga, quanto meno nei limiti a ciò
necessari, al segreto della camera di consiglio. Tale segreto - fuori
di detti limiti - costituisce pertanto materia di scelta legislativa
e nulla ha a che vedere con la garanzia dell'indipendenza dei
giudici. È da ribadire, al riguardo, che l'indipendenza è un valore
morale, che si realizza in tutta la sua pienezza, proprio quando si
esplica nella trasparenza del comportamento.
Parimenti - e per le stesse ragioni - va dichiarata non fondata la
medesima questione proposta, senza ulteriori motivazioni, dalla
commissione tributaria di primo grado di Roma anche con riferimento
agli artt. 3 e 108 della Costituzione.
26. - Va pure dichiarata non fondata la questione sollevata dal
Tribunale di Catanzaro, in riferimento all'art. 3 della Costituzione,
sotto il profilo della diversa differenza di trattamento, ritenuta
irrazionale, del segreto della camera di consiglio rispetto al
segreto professionale. Trattasi, infatti, di situazioni non omogenee
e quindi non comparabili.
Non fondata è pure la questione sollevata dal Tribunale di Roma,
in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della
differenza di trattamento fra deliberazioni degli organi giudiziari
collegiali e deliberazioni degli organi collegiali amministrativi o
legislativi. Tali situazioni, infatti, non sono parimenti comparabili
tenuto conto che le deliberazioni delle Camere, di regola, non sono
segrete; che i membri di esse non sono perseguibili "per le opinioni
espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni" (art. 68,
comma primo, della Costituzione); che anche le deliberazioni degli
organi collegiali amministrativi, di regola, non sono segrete (tranne
che per le questioni concernenti le persone) e che, comunque, ogni
membro può far constare nel verbale del suo voto e dei motivi che
l'hanno determinato (cfr. art. 281, R.D. 3 marzo 1934, n. 383, t.u.
legge comunale e provinciale).
Non fondata è, infine, anche la questione sollevata, in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte d'appello di
Trieste, sul presupposto che la norma impugnata prevederebbe la
verbalizzazione del dissenso soltanto in relazione alle ipotesi
stabilite dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988. L'ordinanza muove,
infatti, da un'affermazione erronea, poiché l'art. 16 della l. n.
117 del 1988 prevede la verbalizzazione non soltanto in relazione a
dette ipotesi. Comunque - come anche appresso si dirà - se ciò
fosse, la norma non sarebbe irrazionale, essendo proprio e soltanto
riguardo a dette ipotesi necessaria la documentazione dell'eventuale
dissenso di uno o più membri del collegio, in relazione alla
responsabilità che ne potrebbe derivare.
27. - Fondata è invece la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 16 sollevata dal Tribunale di Roma, dalla
Corte d'Appello di Trieste e dalla Commissione tributaria di primo
grado di Roma, in riferimento all'art. 97 della Costituzione, sotto
il profilo che il sistema di verbalizzazione previsto dalla norma
impugnata incide negativamente sul buon andamento
dell'amministrazione della giustizia. Il che comporta l'assorbimento
degli ulteriori profili d'illegittimità prospettati in riferimento
all'art. 3 della Costituzione.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l'art. 97 della
Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon
andamento dell'amministrazione, non ha inteso riferirsi ai soli
organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli
organi dell'amministrazione della giustizia (Corte cost. 7 maggio
1982, n. 86).
L'art. 16 della l. n. 117 del 1988 prevede la compilazione di un
sommario processo verbale, che deve contenere la menzione della
unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato,
"su ciascuna delle questioni decise", con l'indicazione nominativa di
ogni componente del collegio che lo abbia espresso. Il che comporta
una continua attività di verbalizzazione da parte dei collegi
giudicanti, in relazione a qualsiasi questione decisa, sia essa
pregiudiziale, preliminare, di diritto o di fatto, a prescindere
dall'esistenza del dissenso di alcuno dei membri del collegio, della
rilevanza del dissenso ai fini di eventuali azioni di responsabilità
e dalla richiesta di verbalizzazione da parte dell'interessato. Ciò
implica un intralcio costante all'attività giudiziaria,
incompatibile col principio del buon andamento dell'amministrazione
della giustizia e non giustificato dalle finalità che la norma
intende realizzare.
Tale norma va dichiarata costituzionalmente illegittima, per
contrasto con l'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui
prevede la compilazione obbligatoria del processo verbale in
relazione ad ogni deliberazione del collegio, anziché la
compilazione facoltativa di esso nelle sole ipotesi in cui la
richiedano uno o più membri del collegio medesimo.
Il contenuto del primo comma dell'art. 16, che riguarda il
processo penale, come si è già rilevato, è riprodotto nell'art.
125 del nuovo codice di procedura penale: alla necessaria modifica di
quest'ultima norma, in conformità della presente decisione, il
Governo provvederà nell'esercizio della delega per l'adeguamento
della nuova normativa ai sensi dell'art. 7 della l. 16 febbraio 1987,
n. 81.
È da rilevare infine che la dichiarazione d'illegittimità
costituzionale del primo e secondo comma dell'art. 16, operata dalla
presente decisione, non comporta la stessa declaratoria per il terzo
comma, il quale va ora letto secondo la modificazione dei predetti
due commi ad opera di questa stessa decisione.