Ritenuto in fatto:
1. - Nel corso dell'istruttoria formale a carico di Emilio Grasso,
imputato del delitto di plagio, il Giudice istruttore presso il
Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 2 novembre 1978, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 603 del
codice penale, in riferimento agli artt. 25 e 21 della Costituzione.
Secondo il giudice a quo la norma denunziata viola il principio di
tipicità di cui all'art. 25, in quanto appare sfornita nei suoi
elementi costitutivi di ogni chiarezza. Il legislatore, prevedendo una
sanzione penale per chiunque sottoponga una persona al proprio potere
in modo da ridurla in totale stato di soggezione, avrebbe in realtà
affidato all'arbitraria determinazione del giudice l'individuazione in
concreto degli elementi costitutivi di un reato a dolo generico, a
condotta libera e ad evento non determinato. Il pericolo di arbitrio,
sotto il profilo della eccessiva dilatazione della fattispecie penale,
sarebbe tanto più evidente considerando come il riferimento al
"totale stato di soggezione" può condurre ad una applicazione della
norma a situazioni di subordinazione psicologica del tutto lecite e
spesso riconosciute e protette dall'ordinamento giuridico, quali il
proselitismo religioso, politico o sindacale. D'altra parte non
conferirebbe maggior chiarezza alla determinazione concreta della
fattispecie, l'osservazione che la soggezione psichica deve essere
"totale". Un caso del genere potrebbe infatti ricorrere nel campo
della patologia mentale, ove peraltro l'art. 603 c.p. non opera, in
quanto suppone come soggetto passivo non un incapace ma una persona
normale. Negato che anche l'ipnosi indotta possa, allo stato delle
attuali conoscenze, ridurre in tale stato di soggezione, il giudice a
quo rileva che un potere di suggestione esercitabile da persona
dotata di particolare fascino potrebbe al limite realizzare un plagio.
In tal modo l'art. 603 c.p. tutelerebbe la libertà morale e
psichica che sarebbe lesa, oltre che da mezzi fisici in grado di
determinare conseguenze organiche, anche da mezzi psichici che
inducano situazioni particolari ed eccezionali, analoghe in un certo
modo alla neurosi, e dipendenti da meccanismi meramente psichici
provocati da un'azione psichica esterna; tali situazioni
annullerebbero il potere critico, renderebbero eterodiretta la
volontà, proprio per l'azione psichica esterna della suggestione. Si
configurerebbe, in tal modo, un carattere schiettamente patologico
dello stato di soggezione, analogo a quello che può verificarsi nel
demente e nello schizofrenico, per cui, ai fini della precisazione del
significato della norma, sarebbe fondamentale il ricorso a nozioni
extra giuridiche, per la determinazione dei concetti di soggezione
psichica e suggestione non forniti dal legislatore.
Se, per quanto rilevato, appare indispensabile, al fine della
precisazione del significato della norma incriminatrice del reato di
plagio, il rinvio (per altro non esplicito da parte del legislatore) a
fonti extra giuridiche, dette fonti, d'altra parte, fornirebbero un
parametro incerto per la definizione univoca del significato del reato
di plagio.
Infatti nella prevalente dottrina si ritiene che la seduzione,
sotto qualsiasi forma, non può essere causa di vera malattia mentale,
cioè di quella condizione patologica che sola può consentire a una
"persona normale" di cadere in potere di un'altra persona.
Le descrizioni dei fenomeni di condizionamento psichico
consentirebbero, in definitiva, solo di affermare ciò che è già
noto e cioè che il patrimonio psichico di ciascuno deriva in massima
parte dal comportamento altrui, così come è normale che chi si trovi
in uno "status" culturale più modesto, finisca col subire
un'influenza più marcata dalla manifestazione dell'altrui pensiero.
Per quanto attiene alla suggestione, questa si risolverebbe
nell'evidenziare solo la possibilità che uno psichismo agisca su un
altro psichismo, nel senso, cioè, che esistono dei meccanismi
psichici per cui tra due soggetti si instauri un rapporto di prevalenza
psicologica dell'uno rispetto all'altro.
Ora poiché non tutte le situazioni di prevalenza psicologica
costituiscono un illecito, il giudice dovrebbe a proprio arbitrio
ritenere colpevole di plagio, non chiunque agisca per imporre ad altri
il proprio modello, ma chi, secondo i valori e i parametri culturali
propri del giudicante, avrà attuato un rapporto autorità-soggezione,
ritenuto illecito e tale da configurare la sussistenza del "totale
stato di soggezione" della vittima. Ma in tal modo il giudice verrebbe
a sostituirsi al legislatore, con violazione dell'art. 25 della
Costituzione.
Per quanto riguarda l'art. 21 Cost., ritiene il giudice a quo che
la libertà di manifestazione del pensiero incontri un limite
nell'interesse della integrità psichica della persona, solo in quanto
si concretizzi in mezzo di pressione violenta o subdola, quali la
minaccia o la frode; ciò stante, l'evento della soggezione
psicologica di un soggetto ad altro soggetto, in quanto risultante
dall'adesione ai modelli di comportamento da altri proposti, non può
costituire illecito senza intaccare il diritto costituzionalmente
protetto. Sarebbe, allora, indispensabile che le idee non vengano
giudicate attraverso il filtro di una logica e di giudizi di valore
propri dell'interprete, essendo ciò espressamente vietato dal
richiamato art. 21 della Costituzione, sicché, ove si voglia accedere
alla tesi che il contenuto della norma dell'art. 603 c.p. si risolva
nella tutela della libertà morale, l'ambito della protezione dovrebbe
essere circoscritto, in sede interpretativa, nelle dimensioni che ne
consentano la compatibilità con l'art. 21 della Costituzione.
2. - L'ordinanza è stata regolarmente comunicata, notificata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso da l'avvocatura
generale dello Stato, Emilio Grasso, rappresentato e difeso dagli
avvocati Mauro Mellini e Rocco Ventre, le parti civili costituite
Maria Pallante e Cerocchi Luisa, rappresentate e difese dagli avvocati
Rinaldo Taddei e Giovanni Maria Flick.
3. - La difesa di Emilio Grasso conclude per l'accoglimento
dell'eccezione di legittimità riportandosi alle argomentazioni
contenute nell'ordinanza di rimessione.
L'avvocatura dello Stato chiede invece che la questione sia
dichiarata infondata sostenendo, per quanto riguarda l'art. 25 della
Costituzione, che l'art. 603 è norma elastica ma non atipica.
L'art. 603 contiene nozioni che, correttamente interpretate,
assumerebbero un significato specifico. Presupposti per la sua
applicabilità sarebbero: un rapporto di prevalenza del soggetto
attivo su quello passivo, tale che comporti il totale assorbimento del
secondo nella sfera d'influenza del primo in conseguenza di specifiche
e reiterate attività di quest'ultimo; la separazione del soggetto
passivo dal contesto sociale in cui ha vissuto o comunque da qualsiasi
altro contesto sociale da lui autonomamente scelto; la previsione e
volizione dell'evento da parte del soggetto attivo.
Quanto al contrasto della previsione incriminatrice con l'art. 21
della Costituzione l'avvocatura rileva che una corretta
interpretazione della norma ordinaria comporta l'esclusione di detto
contrasto.
Il diritto di formare liberamente il proprio pensiero rivestirebbe
priorità logica sul diritto di estrinsecarlo; pertanto si
verificherebbe la lesione del primo diritto mediante l'esercizio del
secondo, quando la manifestazione (estrinsecazione) del pensiero del
soggetto attivo abbia l'unico scopo di impedire al soggetto passivo il
ricorso a qualsiasi altra fonte di conoscenza e di scelta. In tali
casi l'art. 603 viene correttamente applicato, in quanto l'esercizio
del diritto di manifestazione (estrinsecazione) del pensiero assume
nel concreto un significato analogo a quello dell'esercizio di
qualsiasi altro mezzo di coazione illecita.
4. - La difesa delle parti civili nel concludere per
l'infondatezza della questione, osserva preliminarmente che
l'ordinanza del G.I. appare sovrapporre e confondere, nella sua pure
amplissima motivazione, i diversi profili, rispettivamente concernenti
sia l'accertamento di fatto (e pertanto l'eventuale difficoltà delle
prove), sia per contro la configurabilità in diritto della
fattispecie in oggetto.
Quanto a tale configurazione, la previsione del dolo generico e
della condotta libera, sebbene diano alla norma una indubbia
latitudine di realizzabilità, giustificata peraltro dalla rilevanza
del bene tutelato che si collega con l'art. 2 della Costituzione,
troverebbe una precisa, logica ed esauriente delimitazione del reato
nell'individuazione dell'evento "totale stato di soggezione".
Il "totale stato di soggezione", comunque attuato, comunque subito
o cercato dal soggetto passivo, comunque strutturato all'interno (nei
rapporti tra agente e soggetto passivo), si risolverebbe pur sempre ed
univocamente in una preclusione e in un impedimento alla prosecuzione
o instaurazione di rapporti autonomi tra il soggetto passivo ed i
terzi.
Si tratterebbe di garantire che il rapporto tra soggetto attivo e
passivo non diventi talmente assorbente ed esclusivo, da impedire che
il soggetto passivo possa verificarlo criticamente (o avere quanto
meno la possibilità di verificarlo criticamente) alla luce di altri
rapporti.
Quanto al contrasto dell'art. 603 c.p. con l'art. 21 Cost. Ia
difesa delle parti civili osserva che in una corretta interpretazione
dell'art. 603 c.p. doverosamente coerente ai principi e ai valori
costituzionali, non viene in considerazione, in alcun modo, una
problematica di diritto alla manifestazione del pensiero, né a
livello individuale, né a livello di proselitismo e propaganda.
Non interesserebbero invero, in una corretta e logica
interpretazione della norma, né il tipo né il contenuto dei rapporti
interindividuali che si instaurano tra plagiato e plagiante.
Conseguentemente, non interesserebbe la norma penale l'eventualità
che tali rapporti possano risolversi anche in manifestazioni di
pensiero, qualunque esse siano.
Interessa invece soltanto la circostanza che, in uno con
l'instaurazione di tali rapporti, si impedisca al plagiato la
possibilità di avere altri rapporti concomitanti ed antagonisti con i
primi. Proprio la possibilità di esercitare il diritto
costituzionalmente garantito dall'art. 21 della Costituzione, postula
a favore del soggetto passivo anche e soprattutto un diritto ad
informarsi ed a formare il proprio pensiero attingendo a diverse
fonti, anziché dover attingere esclusivamente e coattivamente ad una
unica fonte.
La difesa del Grasso ha presentato memoria in cui con ampie e
approfondite argomentazioni vengono ribadite e svolte le conclusioni
già rassegnate.
Considerato in diritto:
1. - Il giudice a quo solleva la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 603 del codice penale sotto due distinti
profili: a) la norma in parola contrasterebbe con l'art. 25, comma
secondo, della Costituzione perché priva del requisito della
tipicità, il quale, coerentemente al principio della riserva assoluta
di legge in materia penale, "richiede una puntuale relazione di
corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale"; b) la
medesima norma lederebbe inoltre l'art. 21, comma primo, della
Costituzione nella parte in cui la sua portata "ecceda la funzione di
tutela dell'integrità psichica della persona di fronte alle
aggressioni che possono verificarsi".
2. - Con la prima censura il giudice a quo lamenta la violazione
del principio di tassatività della fattispecie contenuto nella
riserva assoluta di legge in materia penale.
In riferimento all'art. 25 della Costituzione questa Corte ha più
volte ripetuto che a base del principio invocato sta in primo luogo
l'intento di evitare arbitri nell'applicazione di misure limitative di
quel bene sommo ed inviolabile costituito dalla libertà personale.
Ritiene quindi la Corte che, per effetto di tale principio, onere
della legge penale sia quello di determinare la fattispecie criminosa
con connotati precisi in modo che l'interprete, nel ricondurre
un'ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio
di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile. Tale onere
richiede una descrizione intellegibile della fattispecie astratta, sia
pure attraverso l'impiego di espressioni indicative o di valore (cfr.
ad es. sentenze 21/1961 e 191/1970) e risulta soddisfatto fintantoché
nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità
di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato
delle attuali conoscenze appaiano verificabili. Implicito e ulteriore
sviluppo dei concetti ai quali questa giurisprudenza si è ispirata
comporta che, se un simile accertamento difetta, l'impiego di
espressioni intellegibili non sia più idoneo ad adempiere all'onere
di determinare la fattispecie in modo da assicurare una
corrispondenza fra fatto storico che concretizza un determinato
illecito e il relativo modello astratto. Ogni giudizio di conformità
del caso concreto a norme di questo tipo implicherebbe un'opzione
aprioristica e perciò arbitraria in ordine alla realizzazione
dell'evento o al nesso di causalità fra questo e gli atti diretti a
porlo in essere, frutto di analoga opzione operata dal legislatore
sull'esistenza e sulla verificabilità del fenomeno. E pertanto nella
dizione dell'art. 25 che impone espressamente al legislatore di
formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico
della chiarezza e dell'intelleggibilità dei termini impiegati, deve
logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che
esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà.
Sarebbe infatti assurdo ritenere che possano considerarsi
determinate in coerenza al principio della tassatività della legge,
norme che, sebbene concettualmente intellegibili, esprimano situazioni
e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili e tanto
meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o
puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono
considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili. La
formulazione di siffatte norme sovvertirebbe i più ovvii principi che
sovraintendono razionalmente ad ogni sistema legislativo nonché le
più elementari nozioni ed insegnamenti intorno alla creazione e alla
formazione delle norme giuridiche.
Da quanto premesso, risulta pertanto che la compiuta descrizione di
una fattispecie penale non è sufficiente ai fini della legittimità
costituzionale di una norma che, data la sua struttura e la sua
formulazione astratta, non consenta una razionale applicazione
concreta.
La questione di legittimità costituzionale dell'art. 603
sollevata dal giudice a quo in riferimento all'art. 25 della
Costituzione, s'incentra così da un lato sull'intelleggibilità del
precetto, e dall'altro lato sull'indagine che il fenomeno ipotizzato
dal legislatore sia effettivamente accertabile dall'interprete in base
a criteri razionalmente ammissibili allo stato della scienza e
dell'esperienza attuale.
3. - Nell'esame della questione così prospettata occorre anzitutto
procedere all'individuazione della fattispecie criminosa che l'art.
603 designa con lo specifico termine di "plagio", differenziandola
dalle altre previste nel capo terzo del secondo libro del codice
penale (delitti contro la libertà individuale) e cercare di stabilire
nel suo preciso contenuto giuridico l'esatto attuale significato
lessicale della parola, tenendo conto che nel corso di due millenni
con essa sono state espresse diverse figure criminose.
L'indagine storica ha ampiamente accertato che, come già avvertono
antichi scrittori latini, plagium deriva dal greco e viene usato nel
linguaggio giuridico sin forse dal III secolo a.C. per designare
l'azione di impossessarsi, trattenere o fare oggetto di commercio un
uomo libero o uno schiavo altrui.
Marziale, nel suo famoso epigramma 52, adopera la parola in senso
figurato, paragonando la falsa attribuzione di opere letterarie altrui
all'illecito assoggettamento di schiavi altrui al proprio servizio,
dando così vita ad un secondo significato, che ancora oggi sopravvive
nelle lingue moderne (v. l'italiano plagio, il francese plagiat,
l'inglese plagiarism, il tedesco Plagiat), indicante l'azione di farsi
credere autore di prodotti dell'ingegno altrui e quella di riprodurli
fraudolentemente. Questo delitto nel linguaggio comune è chiamato
plagio e più specificatamente plagio letterario. Esso è espresso non
però sotto il nome di plagio nelle leggi italiane sulla stampa (v.
artt. 61 e 62 della legge 18 marzo 1926, n. 562) e in varie
legislazioni straniere. Presso vari autori e anche in antiche leggi
viene usato il termine di "plagio politico" per indicare l'azione di
arruolare illegittimamente taluno contro la propria volontà in armate
straniere di terra o di mare.
L'individuazione nel diritto romano di una figura specifica di
reato, separandola e distinguendola da quella di furto e di altri
crimini e riunendo sotto la denominazione di plagio determinate e
precisate fattispecie, è opera della lex Fabia di autore incerto, ma
collocabile fra la fine del III e l'inizio del II secolo a.C.,
ampiamente citata e commentata dai giuristi romani (Gaio, Ulpiano,
Paolo, Callistrato) e oggetto di accurate indagini anche nella recente
dottrina romanistica. Nelle Sententiae di Paolo, nella Collatio legum
mosaicarum et romanarum, nel Codice Teodosiano, nel Codice
Giustinianeo, nel Digesto, un titolo è dedicato alla legge. Essa
prevedeva l'ipotesi di chi avesse dolosamente tenuto celato o
incatenato un uomo libero ingenuo o liberto o ne avesse fatto oggetto
di vendita, donazione o permuta, nonché l'ipotesi che il reato fosse
compiuto da uno schiavo o per propria iniziativa o anche con la
consapevolezza del suo padrone. Contemplava anche come plagium i
medesimi atti compiuti su uno schiavo altrui contro la volontà del
suo proprietario; sembra che rientrasse in questa figura di reato
anche l'azione di chi induceva lo schiavo a fuggire dal proprio
padrone.
Nelle leggi barbariche e nelle fonti giuridiche medioevali il
termine plagium è costantemente usato a designare l'atto di colui che
sottopone illegittimamente un essere umano a schiavitù o lo
trasferisce contro la sua volontà in altri luoghi facendolo oggetto
di negozi giuridici, crimine represso con gravissime pene (v. ad es.
il cap. 78 dell'Editto di Teodorico del VI secolo). La lex
Visigothorum del V e VI secolo sottopone a gravi sanzioni afflittive e
patrimoniali gli uomini liberi e i servi che abbiano plagiato uomini
liberi o servi altrui. La lex Salica del V e del VI secolo e la Lex
Frisionum dell'VIII secolo equiparano il plagio di nobili e di uomini
liberi all'omicidio.
Il medesimo significato legale tecnico dei termini plagium,
plagiator e del verbo plagiare si mantiene costante nel diritto
intermedio, come può constatarsi dai vari lessici e repertori
giuridici.
4. - Nel diritto antico e sino all'inizio dell'età moderna il
reato di plagio era inerente all'istituto giuridico della schiavitù
inteso come stato della creatura umana non avente personalità
giuridica: la sua repressione nelle varie legislazioni mira a
proteggere da invasioni illecite da parte di terzi il diritto di
proprietà dei padroni degli schiavi nonché a colpire la riduzione in
schiavitù o in condizione di fatto analoga di un uomo libero.
A partire dalla fine del secolo XVIII con la progressiva
accettazione del principio dell'uguaglianza dello stato giuridico
delle persone e con la conseguente progressiva abolizione
dell'istituto della schiavitù (proclamata per la prima volta
legislativamente dalla Francia rivoluzionaria nel 1791, revocata
subito dopo e definitivamente stabilita nel 1848, dall'Inghilterra nel
1833, dagli Stati Uniti nel 1863 e dietro il loro esempio da molte
altre Nazioni), con la convenzione internazionale di Saint-Germain del
1919 la quale dichiarava illecita la schiavitù in tutte le sue forme,
compreso il lavoro forzato, la pseudo-adozione, il concubinaggio
forzato, la schiavitù per debiti ed altre situazioni di fatto, con la
convenzione internazionale di Ginevra del 1926 e con quella del 1956
si è necessariamente da tempo trasformata la nozione del reato di
plagio. Esso non può più essere configurato come un delitto contro la
proprietà di esseri umani, ma è esclusivamente concepito come un
delitto contro la libertà individuale.
Le legislazioni preunitarie italiane, tranne due, non contenevano
norme che vietassero specificatamente la schiavitù e il commercio di
schiavi, ma solo norme che punivano la riduzione di uomini liberi e
particolarmente di fanciulli in condizioni di servaggio. Così il
Codice penale francese del 22 febbraio 1810, in vigore per molti anni
negli Stati sottoposti al dominio e all'influenza napoleonica, pur non
usando espressamente il termine plagiat, noto comunque nel linguaggio
forense e giudiziario, puniva agli artt. 341, 344 l'arresto illegale e
il sequestro di persona e agli artt. 345 - 355 il rapimento, la
sottrazione, la sostituzione di minori con altri, la falsa
attribuzione di maternità, il trasferimento illegale di minori,
inoltre l'esposizione e l'illegale abbandono in un ospizio di un
minore di 7 anni.
Anche il "Codice per lo Regno delle Due Sicilie" del 21 maggio
1819, in vigore dal 1 settembre del medesimo anno, senza parlare
espressamente di plagio, contempla vari delitti contro l'asservimento
di persone. Così all'art. 119 la pirateria contro nazionali del
regno. Agli artt. 403 e 405 punisce l'abbandono e l'esposizione di
minori di sette anni e il loro illegittimo abbandono in un ospizio.
Anche il regolamento sui delitti e sulle pene per lo Stato Pontificio
del 20 settembre 1832, in vigore il 1 novembre, all'art. 126 sanziona
con gravi pene l'ingaggio e l'arruolamento di sudditi pontifici per
porli al servizio militare di principi esteri e agli artt. 305-309
l'esposizione, l'occultamento, la sostituzione di un fanciullo e la
supposizione di parto senza designare questi reati come plagio.
L'arruolamento non autorizzato di sudditi per servire in truppe
estere è contemplato anche all'art. 112 del codice penale per gli
Stati di Parma, Piacenza e Guastalla del 5 novembre 1820 in vigore al
1 gennaio 1821 ed anche all'art. 129 n. 4 del codice criminale per gli
Stati Estensi del 14 dicembre 1855 in vigore il 1 maggio 1856. Il
primo di questi codici sanziona all'art. 390 l'esposizione e
l'abbandono di minori di sette anni. Entrambi ed anche il Codice
penale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 29 novembre 1859 in
vigore il 1 maggio 1860 non usano il termine di plagio.
Il reato di riduzione in situazione analoga alla schiavitù è
invece espressamente contemplato (senza però adoperare il termine
tedesco Menschenraub e il suo equivalente Plagium), nella nuova
edizione del Codice penale per l'impero d'Austria del 3 settembre 1803
pubblicata il 27 maggio 1852, la quale nella parte prima, capo nono,
sotto il titolo "della pubblica violenza", prevista "mediante
trattamento di una persona in modo proprio della schiavitù" al
paragrafo (decimo caso) dichiara un principio essenziale per lo stato
giuridico della persona, affermando che non si tollera "nell'Impero
d'Austria la schiavitù, né l'esercizio d'una podestà ad essa
relativa", e che diviene "libero ogni schiavo nel momento in cui
tocca l'imperiale territorio austriaco od anche soltanto una nave
austriaca, ed acquistando parimenti la sua libertà anche in Istato
estero, nel momento in cui per qualsivoglia titolo viene rilasciato
come schiavo ad un suddito dell'Impero austriaco". Nello stesso
paragrafo è severamente represso con la pena da 10 sino a 20 anni di
carcere duro il traffico di schiavi.
Il medesimo codice al paragrafo 90 punisce chi "senza saputa ed
assenso della legittima autorità riduce coll'astuzia o colla forza in
suo potere una persona per consegnarla contro la di lei voglia ad una
forza estera", ai paragrafi 92 e 93 commina gravi sanzioni per
l'ingaggio non autorizzato e la restrizione non autorizzata della
libertà personale.
5. - Delle legislazioni italiane preunitarie una sola, il codice
penale pel Granducato di Toscana del 20 giugno 1853 in vigore il 1
settembre dello stesso anno, usa il termine di "plagio" in un preciso
significato giuridico nell'art. 358 posto nella Sezione II, capo I,
"Dei delitti contro la libertà personale e la privata tranquillità e
il buon nome altrui". "paragrafo 1. Chiunque, per qualsivoglia scopo,
in grazia del quale il fatto non trapassi sotto il titolo di un altro
delitto, si è ingiustamente impadronito di una persona suo malgrado,
od anche d'una persona consenziente, che sia minore di 14 anni,
soggiace come colpevole di plagio, alla casa di forza da tre a sette
anni, o, nei casi più leggieri, alla carcere da uno a tre anni.
paragrafo 2. E quando il plagiario abbia consegnato la persona, di cui
si è impadronito, ad un servigio estero militare o navale, o l'abbia
fatta cadere in schiavitù, è punito sempre con la casa di forza da
cinque a dodici anni".
La parola "plagio" ricorre nel medesimo codice all'articolo 119 P.
1. "Chiunque fuori del caso di plagio, arrola, senza la permissione
del Governo, uno o più toscani sotto le bandiere di un altro Stato,
che non sia in guerra con la Toscana, incorre nella carcere da uno a
cinque anni".
Nel seguente art. 359 la pena prevista nel paragrafo 2 del
precedente articolo è comminata a colui che "ha tolto arbitrariamente
all'autorità domestica un minore di 14 anni tutto che consenziente,
affinché professi una religione diversa da quella in cui è nato",
fatto questo che, secondo uno dei maggiori commentatori del codice
toscano, Giuseppe Puccioni, dovrebbe intendersi come un delitto affine
a quello del plagio.
Le fattispecie delittuose contemplate in questo codice col nome di
plagio sono ampiamente esaminate nei commenti dello stesso Puccioni e
di Francesco Carrara. Secondo il primo, gli estremi del delitto di
plagio sarebbero per la scienza penale: "1) violazione della libertà
personale di un uomo; 2) operata con violenza o fraude su quelli che
sono sui juris; con dissenso del padre o del tutore in quelli alieni
iuris subiecti; 3) animo di far lucro....Il codice... riconosce plagio
in qualsivoglia fine purché il fatto non trapassi sotto il titolo di
un altro delitto" lo distingue dagli altri delitti contro la libertà
personale e in particolare da quello previsto nell'art. 360 (carcere
privato), dall'arresto illegittimo, dal ratto e dalla violenza
carnale. "I Codici Francese ed Italiano" nota il Puccioni "confondono
il plagio con i delitti di arresto, e detenzione arbitrarii, di carcere
privato, o di riscatto, onde attinger non possiamo da essi notizia
alcuna positiva".
Il Carrara, commentando l'art. 358 scriveva: "...la nozione del
plagio secondo i dettati delle scuole e delle migliori legislazioni
contemporanee può circoscriversi in questi termini - la violenta o
fraudolenta abduzione di un uomo per farne lucro o per fine di
vendetta - . I criteri essenziali di questo reato sono tre: 1) che
siasi sottratto un uomo; 2) che siasi sottratto con frode o violenza;
3) che siasi sottratto per fine di farne lucro, o per esercitare
sopra di lui una vendetta". Questa nozione del Carrara è ancora
citata e richiamata in dottrina ed accolta in alcune pronunzie
giudiziarie del nostro tempo.
L'esame delle precedenti legislazioni degli Stati italiani mostra
pertanto la difficoltà di trarre da esse una nozione precisa e sicura
del reato di plagio e i criteri per distinguerlo fra i delitti contro
la libertà personale. Da questo esame risulta però anche in modo
indubbio che la fattispecie criminosa chiamata plagio, come anche
tutte quelle contemplate nei vari codici, quali delitti contro la
libertà personale, sono sempre state concepite come attuate
esclusivamente mediante un'azione fisica del colpevole e individuate
attraverso elementi oggettivi. 6. - Il primo codice penale italiano
unitario pubblicato il 22 novembre 1888, in vigore il 30 giugno 1889,
nel libro II, titolo II, "dei delitti contro la libertà", capo III
sotto il titolo "dei delitti contro la libertà individuale" disponeva
all'art. 145: "Chiunque riduce una persona in schiavitù o in altra
condizione analoga è punito con la reclusione da dodici a venti
anni". La fattispecie prevista "riduzione in schiavitù o in altra
situazione analoga" era denominata nelle rubriche ufficiali del
progetto e figurava in varie edizioni del codice come "plagio". Essa
si qualificava nel suo contenuto, attraverso il confronto con gli
altri delitti contro la libertà individuale previsti nello stesso
capo e precisamente distinguendola dalla privazione illegittima della
libertà personale (art. 146) rubricata negli indici ufficiali del
progetto come "sequestro di persona commesso da privato", dal
"sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale" (art. 147),
dalla sottrazione o dalla illegittima ritenzione per fine di libidine
o di matrimonio (artt. 340 e 341), dalla sottrazione di minore di 15
anni col consenso di essa ai genitori o tutori o a chi ne abbia la
cura o la custodia (art. 148 rubricato come "sottrazione di
minorenne"), dalla "perquisizione personale arbitraria" (art. 149),
dagli "abusi di potere verso persona carcerata o arrestata" (artt.
150 - 152), dalla "pena del pubblico ufficiale che agisce per un fine
privato" (art. 153), dalla "violenza privata" (art. 154), dalle
"minacce" (art. 156).
La fattispecie di cui all'art. 145 del codice del 1889 (plagio)
presupponeva pertanto un'azione umana esclusivamente fisica, il cui
risultato era quello di porre la vittima in una condizione materiale
di dipendenza da altri senza avere l'effetto, nell'ambito
dell'ordinamento italiano, dato il principio in esso vigente della
libertà giuridica di ogni essere umano, di far perdere alla vittima
lo stato giuridico di uomo libero o di mantenerla nella condizione
giuridica di individuo privo di questo stato o in stato inferiore.
Considerazione questa che nella redazione del progetto del codice
aveva indotto la Commissione della Camera dei Deputati a proporre la
soppressione della disposizione dell'art. 141 (divenuta nel testo
definitivo l'art. 145).
7. - Il codice penale italiano del 1930 usa il termine plagio in
un significato del tutto nuovo, diverso da quello dei precedenti
codici e in particolare da quello del 1889 e diverso anche da quello
originario antico.
Mentre il codice del 1889 indicava nel titolo II del libro II i
delitti contro la libertà, ordinandoli in 6 capi, di cui il III
comprendeva i delitti contro la libertà individuale (artt. 145-156),
il nuovo codice raccoglie nel capo III del libro II i delitti contro
la libertà individuale, distinguendoli in 5 sezioni, le cui tre prime
sono intitolate: I - dei delitti contro la personalità individuale;
II - dei delitti contro la libertà personale; III - dei delitti
contro la libertà morale.
La prima sezione comprende 5 articoli (600 - 605). Il 600 ha un
contenuto letterale identico a quello dell'art. 145 del precedente
codice del 1889, articolo, il quale, come già detto, era rubricato
sotto il nome di "plagio" e corrisponde pedissequamente al testo di
questo: "Chiunque riduce una persona in stato di schiavitù o in una
condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da 5 a
15 anni". (Rispetto al testo dell'art. 145 del codice del 1889 vi è
solo l'aggiunta delle due parole: "alla schiavitù" che qualificano
superfluamente l'aggettivo "analoga", e l'ammontare della pena che
nell'art. 145 era da 12 a 20 anni). Nell'art. 600 del codice del 1930
la disposizione già contenuta nell'art. 145 del precedente codice non
è più chiamata "plagio", ma "riduzione in schiavitù".
Segue l'art. 601 "tratta e commercio di schiavi", il 602
"alienazione e acquisto di schiavi" e quindi il 603, intitolato
"plagio": "Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo
da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione
da 5 a 15 anni".
Chiude la sezione l'art. 604, intitolato: "fatto commesso
all'estero in danno di cittadino italiano", prescrivendo che le
disposizioni di questa sezione "si applicano altresì, quando il fatto
è commesso all'estero in danno di cittadino italiano".
8. - Dai lavori preparatori del codice penale del 1930 risulta che
la formulazione di quello che doveva divenire l'art. 603 (art. 612 del
progetto), l'individuazione del reato in esso previsto e l'aggiunta
nei delitti contro la personalità individuale di una fattispecie
criminosa non indicata nel codice del 1889, e diversa da quella
dell'art. 600 del nuovo codice e dell'art. 145 del precedente, erano
state oggetto di lunghe e complesse discussioni fra i commissari. La
maggioranza dei membri della commissione parlamentare aveva affermato
l'opportunità di mantenere l'antica denominazione di "plagio" alla
riduzione in schiavitù o in condizione analoga e si era dichiarata
contraria alla proposta di aggiungere una nuova fattispecie ignorata
dai precedenti codici, insistendo sull'opportunità di non apportare
modifiche alle configurazioni tradizionali.
I commissari denunziavano infatti il pericolo che, usando termini
antichissimi, da essi considerati lessicalmente sicuri, consacrati da
oltre duemila anni nel linguaggio e nell'esperienza legislativa e
forense per indicare ex novo istituti sino allora sconosciuti, si
confondessero concetti giuridici basilari e s'incorresse in mancanza
di chiarezza. La medesima maggioranza insisteva sull'indeterminatezza
della norma così proposta.
Uguali opinioni esprimevano le commissioni reali degli avvocati e
procuratori di Napoli e Roma e la Corte di appello di Napoli, negando
l'esistenza di una specifica figura criminosa chiamata plagio che si
distinguesse dalla schiavitù.
L'opinione dei membri della commissione parlamentare si traduceva
in un preciso ordine del giorno votato a grande maggioranza,
esprimente l'avviso che gli articoli del progetto 609 e 612
(rispettivamente 600 e 603 del codice) fossero fusi in un solo
articolo.
Il guardasigilli nella sua relazione al progetto definitivo non
teneva alcun conto del risultato della votazione e non riteneva di
fondere i due articoli, allegando come argomento "il vantaggio
indiscutibile della chiarezza e per la considerazione che trattasi di
figure delittuose distinte". Affermava di eliminare "ogni dubbio" in
ordine alle discussioni circa l'art. 145 del codice del 1889 "intese
a stabilire se per 'schiavitù o altra analoga condizione ' fosse da
intendere schiavitù e condizione di diritto, ovvero anche di fatto".
Va rilevato che alla disposizione dell'art. 612 del progetto
"chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla
in tale stato di soggezione da sopprimerne totalmente la libertà
individuale, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni", venivano
soppresse le parole "in tale stato di soggezione da sopprimerne
totalmente la libertà individuale", dando così vita all'attuale art.
603 del codice. E singolare che di una variazione così importante del
testo, non vi sia alcun accenno nella relazione del guardasigilli al
re e manchi ogni giustificazione dei motivi concettuali e pratici che
avrebbero indotto a tale variazione.
La relazione del guardasigilli, la quale commentava il testo del
progetto e non il testo definitivo, senza tener conto del mutamento,
contemplava come figura distinta, ma parallela alla riduzione in
schiavitù, il plagio, affermando che questo reato "consiste nel
sottoporre taluno al proprio potere in modo da ridurlo in tale stato
di soggezione da sopprimerne totalmente la libertà individuale". E
aggiungeva, "lo stato di soggezione suddetto è qui uno stato di
fatto. Lo status libertatis, come stato di diritto rimane inalterato,
ma la libertà individuale della vittima è soppressa. Tra il
colpevole e la vittima si stabilisce, in sostanza, un rapporto tale
che il primo acquista sulla seconda completa padronanza e dominio,
annientandone la libertà nel suo contenuto integrale, impadronendosi
completamente della sua personalità". E dopo aver detto che in questo
delitto "il consenso della vittima non può escludere il reato, non
essendo la libertà individuale, nel suo complesso, riferibile alla
personalità umana, un diritto disponibile", la relazione prosegue con
un passo il quale di per se stesso mostra l'ambiguità della norma: "E
da avvertire come l'espressione 'sopprimere totalmente la libertà
individuale ' non sarebbe con esattezza interpretata se si ritenesse
che debbano risultare soppresse, nella loro totalità, tutte, niuna
esclusa, le manifestazioni nelle quali la libertà può esplicarsi;
essa, invece, è apparsa come la più congrua per esprimere il
concetto di negazione da parte dell'agente, della personalità della
vittima, e per differenziare il plagio da altri delitti contro la
libertà individuale, ad es. il sequestro di persona, nei quali non si
riscontra il rapporto di soggezione anzidetto, che investe e lede la
personalità umana. Non sarebbe, pertanto, da escludere il plagio se,
per avventura, alla vittima, assoggettata al potere dell'agente, fosse
residuata una qualche libertà, ad es. di locomozione, o di
corrispondere per lettera con terzi, ecc.".
Da questa relazione, sia pure lacunosa e scarsamente motivata del
progetto, risulta che da un lato, riproducendo letteralmente nell'art.
600 la formula dell'art. 145 del codice precedente, ma aggiungendo ex
novo la disposizione dell'articolo 603, il delitto di riduzione in
schiavitù o in situazioni analoghe, veniva ad essere limitato nella
sua estensione, circoscrivendo, nell'intenzione dei compilatori,
attività criminose dirette a violare soltanto lo stato di diritto
della vittima. Dall'altro lato con la disposizione dell'art. 603
s'intendeva punire attività criminose dirette a costituire in altri
uno stato di fatto di totale soggezione.
La nozione di schiavitù o condizione analoga alla schiavitù
intesa come condizione di diritto contemplata negli articoli 600 - 602
del codice e che la relazione del guardasigilli intendeva distinguere
dalla fattispecie dell'art. 603 non teneva comunque conto dell'art. 1
della Convenzione di Ginevra 25 settembre 1926 divenuta legge interna
italiana con il r.d. 26 aprile 1928, n. 1723 richiamata nella medesima
relazione e rinnovata nella convenzione di Ginevra 7 novembre 1956
approvata con legge 20 dicembre 1957, n. 1304. Nell'elenco delle varie
situazioni che la convenzione considera "istituzioni e pratiche
analoghe alla schiavitù" varie di esse sono condizioni di fatto e non
di diritto perché realizzabili senza che alcun atto o fatto normativo
le autorizzi. Ne consegue che condizione analoga alla schiavitù deve
interpretarsi come condizione in cui sia socialmente possibile per
prassi, tradizione e circostanze ambientali, costringere una persona
al proprio esclusivo servizio, laddove il plagio deve necessariamente
ipotizzare anche una conculcazione dell'interno volere. Ed infatti dai
lavori preparatori del codice del 1930 e dalle varie relazioni emerge
che la fattispecie di cui all'art. 603 viene implicitamente ipotizzata
quale avente sulla vittima un effetto psichico annientandone la
libertà nel suo contenuto integrale, anche se nessuno dei commissari
e lo stesso guardasigilli avesse mai esplicitamente affermato che il
delitto potesse attuarsi senza una padronanza sulla persona realizzata
mediante una attività fisica umana.
Nel codice del 1930 risulta pertanto individuata, distinguendola
da quella dell'art. 600, una fattispecie penale che per la prima volta
è chiamata con l'antichissimo termine di "plagio", concretizzando
legislativamente nel solo ordinamento italiano la modifica del valore
lessicale della parola. Nello stesso tempo non viene conservata per
l'art. 600 quella che era la denominazione della identica fattispecie
prevista nell'art. 145 del codice del 1889 ed indicata nelle rubriche
ufficiali del progetto di questo codice come "plagio". Essa viene
invece denominata "riduzione in schiavitù".
La nuova norma, la quale prevedeva una pena gravissima, era
sconosciuta alle precedenti legislazioni italiane e a quelle europee.
Né risulta che in altri ordinamenti sia stata recepita la
disposizione dell'art. 603 del codice italiano vigente o che sia stata
prevista e repressa l'attività criminosa indicata in questo articolo
distinguendola dalla riduzione in schiavitù o in situazione analoga.
9. - Nell'esame della dottrina e della giurisprudenza in ordine
all'art. 603 possono distinguersi cronologicamente due distinti
periodi, il primo fra il 1930 e il 1960, il secondo dal 1961 ai nostri
giorni.
Sino al 1960 la dottrina aveva costantemente cercato di
interpretare l'art. 603, configurando teoricamente una totale
soggezione di fatto del soggetto passivo con soppressione
dell'autonomia della vittima, tentando di distinguere la figura del
plagio dagli altri delitti contro la libertà individuale e di
renderla autonoma rispetto ad essi e soprattutto rispetto al sequestro
di persona, di cui all'art. 605.
Dagli scritti dei vari autori risulta l'incertezza e talvolta
affiorano anche i contrasti per la determinazione degli elementi
costitutivi del reato non chiaramente indicati dalla norma dell'art.
603 e in particolare per l'identificazione del risultato dell'azione
criminosa indicato quale "totale stato di soggezione" e per stabilire
il significato e la portata di questi termini sia pure attraverso
esempi di fattispecie. Questi esempi costantemente si riducono a casi
di parziale, ma non mai di totale soggezione.
Dai commenti all'art. 603 anteriori al 1960 non è dato ricavare
nemmeno approssimativamente le attività con le quali questo stato
può concretamente realizzarsi, attraverso quali modalità, e nemmeno
stabilire se sia possibile accertare il compimento di questo reato.
Quasi tutti gli autori nei primi anni di vita del codice indicano,
sulle orme del Carrara, quale elemento distintivo, soprattutto
rispetto al sequestro di persona, lo scopo di porre la vittima al
servizio del plagiante e di ricavare dall'attività di tale servizio
un lucro o comunque un profitto. I concetti espressi dal Carrara,
secondo alcuni, potrebbero essere di guida per l'interpretazione del
codice vigente. Più tardi, altri autori, nella varietà delle
molteplici interpretazioni proposte, hanno invece negato che questo
elemento sia imprescindibile per determinare il fondamento del reato.
Altri ancora affermano che il motivo o il fine dell'azione sono
indifferenti per la nozione del reato e si richiamano alle
dichiarazioni della relazione del guardasigilli la quale sembra
caratterizzare il reato soprattuto in base al risultato dell'azione
plagiante: "Ciò che il giudice deve avere di mira, per accertare se
esista il plagio, è, in altre parole, il rapporto di completa
soggezione tra colpevole e vittima, di guisa che quest'ultima, privata
della facoltà di liberamente volere e di liberamente determinarsi,
costituisca quasi una res in potere del primo. Quando ciò egli
accerti, il delitto di plagio assorbisce ogni altro attentato alla
libertà personale, compreso lo stesso sequestro di persona".
Pertanto emerge chiaramente come nei primi trenta anni di vita del
codice non fosse stato risolto in modo soddisfacente il problema di
condurre in ipotesi concreta ed univoca la formula normativa dell'art.
603.
La dizione letterale di questa non consentiva ipotesi che
corrispondessero a quella che per secoli era stata l'accezione
tradizionale del plagio, quali ad esempio il sottoporre persone al
lavoro obbligatorio, il rapire fanciulli per appropriarsi della loro
attività di mendicanti, il fornire donne ad harem di sovrani assoluti
ed altri. Il testo, invece, nella presumibile intenzione del
legislatore, sembra avere riguardo al totale stato di soggezione
supponendo che sia possibile verificare la condizione di "schiavo di
fatto" distintamente da quella di "schiavo di diritto", condizione la
prima in cui il fattore psichico ha maggiore rilievo di quello esterno
ossia il tenore di vita del plagiato.
In tal modo la posizione interpretativa di chi tendeva a fornire
una connotazione tipica all'azione plagiante, al rapporto fra
plagiatore e plagiato e allo status di questo ultimo, risultava
inappagante. Il fatto stesso di punire in sostanza con l'art. 603 un
fenomeno di privazione della personalità, di riduzione da persona a
cosa eterodiretta, fenomeno della cui verificabilità in concreto ben
si poteva dubitare, induce inizialmente la dottrina ad interpretazioni
che contraddittoriamente oscillano tra l'esteriorizzazione e
l'interiorizzazione del plagio. Pertanto taluni autori, mentre
cercavano di definire l'elemento materiale del reato, parlavano di
padronanza corporea e di padronanza psichica, senza porsi però il
problema della dipendenza di un fenomeno dall'altro, negavano che il
reato potesse essere caratterizzato da un dolo specifico, affermavano
che il consenso della vittima non esclude il delitto, aprendo così la
via alla distinzione, peraltro inafferrabile, tra persuasione e
suggestione, tra negazione della personalità e libero convincimento.
10. - La giurisprudenza sull'art. 603 fornisce un sicuro dato
oggettivo che avvalora in modo decisivo il dubbio affacciato in
dottrina della possibilità di dare alla norma, quale è lessicalmente
formulata, un'applicazione univoca. Nei primi quaranta anni di vita
del codice si sono avuti rarissimi processi di plagio tutti di
assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" o "perché
il fatto non costituisce reato" o perché il fatto non costituiva il
reato di plagio, ma doveva essere diversamente rubricato.
Nelle motivazioni di queste sentenze, esponendo le ragioni per
escludere nelle specie la sussistenza del reato di plagio, si cerca,
seguendo le vaghe e indeterminate indicazioni espresse nella relazione
del guardasigilli, di individuare gli elementi costitutivi di questo
reato. Si ripete che tale delitto mira a trarre profitto dalla persona
della vittima considerata come cosa atta a rendere servigi, ad essere
prestata, ceduta, alienata, perdendo la sua personalità e i suoi
diritti per divenire una cosa, oggetto di diritti patrimoniali; che
l'elemento materiale consiste "nella costituzione tra il soggetto
attivo e quello passivo di un rapporto di fatto, per il quale questo
ultimo venga sottoposto al potere dell'altro con conseguente
privazione della facoltà di liberamente volere ed annientamento della
volontà nel suo integrale contenuto". In queste prime sentenze, pur
affermando "che il legislatore abbia voluto equiparare lo stato di
soggezione, quale stato di fatto derivante dal plagio, allo stato di
diritto derivante dalla riduzione in schiavitù" ed abbia inteso
prevedere come assoggettamento completo "un insieme di restrizioni e
di limitazioni tali da investire la personalità nel suo complesso, la
volontà nel suo integrale contenuto", non si dice mai esplicitamente
ma nemmeno esplicitamente si esclude che le attività con le quali il
colpevole raggiungerebbe il risultato espresso nell'art. 603, di
totale assoggettamento della vittima e di annientamento della
personalità e della volontà di questa, siano di natura psichica.
In talune sentenze del 1956 e del 1957 per conferire operatività
alla norma si comincia a rendersi conto che l'attività del plagiante
non può avere interamente l'effetto delineato dal legislatore
nell'art. 603. Si afferma pertanto che la privazione della facoltà di
liberamente volere e di liberamente autodeterminarsi riduce la vittima
"quasi una res" in potere del colpevole. E in altra sentenza il
medesimo concetto di interpretare le parole "totale stato di
soggezione" in senso riduttivo è espresso dicendo che perché
sussista il plagio "fra i due soggetti deve esistere un rapporto tale
di padronanza, di dominio, di potere che l'uno, essendo la sua volontà
e la sua personalità ' quasi completamente annullate ', possa
considerarsi ' quasi come una res ' in potere dell'altro".
Per la prima volta nel 1961 la Corte di cassazione in una
sentenza, con la quale accoglieva un ricorso per mancanza di
motivazione sull'affermazione della responsabilità dell'imputato,
dichiarava esplicitamente la natura psichica di questo reato e dei
suoi elementi costitutivi. Il plagio, affermava il Supremo Collegio,
"consiste appunto nella instaurazione di un rapporto psichico di
assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo, in modo
che il primo viene sottoposto al potere del secondo con completa o
quasi integrale soppressione della libertà del proprio determinismo".
E, lamentando che i giudici di merito avessero trascurato "di
compiere un'indagine a fondo sulla relazione psichica tra i due
soggetti, onde rilevarne in concreto la sussistenza o meno
dell'elemento materiale del reato" aggiungeva che, al contrario del
reato di sequestro di persona, "le condizioni materiali di vita del
soggetto passivo non hanno altro valore che quello di un mero
riscontro indiziario: ciò che più conta, invece, sono le sue
condizioni psichiche".
Anche questa sentenza intende accogliere l'interpretazione
dell'art. 603 c.p. per cui il "totale stato di soggezione" provocato
dall'azione plagiante non comporta necessariamente la totale
soppressione della libertà di determinazione del plagiato.
I concetti espressi nella sentenza del 1961 sono stati applicati
nell'unica pronunzia di condanna per il reato di plagio della Corte di
Assise di Roma 14 luglio 1968, confermata dalla Corte di Assise in
appello con sentenza 28 novembre 1969 e dalla Corte di cassazione con
sentenza 30 settembre 1971. È espressamente affermato che per la
consumazione del plagio "non è richiesta una padronanza fisica sulla
persona, ma un dominio psichico, al quale può eventualmente
accompagnarsi, ma non necessariamente, una signoria in senso materiale
e corporale; per effetto di questo dominio psichico dell'agente lo
status libertatis della vittima, inteso come stato di diritto, rimane
inalterato, ma è la sua libertà individuale quale entità concreta di
fatto che viene soppressa". Si ribadisce ancora questa concezione,
aggiungendo che per effettuare questo reato, non occorre che il
colpevole si impadronisca materialmente del soggetto passivo e
ripetendo quanto affermato nella precedente sentenza del 1961, che, a
differenza del sequestro di persona, le condizioni materiali della
vittima non hanno altro valore che quello di mero riscontro
indiziario, contando invece le condizioni psichiche. Si precisa
inoltre che "sul piano giuridico, il delitto di plagio si concretizza
nella cosciente e volontaria instaurazione, con qualunque mezzo
attuata, di un assoluto dominio psichico e eventualmente fisico, su di
una persona, nella negazione della sua personalità per effetto della
soppressione della libertà nelle essenziali sue manifestazioni".
Nella sentenza si descrive l'azione psichica del plagiante, affermando
che: "L'art. 603 c.p. tutela la libertà nella sua stessa originaria
essenza, nei fattori dinamici, nel potere di influsso, nella facoltà
di critica e di scelta, di ricerca e di decisione, di coscienza e di
volontà. Tali facoltà, che ineriscono all'attività psichica,
possono venire lese non solo mediante mezzi fisici che determinino
conseguenze organiche, ma anche mediante mezzi psichici che inducano
situazioni particolari ed eccezionali, analoghe in certo modo alle
neurosi e dipendenti da meccanismi meramente psichici, provocati da
un'azione psichica esterna". E nella sentenza di appello si precisa
ancora che "il delitto di plagio si realizza anche quando l'agente
aggredisce la sfera psichica di altra persona in modo da annullare la
di lei personalità, sostituendovi la propria, sottraendole ideali,
propositi, e imponendole i propri, disgregando ogni consapevolezza
della propria individualità, facendone un cieco seguace del proprio
volere, delle proprie idee, un automa privo di ogni facoltà di
critica, soggiogato dalla più forte volontà di chi lo guida in un
mondo non suo, in cui le idee sono accettate come l'unica possibilità
di espandere la propria personalità".
Con questa sentenza, che aveva provocato numerose e vivacissime
polemiche nel campo giuridico e nel campo medico, dando luogo anche a
due distinte iniziative legislative al Senato e alla Camera dei
Deputati, entrambe concludenti per l'abrogazione dell'art. 603 del
codice penale, veniva così definita la nozione giuridica del plagio,
respingendo le interpretazioni sino allora seguite dalla dottrina e dai
commentatori del codice, le quali configuravano l'azione del plagiante
come sostanzialmente e principalmente fisica non effettuabile
indipendentemente da eventuali attività corporali e fisiche
esercitate sul plagiato.
Veniva esclusa recisamente la tesi che era stata affermata dai
maggiori scrittori, secondo la quale lo scopo di porre la vittima al
servizio del plagiante, ricavandone un profitto, costituisce un
elemento per distinguere il plagio dagli altri delitti contro la
libertà individuale e veniva ripetuto che la totale soggezione
indicata nell'art. 603 deve consistere nell'instaurazione di
un'assoluta soggezione del plagiato sottoponendo questo al potere del
plagiante con quasi integrale soppressione della libertà e
dell'autonomia della persona.
11. - A partire dal 1969 nella dottrina penalistica e nell'opinione
pubblica si è venuta a mutare in maniera discorde e polemica e ad
ampliare sotto vari aspetti e in diverse direzioni la nozione del
plagio.
L'abbondante letteratura prodotta in vari campi con divergenti
conclusioni mostra i nuovi molteplici indirizzi dottrinari e nello
stesso tempo conferma, attraverso controversie di differente natura,
le gravissime difficoltà che sorgono per fornire una risposta
convincente ed appagante ai problemi giuridici e scientifici, pratici
e teorici che l'interpretazione dell'art. 603 comporta.
Per la configurazione del reato e per l'analisi oggettiva
dell'attività illecita e degli effetti di questa la recente
letteratura ha anche fatto ricorso e si è avvalsa di dati forniti da
moderni trattati di neurologia e psichiatria, cercando di individuare a
fini giuridici, i concetti medici, peraltro non ancora pacifici, di
suggestione, di convincimento, di persuasione, di soggezione, di
determinismo, di annientamento della volontà e di trasferimento della
personalità umana da parte di un soggetto ad altro soggetto. Ciò al
fine di determinare oggettivamente quale sia in realtà il totale
stato di soggezione indicato nella norma, di indicare i possibili
mezzi per accertarlo concretamente e di fissare i confini della sfera
giuridica entro cui può manifestarsi.
La varietà delle numerose opinioni avanzate in proposito e i
mutamenti della dottrina costituiscono anch'essi una conferma
dell'indeterminatezza della norma e dell'impossibilità di dare ad
essa un'univoca applicazione concreta.
12. - L'analisi del testo dell'art. 603 e i vari tentativi di
distinguere il reato dagli altri delitti contro la libertà
individuale, quale figura autonoma, non hanno permesso di precisare in
modo razionalmente sicuro le sue caratteristiche specifiche.
Formalmente appare come un reato a condotta libera che dovrebbe
essere diverso dalla riduzione in schiavitù o in condizione analoga.
Secondo quanto in precedenza esposto, questo potrebbe essere attuato
con mezzi psichici, cioè attraverso un'attività psichica del
plagiante esercitata direttamente sul plagiato. L'effetto
dell'attività psichica del plagiante dovrebbe essere non già quello
di ridurre un individuo in stato d'incapacità d'intendere o di
volere (previsto espressamente nell'art. 613 del cod. pen.) bensì
quello di ridurre la vittima da persona capace a persona in totale
stato di soggezione. Questo totale stato di soggezione indicato
dall'art. 603, annienterebbe il determinismo della vittima sostituendo
il determinismo del plagiante a quello del plagiato in guisa da
ridurre questo ultimo nello stato di cosa che pensa e agisce come pensa
e agisce il plagiante. In altre parole sarebbe il plagiante a formare
la volontà sua e del plagiato, questi essendo solo un mezzo fisico
per compiere le attività volute dal plagiante.
Non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si può
effettuare l'azione psichica del plagio né come è raggiungibile il
totale stato di soggezione che qualifica questo reato, né se per
l'esistenza di questo stato sia necessaria la continuità dell'azione
plagiante nel senso che, se la volontà del plagiante non si dirige
più verso il plagiato, cessi lo stato di totale soggezione di questo.
Non è dato pertanto conoscere se l'effetto dell'azione plagiante sia
permanente e duraturo o se può venir meno in qualunque momento per
volontà del plagiante o anche perché non persiste l'attività di
questo o per altre cause. Nemmeno si conosce se il risorgere della
facoltà di determinismo del plagiato possa essere la conseguenza di
un mutamento del determinismo del plagiante o di una diversa direzione
data al determinismo di questo. Quanto all'elemento psichico si
tratterebbe di un delitto a dolo generico.
L'interpretazione giurisprudenziale identifica il totale stato di
soggezione cui il plagiante indurrebbe il plagiato anche in una
situazione in cui questo ultimo è sottoposto al potere del primo con
"quasi integrale soppressione della libertà e dell'autonomia della
persona".
L'interpretazione data, da un lato, rende evidente
l'impossibilità di riscontrare nella realtà un totale stato di
soggezione, tale cioè da sopprimere integralmente (e non "quasi
integralmente") ogni libertà ed autonomia di determinazione del
soggetto che si assume plagiato e dall'altro modifica la fattispecie
prevista e punita con la reclusione da 5 a 15 anni dall'art. 603 codice
penale.
13. - La scienza medica ha accuratamente indagato intorno alla
formazione e al meccanismo della persuasione, della suggestione e
della soggezione psichica.
Fra individui psichicamente normali, l'esternazione da parte di un
essere umano di idee e di convinzioni su altri esseri umani può
provocare l'accettazione delle idee e delle convinzioni così
esternate e dar luogo ad uno stato di soggezione psichica nel senso
che questa accettazione costituisce un trasferimento su altri del
prodotto di un'attività psichica dell'agente e pertanto una
limitazione del determinismo del soggetto. Questa limitazione, come
è stato scientificamente individuato ed accertato, può dar luogo a
tipiche situazioni di dipendenza psichica che possono anche
raggiungere, per periodi più o meno lunghi, gradi elevati, come nel
caso del rapporto amoroso, del rapporto fra il sacerdote e il
credente, fra il Maestro e l'allievo, fra il medico e il paziente ed
anche dar luogo a rapporti di influenza reciproca. Ma è estremamente
difficile se non impossibile individuare sul piano pratico e
distinguere a fini di conseguenze giuridiche - con riguardo ad ipotesi
come quella in esame - l'attività psichica di persuasione da quella
anche essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per
separare e qualificare l'una e l'altra attività e per accertare
l'esatto confine fra esse. L'affermare che nella persuasione il
soggetto passivo conserva la facoltà di scegliere in base alle
argomentazioni rivoltegli ed è pertanto in grado di rifiutare e
criticare, mentre nella suggestione la convinzione avviene in maniera
diretta e irresistibile, profittando dell'altrui impossibilità di
critica e scelta, implica necessariamente una valutazione non solo
dell'intensità dell'attività psichica del soggetto attivo, ma anche
della qualità e dei risultati di essa. Quanto all'intensità, dai
testi psichiatrici, psicologici e psicoanalitici e dalle ampie
descrizioni mediche di condizionamento psichico risulta che ogni
individuo è più o meno suggestionabile, ma che non è possibile
graduare ed accertare in modo concreto sino a qual punto l'attività
psichica del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad
altri il libero esercizio della propria volontà. Quanto alla qualità
non è acquisito sino a qual punto l'attività del soggetto attivo non
riguardi direttive e suggerimenti che il soggetto passivo sia già
disposto ad accettare. Quanto alla valutazione dei risultati essa non
potrà che essere sintomatica e concludere positivamente o
negativamente a seconda che l'attività esercitata sul soggetto
passivo porti a comportamenti conformi o a comportamenti devianti
rispetto a modelli di etica sociale e giuridica.
L'accertamento se l'attività psichica possa essere qualificata
come persuasione o suggestione con gli eventuali effetti giuridici a
questa connessi, nel caso del plagio non potrà che essere del tutto
incerto e affidato all'arbitrio del giudice. Infatti in applicazione
dell'art. 603 qualunque normale rapporto sia amoroso, sia di
professione religiosa, sia di partecipazione a movimenti ideologici,
sia di altra natura, se sorretto da un'aderenza "cieca e totale" di un
soggetto ad un altro soggetto e sia considerato socialmente deviante,
potrebbe essere perseguito penalmente come plagio.
Anche sotto questi profili risulta pertanto l'indeterminatezza
della norma e della sua interpretazione.
14. - La formulazione letterale dell'art. 603 prevede pertanto
un'ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo
risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività
che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in
totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente
qualificabile questo stato, la cui totalità, legislativamente
dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata.
Presupponendo la natura psichica dell'azione plagiante è chiaro
che questa, per raggiungere l'effetto di porre la vittima in stato di
totale soggezione, dovrebbe essere esercitata da persona che possiede
una vigoria psichica capace di compiere un siffatto risultato. Non
esistono però elementi o modalità per potere accertare queste
particolari ed eccezionali qualità né è possibile ricorrere ad
accertamenti di cui all'art. 314 c.p.p., non essendo ammesse nel nostro
ordinamento perizie sulle qualità psichiche indipendenti da cause
patologiche.
Né è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze,
che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici
l'asservimento totale di una persona.
15. - Dinanzi alle perplessità cui ha dato luogo l'unica sentenza
di condanna per il delitto di plagio pronunziata nel nostro
ordinamento in oltre 50 anni dall'emanazione del codice penale, parte
della dottrina ha tentato di rinvenire connotazioni tipiche di tale
figura criminosa, richiamandosi anche ad elementi tratti da ipotesi
psichiatriche. Alcuni, infatti, interpretando limitativamente la norma
nel senso che il suo scopo sarebbe quello di proteggere da fenomeni
ossessivi o da psicosi indotta, vorrebbero ravvisare tale delitto
nella concorrenza di due elementi. Uno esteriore consistente
nell'allontanamento dai terzi del plagiato ad opera del plagiante anche
attraverso un sequestro di persona o fatti simili. Uno interiore
consistente nel senso di deprivazione psichica in cui deve versare il
plagiato una volta interrotto il rapporto col plagiante, deprivazione
che, secondo l'ipotesi prospettata, mostrerebbe come il soggetto
passivo era stato ridotto ad uno stato di soggezione totale.
Simile tesi viene oggi riproposta alla Corte dalla difesa delle
parti civili.
Ora, a parte che nessun canone ermeneutico autorizza ad una tale
configurazione restrittiva del reato, non sembra che tali elementi,
sia singolarmente che unitariamente considerati, valgano a rendere
determinata la fattispecie criminosa di cui all'art. 603 c.p. Essi, al
contrario, paiono offrire un'ulteriore dimostrazione che questo
articolo - di per sé inapplicabile - si attualizza nella
giurisprudenza e nella dottrina in forza di un'interpretazione
analogica, tesa ad assimilare gli stati realizzabili di quasi totale
soggezione allo stato irrealizzabile di totale soggezione.
Va infatti osservato che il concetto di "deprivazione psichica"
che s'identifica con il senso di avere bisogno di qualcuno, è
essenzialmente quantitativo, instaurandosi in qualsiasi rapporto
affettivo una sorta di quello che gli psicologi chiamano "transfert" o
anche di rapporto psicologico reciproco. Ma per valutare se
l'interruzione del rapporto con altri faccia arguire la preesistenza
di uno stato di "totale soggezione", è necessario conoscere
l'intensità dolorosa dell'interruzione. Quesito questo a cui può
darsi solo una risposta soggettiva e quindi di per sé convalidante
l'arbitrarietà di una simile soluzione concettuale.
D'altra parte l'elemento esteriore consistente nell'allontanamento
dai terzi, se non sorretto dall'elemento interiore o se sorretto da un
elemento interiore non determinato, quale la deprivazione di cui si è
detto, perde ogni connotazione significativa ai fini di una
tipizzazione del delitto.
16. - L'esame dettagliato delle varie e contrastanti
interpretazioni date all'art. 603 del codice penale nella dottrina e
nella giurisprudenza mostra chiaramente l'imprecisione e
l'indeterminatezza della norma, l'impossibilità di attribuire ad essa
un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l'assoluta
arbitrarietà della sua concreta applicazione. Giustamente essa è
stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo
essere applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di
un essere umano da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro
parametro per accertarne l'intensità.
L'art. 603 del c.p., in quanto contrasta con il principio di
tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di
legge in materia penale, consacrato nell'art. 25 della Costituzione,
deve pertanto ritenersi costituzionalmente illegittimo.
17. - La constatazione del contrasto fra l'art. 603 del c.p. con
l'art. 25 della Costituzione è assorbente dell'altra questione
sollevata dal giudice a quo dell'illegittimità costituzionale del
medesimo articolo in riferimento all'art. 21.
Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art.
603 in riferimento all'art. 25 della Costituzione.