Ritenuto in fatto:
1. - Con istanza 19 dicembre 1956 la Società "II Tempo-T.V."
chiedeva al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni "l'assenso
di massima" per la realizzazione di un servizio di radiodiffusione
televisiva, basato economicamente sui proventi della pubblicità, da
attuare nelle Regioni del Lazio, della Campania e della Toscana, con
eventuale successiva estensione ad altre regioni. Dichiarava la
Società di voler realizzare tale programma provvedendo alla
costruzione di impianti trasmittenti, studi di ripresa e ponti-radio
mobili per trasmissioni esterne; di volersi conformare alle vigenti
norme sulla stampa e sulla materia oggetto di pubblici spettacoli; di
voler evitare ogni disturbo alle trasmissioni di altri servizi,
"assumendo l'obbligo di rispettare tutte le disposizioni nazionali ed
internazionali, legislative e regolamentari, riguardanti le
radiocomunicazioni". Al fine di "evitare interferenze con le
preesistenti stazioni TV italiane" (le quali, come è noto, si
avvalgono attualmente di frequenze della gamma VHF), dichiarava inoltre
di intendere utilizzare frequenze della gamma UHF. Pertanto, chiedeva
la riserva in proprio favore dell'uso di "sei canali TV della banda
assegnata alla radiodiffusione, al di sopra del 470 Mc/s, dalla
convenzione di Atlantic City, canali da scegliersi opportunamente per
garantire la migliore possibile efficienza delle trasmissioni";
sollecitava "la indicazione dei criteri tecnici fondamentali" cui
uniformare i programmi in corso di studio; si riservava di presentare
all'approvazione del Ministero i progetti dettagliati. Con successiva
istanza 19 febbraio 1957 "precisava e richiedeva", per l'attuazione del
suo programma, dieci canali TV della banda in precedenza indicata,
compresi tra 470 e 547 Mc/s.
Con nota 8 marzo 1957 il Ministero rispondeva che, siccome in base
agli artt. 1 e 168, n. 5, del Codice postale e delle telecomunicazioni,
aveva concesso in esclusiva alla RAI- Radiotelevisione italiana, fin
dal 1952, l'esercizio dei "servizi di radiodiffusione e di
televisione", non poteva "prendere in considerazione nuove richieste di
concessioni per lo stesso servizio".
Con ricorso notificato il 18 aprile 1957, tale risposta fu
impugnata dalla richiedente innanzi al Consiglio di Stato, sotto il
profilo della insussistenza, nel vigente ordinamento, di un monopolio
statale del servizio della televisione, e, subordinatamente, sotto il
profilo della illegittimità costituzionale di tale monopolio, per
eccesso del R.D. 27 febbraio 1936, n. 645 (che approvava il Codice
postale), rispetto alla legge di delegazione 13 aprile 1933, n. 336,
nonché per contrasto con gli artt. 21, 33 e 41 della Costituzione.
2. - II Consiglio di Stato, Sez. VI, con decisione interlocutoria
parziale 15 luglio 1959, n. 504, dichiarava infondato il motivo basato
sulla insussistenza del monopolio statale. Con ordinanza di pari data
n. 505 dichiarava manifestamente infondata la questione di
costituzionalità relativa all'esorbitanza del Codice postale dai
limiti della delega, e rimetteva a questa Corte - previa affermazione
della rilevanza ai fini del decidere - le sole questioni relative alla
compatibilità con gli artt. 21, 33 e 41 Cost. ("anche in rapporto
all'art. 43") degli artt. 168, n. 5, e 1 del Codice postale e delle
telecomunicazioni (relativi al monopolio statale), "per la parte in cui
concernono la televisione".
In relazione all'art. 21 Cost., si osserva nella ordinanza che "non
pare... evidentemente priva di qualsiasi attendibilità" l'affermazione
della ricorrente, secondo cui tale articolo assicurerebbe ai
particolari, tra l'altro, la "libertà di diffusione" e la "libertà di
uso di ogni mezzo di diffusione" e, quindi, anche quella della
televisione: donde l'incostituzionalità della riserva di tale mezzo
allo Stato. Non potendo esistere la "libertà di compiere un atto"
senza la "libertà di fare uso dei mezzi all'uopo idonei o addirittura
indispensabili", non sarebbe "irragionevole" ritenere incompatibile con
la libertà di diffusione del pensiero riservare allo Stato l'impianto
e l'esercizio della televisione, "senza nel contempo imporgli l'obbligo
di aprire il servizio al pubblico", inteso nel senso di "insieme di
coloro che aspirano alla diffusione del loro pensiero con il mezzo
televisivo" (in modo analogo a quanto avviene per i servizi postali,
telegrafico e telefonico, nei quali "il regime di esclusiva si
accompagna all'obbligo per lo Stato, o per il concessionario, di
rendere la prestazione a chi la richieda, onde non è da temere che la
libertà individuale, che per esplicarsi avesse bisogno di detti
servizi, possa restar vulnerata dal mancato possesso del mezzo").
L'ordinanza ribatte, al riguardo, una per una le obbiezioni delle
parti resistenti.
A quella secondo cui l'art. 21 non riconoscerebbe il diritto di
utilizzare tutti i possibili mezzi di diffusione, ma solo i mezzi dei
quali si abbia la disponibilità, osserva che la questione di
costituzionalità consiste nel vedere se sia consentito alla legge di
impedire, a chi ne abbia la possibilità materiale, la possibilità
giuridica di possedere e usare liberamente un certo mezzo di
diffusione. Pur ammesso però che la libertà di diffondere il pensiero
con un dato mezzo non implichi la illimitata libertà di possedere quel
mezzo e di farne uso, sarebbe nondimeno "non irragionevole" "ritenere
che il monopolio statale sia, quanto meno, di ostacolo al pieno
raggiungimento da parte dei singoli del fine tutelato dall'art. 21": in
primo luogo - sotto un profilo "qualitativo" - poiché "lo Stato
potrebbe escludere dalla diffusione, in base a propri criteri
ideologici, una determinata corrente di pensiero"; in secondo luogo -
sotto il profilo "quantitativo" -, giacché "lo Stato potrebbe limitare
il quantum del pensiero diffondibile".
All'obbiezione della impossibilità materiale che la televisione
sia a disposizione di tutti - impossibilità determinata dalla
limitatezza delle "bande" di "frequenze" disponibili e dalla necessità
di evitare interferenze e disturbi - l'ordinanza osserva, prima di
tutto, che l'impossibilità di un numero illimitato di trasmissioni
televisive non importa affatto che in simili condizioni sia
indispensabile istituire un monopolio (una pluralità di impianti,
ancorché limitata, consentendo una maggiore accessibilità dei mezzi
di diffusione, risponderebbe certo meglio dell'unico impianto
monopolistico, al principio della libera circolazione delle idee). II
sistema del monopolio viene a permettere allo Stato di lasciare
inutilizzata buona parte delle "frequenze" che gli accordi
internazionali consentirebbero di utilizzare. Né varrebbe opporre che
il monopolio non escluderebbe la possibilità di più concessioni (e,
quindi, di una pluralità di servizi), giacché tale possibilità è
condizionata in via assoluta dalla discrezionalità (e cioè dal buon
volere) dell'Amministrazione.
All'altra obbiezione, secondo la quale, avendo la televisione,
necessariamente, per oggetto, la diffusione del pensiero altrui, la
questione della libertà di essa non riguarderebbe la libertà
garantita dall'art. 21 Cost., l'ordinanza replica che, persino a voler
ammettere l'esattezza di tale interpretazione dell'art. 21 (che non è
"pacificamente accettabile"), "non può non suscitare perplessità" la
tesi che la televisione non potrebbe servire per la diffusione del
pensiero proprio, giacché non è affatto inverosimile che un
individuo, un ente, un gruppo, un'associazione desiderino avvalersi di
tale mezzo per la diffusione del proprio pensiero, della propria fede,
della propria ideologia.
All'ulteriore obbiezione, secondo cui solo la riserva della
televisione allo Stato consentirebbe di assicurare a tutti
indistintamente - in conformità dell'art. 3 Cost. - la possibilità di
accesso a tale mezzo di diffusione del pensiero, resa altrimenti
impossibile dalla limitata disponibilità delle "frequenze",
l'ordinanza - a parte il rilievo che la sfera dei beneficiari degli
artt. 3 e 21 Cost. non coincide (in quanto la seconda comprende anche
gli stranieri) - oppone che la concreta attuazione del principio
enunciato dall'art. 3 non può prescindere dall'osservanza dell'art.
21. Resta, cioè, sempre da stabilire se con quest'ultimo sia
compatibile il monopolio statale del servizio di televisione, "o se,
invece, questo postuli la libertà individuale di disporre del mezzo,
o, quanto meno, l'esclusione di limitazioni in ordine al quantum e alla
specie del pensiero diffondibile, che lo Stato potrebbe imporre, anche
se spontaneamente ammettesse tutti i cittadini, senza distinzione, ad
avvalersi del mezzo televisivo".
In relazione all'art. 33, primo comma, Cost., che garantisce la
libertà dell'arte e della scienza, premesso che la disposizione non
riguarda soltanto il momento creativo ma anche "quello della
rappresentazione e comunicazione esteriore", l'ordinanza osserva che
questo ultimo momento "sembra potersi ricondurre nel più generale
concetto di manifestazione del pensiero" e, quindi, nell'ambito
dell'art. 21. Aggiunge, anzi, che esistono e potranno svilupparsi in
futuro forme di spettacolo (e, quindi, d'arte) "specifiche per la
televisione"; ed esse, in regime di monopolio statale del servizio,
potrebbero essere "impedite o limitate da un difforme criterio imposto
dallo Stato". Donde l'esclusione della manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione
all'art. 33 Cost.
Con riferimento all'art. 41 Cost., che garantisce la libertà
dell'iniziativa economica privata, - premesso che la relativa questione
di costituzionalità attiene al profilo (non essenziale) della
televisione, in quanto oggetto di impresa economica -, all'obbiezione
che se non dall'art. 41 il monopolio statale sarebbe consentito
dall'art. 43 (il quale ammette che per "fini di utilità generale" la
legge riservi o trasferisca allo Stato imprese attinenti a "servizi
pubblici essenziali" o a "situazioni di monopolio" e abbiano "carattere
di preminente interesse generale"), l'ordinanza replica, innanzi tutto,
che non può escludersi che sulla disciplina legislativa attinente
all'attività economica di trasmissioni televisive debbano influire i
principi contenuti nell'art. 21: col conseguente dubbio, ad es., se
possano ravvisarsi "fini di utilità generale" nella riserva allo Stato
del servizio di televisione, ove tale riserva sia riscontrata in
contrasto con l'art. 21. Aggiunge, inoltre, esser tutt'altro che certo
che i servizi di informazione, soprattutto politica, possano
considerarsi "servizi pubblici essenziali". Spiega, poi, che la
limitatezza del numero delle "frequenze" utilizzabili "non determina
necessariamente una situazione in tutto equivalente a quella di
monopolio" (cui ha riguardo l'art. 43). Osserva, infine, esser dubbio
che l'art. 43 consenta di escludere i privati da imprese riferentisi a
situazioni che solo in via eventuale potranno sfociare in un monopolio.
3. - L'ordinanza del Consiglio di Stato fu notificata alle parti in
causa (Soc. "Il Tempo-TV", RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a. e
Ministero delle poste e delle telecomunicazioni), nonché al Presidente
del Consiglio dei Ministri il 21 luglio 1959, e ne fu data
comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 28 luglio
successivo. Essa è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12
settembre 1959, n. 220.
Si è costituito innanzi a questa Corte, depositando deduzioni il
20 ottobre 1959, il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni. Si
sono anche costituiti, depositando deduzioni e mandato, la Società "Il
Tempo-TV" il 26 settembre 1959 e la RAI-Radiotelevisione italiana s. p.
a. il 1 ottobre 1959.
È, inoltre, intervenuto, con atto depositato il 10 agosto 1959, il
Presidente del Consiglio dei Ministri.
4. - Nelle deduzioni della Soc. "Il Tempo TV" si ribadiscono le
osservazioni dell'ordinanza.
In particolare, si osserva, in polemica con le argomentazioni
svolte dalle controparti in Consiglio di Stato, che la libertà del
contenuto (e cioè della materia delle trasmissioni) non è
conseguibile senza la libertà di disposizione del mezzo (impianti e
servizi di trasmissione), non diversamente da come avviene per la
stampa: e, come la pubblicazione di stampati e l'impiego di
altoparlanti non possono esser sottoposti ad autorizzazioni (viene
ricordata al riguardo la sent. n. 1 del 1956 di questa Corte), così
l'impianto di servizi televisivi non potrebbe esser sottoposto a
concessioni. Inconsistente sarebbe, poi, l'affermazione avversaria che
l'esercizio del servizio televisivo non si differenzierebbe
sostanzialmente da quello dei servizi postale, telegrafico, telefonico,
nonché dalla gestione dei teatri, nel senso che, non diversamente che
nei citati casi, esso si limiterebbe a porre le attrezzature occorrenti
a disposizione degli interessati che intendano manifestare il proprio
pensiero o rappresentare spettacoli: per ribattere tale tesi si osserva
che lo Stato ha dato in concessione alla RAI non soltanto i servizi
tecnici di radiotrasmissione, ma la stessa gestione dei programmi
(convenzione approvata con D.P.R. 26 gennaio 1952, n. 180). L'esistenza
dei controlli statali previsti dalla legislazione sui programmi radio
televisivi (art. 261 Cod. postale e D. lg. 3 aprile 1947, n. 428) e la
disposizione dell'art. 268 Cod. postale, in base alla quale "il
concessionario ha diritto di radiodiffondere le esecuzioni artistiche
dai luoghi pubblici", sarebbero poi altrettante conferme che l'attuale
monopolio attiene non solo ai servizi tecnici, ma anche al contenuto
delle trasmissioni.
La Società non contesta che esistano ragioni pratiche e giuridiche
che rendono limitato il numero dei "canali" disponibili (per quanto si
tratterebbe di limiti meno gravi di quelli posti in evidenza ex
adverso), né nega che ciò postuli una disciplina da parte dello
Stato. Tutto ciò non sarebbe però sufficiente ad autorizzare il
monopolio statale, tanto è vero che analoghi problemi non impediscono
che in altri Paesi si realizzi un sistema di televisione libera.
La Società nega, poi, nel modo più assoluto che il sistema
monopolistico riesca a realizzare la uguale possibilità per tutti di
utilizzare il mezzo di trasmissione: lungi dal porlo a disposizione di
tutti, il sistema attuale pone il servizio a disposizione della sola
concessionaria. Inoltre, se fosse esatto il ragionamento avversario,
dovrebbe giungersi alla affermazione estrema che per garantire
ugualmente a tutti la libera manifestazione del pensiero occorrerebbe
monopolizzare nelle mani dello Stato l'editoria giornalistica.
5. - Nelle proprie deduzioni la RAI solleva, innanzi tutto, una
eccezione di inammissibilità del giudizio costituzionale per la parte
relativa alla compatibilità delle disposizioni impugnate con gli artt.
21 e 33 Cost.: ciò perché l'ordinanza di rimessione non avrebbe
esaminato la rilevanza di tale aspetto del giudizio di
costituzionalità promosso. Osserva che la "Il Tempo-TV" si proponeva
con la propria istanza al Ministero non finalità di diffusione del
pensiero, della scienza e dell'arte, bensì soltanto finalità di
lucro: di conseguenza quel che il rifiuto ministeriale poteva ledere
era, se mai, la libertà di impresa economica, non la libertà di
diffusione del pensiero, della scienza e dell'arte. Se la pretesa
violazione della prima libertà, e non quella della seconda, alimentava
l'interesse della ricorrente, ne discende - dice la RAI - che, al fine
di decidere il giudizio amministrativo, potevano aver rilevanza le
questioni di costituzionalità delle impugnate disposizioni del Codice
postale in relazione agli artt. 41 e 43 Cost. (riguardanti appunto la
libertà di impresa economica) e non quelle in relazione agli artt. 21
e 33 (riguardanti la libertà di diffusione del pensiero e la libertà
della scienza e dell'arte). L'ordinanza del Consiglio di Stato, avendo
mancato di procedere a una valutazione della rilevanza delle questioni
di costituzionalità in relazione a questi ultimi due articoli,
sarebbe, dunque, irrituale. Né potrebbe far pensare che tale
valutazione vi sia stata, il fatto che l'ordinanza ha dichiarato "non
pacificamente accettabile" l'osservazione della RAI secondo cui l'art.
21 proteggerebbe soltanto la libertà di diffusione del pensiero
proprio e non anche quella del pensiero altrui: tale dichiarazione,
compiuta in sede di giudizio circa la non manifesta infondatezza della
questione sollevata dalla "II Tempo-TV", non implica, infatti, che sia
stato compiuto il giudizio di rilevanza, giacché questo ha autonoma
funzione, consistendo nella valutazione della sussistenza, nella
questione di costituzionalità, di un qualche carattere pregiudiziale
rispetto alla decisione del giudizio a quo - sussistenza la quale ben
può mancare nonostante la non manifesta infondatezza della questione.
In ogni caso a dimostrare la mancanza del giudizio di rilevanza
dovrebbe bastare il semplice fatto della omissione di qualsiasi esame
circa la sussistenza di altri caratteri, oltre quelli di lucro, negli
intenti della "Il Tempo-TV". Nel merito, la RAI premette che gli artt.
1 e 168, n. 5, Cod. post. - ai quali si limita il giudizio di
costituzionalità (che non si estende anche alle altre norme relative
all'ordinamento del servizio televisivo e al modo di esercitarlo) -
assicurano allo Stato l'esclusività tanto dei mezzi televisivi (e
cioè degli impianti e del loro esercizio tecnico), quanto del relativo
servizio (e cioè delle trasmissioni), mentre non riguardano affatto il
contenuto delle trasmissioni (onde la possibilità di utilizzare il
servizio televisivo per effettuare delle trasmissioni sarebbe "aperta,
in via di principio, indistintamente a tutti", non diversamente da
quanto accade per i servizi postale, telegrafico e telefonico), e
osserva che se la "Il Tempo-TV", anziché chiedere l'autorizzazione a
realizzare un nuovo servizio televisivo, avesse chiesto di avvalersi
del servizio esistente per diffondere "manifestazioni di pensiero, di
scienza, di arte, da essa prodotte e propugnate", avrebbe ricevuto ben
altra risposta che quella impugnata in Consiglio di Stato. Premette
anche che ai fini del giudizio in esame non può farsi alcuna
differenza tra la libertà di diffusione del pensiero e la libertà di
diffusione del pensiero artistico e scientifico: donde l'opportunità
di trattare congiuntamente della pretesa violazione degli artt. 21 e 33
della Costituzione. Premette, inoltre, la necessità di tener presente
che l'oggetto della questione di costituzionalità sollevata è
soltanto l'esistenza (in base a certe norme) di una riserva allo Stato
del servizio televisivo, e non anche il modo in cui il servizio
riservato allo Stato sia (in base ad altre norme) organizzato ed
esercitato.
Osserva, poi, con riferimento all'art. 21, primo comma, Cost., che
esso garantisce due diversi diritti: il primo - sostanziale - alla
libera manifestazione del pensiero; il secondo - strumentale e
accessorio rispetto all'altro - a impiegare la parola, lo scritto e
ogni altro mezzo di diffusione per manifestarlo. L'art. 21 non
specifica però in che cosa si concreti tale "diritto": non lo
individua cioè - come sembra ritenere il Consiglio di Stato - come un
diritto di "possedere" o di "usare" dei mezzi di diffusione. Si tratta
dunque di un "diritto" la cui consistenza deve essere specificata dal
legislatore ordinario: dalla Costituzione risulta soltanto, da un lato,
che né lo Stato, né altri, possono in alcun modo impedire un qualche
mezzo di diffusione del pensiero (e, quindi, anche quello televisivo),
e, dall'altro, che a ogni soggetto è consentito di avvalersi (di
adoperare, di servirsi) di qualsiasi mezzo (e, quindi, anche di quello
televisivo) per comunicare il proprio pensiero. Questi sono però i
soli limiti in cui il legislatore ordinario si imbatta al riguardo:
onde, purché li rispetti, può adottare (con legge comune o con legge
speciale), per ciò che riguarda i mezzi di diffusione, il regime che
ritenga più conveniente. È, quindi, inesatto che l'art. 21 postuli
un regime di disponibilità privata del mezzo televisivo; e tanto più
è inesatto, in quanto la limitatezza delle "frequenze" a disposizione,
consentendo solo a pochissimi la disponibilità del mezzo, fa sì che
il regime meno compatibile con gli art. 21 e 33 Cost., è proprio
quello auspicato ex adverso. Del pari è inesatto, e non provato, e
comunque non rispondente al diritto positivo, che il regime di
disponibilità privata sia il più rispondente ai fini dell'art. 21:
anzi, se la Costituzione nulla dispone all'art. 21 circa il regime dei
mezzi, dagli artt. 3, 41 e 43 si ricavano principi tutt'altro che
favorevoli alla disponibilità privata.
Passando all'esame dell'art. 1 e dell'art. 168, n. 5, Cod. postale
- che sono le sole disposizioni impugnate - la RAI, ricordato che essi
riservano allo Stato, da un lato, l'impianto e l'esercizio tecnico dei
mezzi televisivi, e, dall'altro, il servizio delle trasmissioni
televisive, si occupa, innanzi tutto, del primo aspetto. Al riguardo
osserva che, lungi dal costituire un impedimento alla diffusione del
pensiero mediante la televisione, la riserva degli impianti allo Stato
- particolarmente in un regime di democrazia liberale e sociale -
rappresenta in astratto il miglior sistema per garantire l'uguale
godimento di quel diritto, anche se in concreto possa esservi qualche
pericolo - da combattere con altri mezzi - di abusi e parzialità. Né
la riserva determina necessariamente una limitazione della
utilizzabilità dei mezzi: in concreto lo Stato si propone di
utilizzare tutte le possibili "frequenze"; e, comunque, allo Stato è
da riconoscere il potere discrezionale di valutare e assegnare ai vari
servizi (civili e militari, pubblici e privati) le "frequenze"
disponibili. Qualunque questione circa il quantum di utilizzazione
degli impianti riguarda poi, se mai, la legittimità delle norme
sull'ordinamento dei servizi, e non quella delle norme sulla riserva
degli impianti allo Stato.
In relazione, poi, alla riserva allo Stato del servizio delle
trasmissioni televisive, la RAI osserva innanzi tutto che, trattandosi,
per legge, di un servizio pubblico, ad esso inerisce istituzionalmente
che deve esser posto a disposizione di tutti gli interessati a
utilizzarlo, né esistono norme particolari che escludano nel caso tale
disciplina, risultante dai principi istituzionali: in fatto, poi, sia
per ciò che riguarda i così detti utenti passivi - e cioè i
telespettatori -, sia per ciò che riguarda gli utenti attivi - e cioè
quelli che abbiano interesse a effettuare trasmissioni -, il servizio
è realmente, e nel modo più efficiente (nei limiti del possibile), a
disposizione di tutti. Naturalmente la "limitatezza del mezzo e del
tempo" non consente di soddisfare tutte le richieste di trasmissione:
ma "anche nell'ipotesi di una pluralità di enti televisivi che pur
sempre sarebbe limitatissima, e che non servirebbe ad aumentare di un
minuto la possibilità offerta dal mezzo (perché anche ripartendo
questo fra più enti, resterebbe comunque identico il volume
complessivo delle sue prestazioni)", nondimeno "l'accesso dei vari
interessati alla televisione per diffondere il loro pensiero non
potrebbe avvenire che in un certo ordine, in base a determinati criteri
di ammissione". Per sua natura, e sempre, "il diritto all'utenza attiva
del mezzo è fondamentalmente condizionato". "I mezzi sono quelli che
sono, e il servizio è quello che è".
Quanto all'assunto che la riserva del servizio allo Stato potrebbe
tradursi in una discriminazione del pensiero diffondibile, in base ai
criteri ideologici del monopolista, la RAI ne pone in luce la
gratuità; il monopolio di uno Stato democratico è in grado di
assicurare l'obbiettività e l'indiscriminatezza del servizio certo
assai meglio di un monopolio o di un oligopolio privato. Comunque, in
concreto, il servizio è organizzato delle leggi vigenti (e in
particolare dal D. Lg. 3 aprile 1947, n. 428) in base a criteri validi
ad assicurarne l'indipendenza, l'obbiettività e l'esclusione di
discriminazioni, sia in ordine alle informazioni che in ordine ai
programmi. Tali leggi potranno, forse, anche essere insufficienti o
imperfette; è certo però che esse non contrastano con gli artt. 21 e
33 Cost.: "esse sono tali da permettere, senza alcuna eccezione, a
chiunque ne abbia interesse, a qualsiasi corrente e manifestazione di
pensiero, l'accesso per la diffusione al mezzo televisivo. Tale accesso
potrà ulteriormente esser regolato o garantito attraverso norme più
particolari e specifiche. Ciò non significa che intanto esso possa
arbitrariamente essere ostacolato e impedito". In realtà "la
televisione è aperta a tutti i settori della scienza e dell'arte, alle
voci di ogni corrente di pensiero e di ogni forma e manifestazione
d'arte".
Sottolinea, infine, la RAI che gli artt. 21 e 33 Cost. non sono
vulnerati neanche dalla possibilità per lo Stato di attribuire il
servizio in concessione. Infatti, la concessione non incide
minimamente sul diritto degli interessati di avvalersi del servizio per
la diffusione del proprio pensiero. E neppure urta coi riferiti
articoli della Costituzione il sistema della concessione in esclusiva.
La RAI passa, poi, a dimostrare l'infondatezza delle censure di
incostituzionalità in relazione agli artt. 41 e 43 Costituzione.
Premesso che il principio enunciato nel primo comma dell'art. 41 è
carico di limitazioni e che l'art. 43 non è se non uno sviluppo dei
principi fissati dall'art. 41, "rilevante sopratutto per certe
limitazioni di applicazione che esso tende a stabilire", osserva che
l'art. 41 offre un fondamento estremamente debole e fragile alla tesi
della "Il Tempo-TV". La limitatezza dei mezzi televisivi materialmente
disponibili non permetterebbe piu di due o tre servizi a base ed
estensione nazionali. In tale situazione, come può affermarsi che sia
"socialmente utile" e conforme alla "libertà umana" (che comprende
anche il diritto di essere informati) che la televisione possa ridursi
a "un privilegio delle imprese private che fossero riuscite a ottenere
(in base a quali criteri di concessione?) l'uso dei canali televisivi
necessari ?". Si tratterebbe davvero di un privilegio, "materiale ed
economico da un lato, ideologico dall'altro", dato che "l'impresa
televisiva privata non può non essere, per definizione, caratterizzata
e qualificata ideologicamente". Già i limiti posti dall'art. 41
all'iniziativa economica privata sarebbero, dunque, sufficienti a far
escludere che in base a tale articolo le impugnate disposizioni
sarebbero incostituzionali.
Con particolare riferimento all'art. 43 Cost., la RAI osserva,
innanzi tutto, che, come l'art. 43 non può legittimare limitazioni
alle libertà sancite dagli artt. 21 e 33 Cost., del pari questi non
possono impedire le applicazioni dell'art. 43 ritenute necessarie. E le
disposizioni vigenti in materia di televisione rappresentano, appunto,
"un esempio, per quanto perfettibile esso sia, del possibile
coordinamento dell'art. 21 con l'art. 43 Cost.". Specifica, poi, che
l'articolo 43 non si applica soltanto ai casi di attività esercitate
per fini di lucro. Se una attività presenti i caratteri di servizio
pubblico o di situazione di monopolio, l'art. 43 è applicabile, anche
se, per avventura, non venga utilizzata a fini di lucro (ma a fini
religiosi, ideologici, culturali, ecc.). Persino l'impresa
giornalistica potrebbe essere statizzata ai sensi dell'art. 43, anche
se, in relazione a tale attività, le disposizioni sulla stampa
contenute nell'art. 21 consentirebbero, secondo alcuni, di porre il
problema in termini assolutamente particolari, e non suscettibili di
essere estesi alla materia della televisione.
Sostenere, poi, che per il servizio televisivo non ricorrano quei
"fini di utilità generale", che soli possono legittimare, ai sensi
dell'art. 43, la riserva allo Stato, ritenendo, quindi, che solo la
libera iniziativa privata soddisfi, in connessione con gli artt. 21 e
33 Cost., ai fini di utilità generale, significa, da un lato,
sovrapporsi alla valutazione del legislatore, dall'altro, ispirarsi, in
materia di diritti di diffusione del pensiero e di iniziativa economica
privata, a vieti schemi, superati dall'ordinamento costituzionale
vigente.
Osserva ancora la RAI che la televisione è fuori dubbio un
servizio pubblico "essenziale" nel senso dell'art. 43 della
Costituzione. Il giudizio di "essenzialità", infatti, è "storicamente
e politicamente condizionato", ed è riservato al legislatore. Che,
poi, si tratti di un servizio "pubblico" non può esser dubbio, dovendo
definirsi in tal modo tutti i servizi che "in atto o in potenza,
direttamente o indirettamente", interessino la generalità dei
cittadini. Anche alla coscienza comune, del resto, la televisione
appare un servizio "assolutamente necessario e indispensabile, di
primaria importanza, cioè " essenziale "".
L'ordinanza - aggiunge la RAI - non contesta che, se lasciata
all'iniziativa privata, la televisione darebbe naturalmente luogo, data
la limitatezza dei "canali", a situazioni "almeno in parte
monopolistiche". Orbene, questo fatto è per sé solo sufficiente a
legittimare l'avocazione del servizio allo Stato, ai sensi dell'art. 43
Cost., il quale riguarda non solo le posizioni di monopolio, ma anche
quelle di monopolio complesso (oligopolio, duopolio, polipolio),
riferendosi a "qualsiasi situazione di privilegio economico", tanto
più, poi, ove essa sia suscettibile di sfociare nel "privilegio
ideologico, sociale, politico".
Per di più, non è esatto che l'art. 43 non consente la riserva
allo Stato di imprese che solo in via eventuale potrebbero sfociare in
un monopolio. La "riserva originaria" di imprese allo Stato, ammessa
dall'art. 43, non può riferirsi, infatti, che alle situazioni
eventuali.
La RAI si richiama, infine, al secondo comma dell'art. 3 della
Costituzione. Siccome la televisione in mani private si risolverebbe, a
cagione della limitatezza del mezzo, in un privilegio di pochi,
costituendo "un impedimento al pari diritto di tutti" di avvalersene,
è proprio il combinato disposto degli artt. 21 (e 33) e 3 della
Costituzione a esigere che la televisione sia "riservata allo Stato a
servizio di tutti". Né vale opporre che l'art. 3 garantisce
l'uguaglianza ai soli cittadini, mentre l'art. 21 riguarda anche gli
stranieri. "Che il diritto di manifestazione del pensiero, come
espressione di una esigenza della natura umana, sia riconosciuto a
tutti, non significa che per questo esso sia estraneo e sfugga ai
compiti che lo Stato ha, anzitutto, nei riguardi, si intende, dei suoi
cittadini". L'art. 21 e l'art. 3 vanno conciliati nel senso che una
legge ordinaria non potrebbe consentire agli stranieri la proprietà
dei mezzi televisivi.
La RAI conclude per la dichiarazione di infondatezza delle
questioni di costituzionalità sollevate dal Consiglio di Stato.
6. - Le stesse conclusioni vengono formulate dal Ministero delle
poste e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le tesi sostenute
nelle due difese dall'Avvocatura dello Stato coincidono. In generale,
esse non divergono da quelle della RAI, già esposte, se non in pochi
punti ai quali soltanto è il caso di fare richiamo.
In relazione all'art. 21 Cost., si osserva che la televisione, per
la natura tecnica del mezzo, e per la sua condizione giuridica, non
riceve la tutela di tale articolo, giacché questo "non può riguardare
che quei mezzi i quali possono, per sé stessi, "liberamente" usarsi da
tutti ed al cui libero uso una restrizione (come per la parola e per lo
scritto) potrebbe derivare solo da un atto del potere legislativo
ordinario", e non anche quei mezzi che (come quello in esame )
naturalmente e istituzionalmente necessitano, per l'impiego, di un
consenso del potere amministrativo. Comunque "l'inidoneità del mezzo
ad assicurare la parità dei diritti di tutti i cittadini, così come
richiesto dall'art. 21 (che necessariamente va interpretato anche in
relazione all'art. 3 Cost.), porta a convincere che la televisione non
rientra nel campo di applicazione di detto articolo".
In ordine all'affermazione dell'ordinanza, secondo la quale
l'attuale sistema giuridico non prevede l'obbligo di aprire il servizio
al pubblico, l'Avvocatura osserva che la mancanza di una
regolamentazione del servizio non può esser causa di
incostituzionalità; e, del resto, la pretesa lacuna legislativa è
automaticamente colmata dall'art. 2597 Cod. civ., in base al quale chi
esercita un servizio in condizioni di monopolio legale ha l'obbligo di
dare la prestazione a chiunque la richieda, osservando la parità di
trattamento. E, del resto, le "condizioni generali" del servizio
vengono stabilite nel caso in esame dall'autorità di vigilanza.
Inoltre, siccome il monopolio statale è stato istituito "per
garantire altre finalità pubbliche degne di tutela (fini sociali e
culturali nonché di sicurezza interna ed esterna)", ogni eventuale
limitazione al diritto previsto dall'art. 21 non rappresenterebbe vizio
di costituzionalità.
In ordine all'art. 33 osserva l'Avvocatura che, siccome gli autori
non hanno "un diritto a veder divulgate o rappresentate le proprie
opere", "le possibili limitazioni derivanti, in concreto, dalla
necessaria selezione delle opere da divulgare o degli attori da
ammettere alla recitazione, non possono giammai creare i presupposti
per il sorgere di un problema di legittimità costituzionale del
monopolio televisivo".
In ordine all'art. 43 l'Avvocatura osserva che la natura di
"servizio pubblico essenziale" della televisione non può esser posta
in dubbio, in considerazione della "estensione (del servizio) a tutto
il territorio nazionale e dei fini di sicurezza interna ed esterna che
in ogni tempo devono essere garantiti". D'altro canto la valutazione
della "essenzialità" del servizio è riservata al giudizio del
legislatore.
Nelle deduzioni per il Ministero delle poste l'Avvocatura
sottolinea che nella generalità degli Stati europei occidentali il
servizio della televisione ha "un accentuato carattere pubblicistico",
sia pure attraverso "una gamma di situazioni che dall'ingerenza
pressoché costante dello Stato nei programmi e nella scelta dell'ente
che gestisce il servizio va fino al dichiarato carattere del servizio
medesimo come servizio pubblico, inteso questo come quell'attività che
la pubblica Amministrazione riserva a sé stessa in esclusiva per
esercitarla direttamente o per mezzo di concessionari, in relazione al
preminente carattere d'interesse collettivo insito nell'attività
stessa.
7. - La RAI, l'Avvocatura dello Stato, per conto della Presidenza
del Consiglio dei Ministri e del Ministero delle poste e delle
telecomunicazioni, e la Soc. "Il Tempo-TV" hanno presentato memorie
illustrative delle precedenti difese, depositandole la prima l'8 giugno
e le altre il 9 giugno u. s.
Nella sua memoria, la RAI insiste diffusamente sulla propria
eccezione di inammissibilità, per omesso esame della rilevanza, delle
questioni di costituzionalità riferite agli artt. 21 e 33 Cost.: la
"II Tempo-TV" non è un ente che si propone fini culturali, artistici o
politici, ma un'impresa industriale che si propone fini di lucro; e
appunto per difendere tale suo interesse ricorse al Consiglio di Stato,
preoccupandosi di tutelare la propria libertà di iniziativa economica
e non quella di manifestazione del pensiero: l'eventuale violazione
degli artt. 21 e 33 non può, dunque, avere rilevanza ai fini della
decisione del Consiglio di Stato.
Nel merito, in aggiunta ai concetti esposti nelle deduzioni, la RAI
sottolinea che il vigente monopolio del servizio televisivo non importa
affatto che lo Stato possa avvalersene "per attuare una politica
televisiva discriminatrice e di parte": il Governo è un utente del
servizio come gli altri, tanto è vero che l'art. 31 R. D. 10 luglio
1924, n. 1226, e l'art. 18 della convenzione con la RAI hanno dovuto
espressamente riservargli il diritto di trasmettere i propri
comunicati. Comunque, ove pure esistesse nell'ordinamento una qualche
norma che non assicuri l'obbiettività del servizio, è chiaro che
unicamente essa e non le norme istitutive del monopolio - che sono le
sole impugnate - potrebbe contrastare con gli artt. 21 e 33 della
Costituzione. A ogni modo, un siffatto contrasto non risiede certamente
nelle disposizioni che rimettono alla RAI e al pubblico potere la
determinazione dei programmi: data la limitatezza della possibilità di
trasmissioni, anche il privato che gestisse il servizio televisivo
dovrebbe far luogo a una selezione delle richieste nel compilare i
programmi; e certo offre maggior garanzia di obbiettività una
selezione operata sotto l'egida del pubblico potere, tenuto
istituzionalmente a osservare nell'espletamento del servizio pubblico i
principi contenuti negli artt. 3 e 21 della Costituzione. Anzi è
proprio tale istituzionale esigenza di obbiettività dei pubblici
poteri a escludere, da un lato, che l'eventuale concessione del
servizio a soggetti diversi dallo Stato e la scelta dei concessionari
abbiano luogo per motivi non rispondenti alle esigenze obbiettive del
servizio, e a consigliare dall'altro - come avviene in molto Paesi -
che, ove lo Stato preferisca esercitare il servizio in concessione,
concessionario sia un ente legato allo Stato da vincoli particolarmente
intimi (come è, appunto, il caso della RAI).
Sottolinea, inoltre, diffusamente la RAI che il diritto di libertà
di diffusione del pensiero con qualsiasi mezzo, garantito dal primo
comma dell'art. 21 Cost., non significa anche diritto di disporre di
qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero, ma soltanto diritto di
diffondere il pensiero con i mezzi disponibili e in quanto disponibili
(alla stessa maniera, ad es., che la libertà di domicilio non implica
anche il diritto ad avere senz'altro un domicilio). L'art. 21 si occupa
della libertà di diffusione del pensiero; ma, dopo avere enunciato la
possibilità di diffonderlo con qualsiasi mezzo, contiene una
disciplina specifica di un solo mezzo di diffusione: la stampa; per il
regime giuridico degli altri mezzi esso si rimette, dunque, alla
legislazione ordinaria, col limite, peraltro, che questa non sacrifichi
in alcun modo la libertà garantita. Il diritto garantito a tutti
dall'art. 21 in ordine ai mezzi importa soltanto, da un lato, che lo
Stato "non impedisca, con norme, provvedimenti, misure discriminatrici
e odiose, l'accesso e il godimento dei mezzi disponibili per la
diffusione del pensiero, secondo il regime stabilito dalla legge
(ordinaria)"; dall'altro, che lo Stato "provveda, invece,
positivamente, ad adottare le norme necessarie perché la possibilità
di godimento della televisione sia effettivamente uguale per tutti,
senza particolari ingiustificati vantaggi a favore di questa o quella
categoria, vantaggi che si riflettono in situazioni impeditive e
restrittive per tutte le altre categorie". Orbene, sul diritto
garantito dall'art. 31, così inteso, il monopolio televisivo non
incide minimamente, ben potendosi assicurare - come in effetti il
vigente regime assicura (naturalmente nei limiti consentiti dalle
caratteristiche del mezzo) - la libertà di diffusione del pensiero a
mezzo della televisione anche in condizioni di monopolio. In regime di
democrazia liberale, il controllo ministeriale sui programmi - di un
Ministero tecnico, per giunta, quale è quello delle poste e
telecomunicazioni - non può essere un controllo ideologico (cosa, del
resto, inammissibile e irrealizzabile stante il controllo del
Parlamento sul Governo), bensì deve essere ed è soltanto un controllo
sulla rispondenza alle finalità pubbliche e alle istituzionali
esigenze di obbiettività del servizio, e, in quanto tale, lungi dal
rappresentare un'illegittima ingerenza dello Stato, rappresenta una
essenziale garanzia di imparzialità per i singoli.
In relazione agli artt. 41 e 43 Cost., la RAI sottolinea che il
servizio televisivo attiene allo sfruttamento di "fonti di energia"
(onde elettromagnetiche), è naturalmente destinato a sfociare in
"situazioni di monopolio" (pericolose perché capaci di risolversi in
privilegi ideologici, sociali e politici), ed è un "servizio pubblico
essenziale" (essendo esso considerato necessario e di primaria
importanza dalla massa della popolazione, che ormai ne è servita in
tutto il territorio nazionale, e costituendo le radiocomunicazioni, da
un cinquantennio, nel nostro ordinamento, un servizio di Stato).
Né è il caso di fare accostamenti tra il regime della televisione
e quello della stampa, data, da un lato, la diversità degli oggetti,
delle modalità, dell'efficacia, delle funzionalità rispettive,
dall'altro, la diversità delle condizioni di disponibilità dell'uno e
dell'altro mezzo. E neanche è il caso di far discriminazioni - ai fini
della riserva del servizio allo Stato - tra trasmissioni informative e
altre trasmissioni televisive: a parte l'inscindibile unitarietà del
servizio, le ragioni che giustificano la riserva delle prime allo
Stato, non sono meno valide per la riserva delle seconde.
8. - Anche l'Avvocatura dello Stato solleva, nella sua memoria,
l'eccezione già proposta dalla RAI, circa l'omesso esame della
rilevanza, nell'ordinanza di rimessione, delle questioni di
costituzionalità relative agli art. 21 e 33 Cost., posto che il
movente ispiratore della richiesta avanzata dalla "Il Tempo-TV" non era
quello della diffusione del pensiero, bensì un fine di lucro.
Inoltre, siccome, secondo l'ordinanza, la non manifesta
infondatezza delle questioni di costituzionalità relative ai riferiti
articoli risiederebbe non nella riserva del servizio televisivo allo
Stato, bensì nella mancata contemporanea imposizione al monopolista
dell'obbligo di aprire il servizio agli eventuali interessati a
effettuare trasmissioni televisive; e siccome la "Il Tempo - TV" non
aveva avanzato alcuna istanza in quest'ultimo senso, bensì
semplicemente nel senso di impiantare e gestire un servizio di
teletrasmissioni, la questione della compatibilità delle disposizioni
impugnate con gli artt. 21 e 33 Cost. non si poneva come pregiudiziale,
e, quindi, era ancora una volta irrilevante, ai fini del giudizio a
quo.
Nel merito, l'Avvocatura ribadisce le affermazioni svolte nelle
precedenti difese. In particolare sottolinea il carattere di monopolio
naturale del servizio televisivo, data la estrema limitatezza dei
"canali" a disposizione. II monopolio, cioè, preesiste alle
disposizioni legislative; e, se non fosse monopolio statale, sarebbe
necessariamente monopolio (sia pure sotto la forma oligopolistica) di
altri. Non la legge, dunque, ma la natura sarebbe in contrasto con gli
artt. 21 e 33 Cost., posto che una siffatta violazione vi fosse. Ecco
perché è da ribadire l'affermazione che tra gli "altri mezzi di
diffusione" cui si riferisce il primo comma dell'art. 21 non può
farsi rientrare la televisione.
L'Avvocatura insiste anche nella tesi che, in base all'art. 21,
l'obbligo della pubblica autorità si limita alla "non ingerenza nella
sfera di libertà individuale e nella libera esplicazione di quello
aspetto di tale libertà che consiste nella manifestazione del proprio
pensiero": l'art. 21, cioè, non prevede anche un "obbligo di
apprestare mezzi tecnici per consentire ai cittadini di esprimere il
loro pensiero".
In relazione all'art. 41 osserva che, quando esista un monopolio
naturale, da ciò stesso deriva che non possa parlarsi di limiti legali
alla libera iniziativa privata. In relazione all'art. 43 ribadisce che,
sia per la ragione che rappresenta un monopolio naturale (e quindi di
fatto), sia per la ragione che (secondo la valutazione legittimamente
discrezionale del legislatore) si tratta di un servizio pubblico
essenziale, la riserva della televisione allo Stato è
indiscutibilmente legittima.
9. - Nella memoria della Soc. "Il Tempo-TV" si confuta, innanzi
tutto, l'eccezione di omesso esame, da parte dell'ordinanza di
rimessione, della rilevanza delle questioni di costituzionalità
relative agli artt. 21 e 33 Cost.: ciò che importa è che
l'accertamento della rilevanza risulti dai termini in cui la questione
di costituzionalità è proposta, in modo che rimanga escluso ogni
dubbio sulla connessione della questione medesima con le esigenze del
processo, nel quale viene sollevato l'incidente di costituzionalità.
Nella specie tale accertamento vi fu; e a dimostrario basta
sottolineare che il Consiglio di Stato pose in evidenza la necessità
che in sede di giudizio costituzionale venisse risolto il problema di
coordinamento interpretativo tra l'art. 43 e l'art. 21 Cost. Né può
avere importanza il fatto che ciò sia avvenuto in sede di esame circa
la non manifesta infondatezza delle questioni di cui trattasi.
Nel merito, con riferimento all'art. 43 Cost., riconosciuta la
discrezionalità del legislatore in ordine ai "fini di utilità
generale" da perseguire e al carattere di "preminente interesse
generale" delle imprese che l'articolo consente di riservare alla
collettivizzazione, e aggiunto che la televisione non è attività
riguardante "fonti di energia", la Società ammette che l'art. 43
consente di riservare alla collettivizzazione anche le situazioni di
monopolio puramente potenziale, quando sussistano elementi
"effettivamente operanti che conducano a far ritenere fatale lo sbocco
verso la eliminazione della concorrenza". Quest'ultimo, però, ed esso
soltanto, è l'obbiettivo che legittima il legislatore a
collettivizzare le situazioni di monopolio attuale o potenziale.
Orbene, siccome, nella specie, l'obbiettivo avuto di mira dalla "Il
Tempo-TV" era proprio quello di realizzare una situazione
concorrenziale, incrementando l'offerta, non sarebbe ammissibile
opporre l'art. 43. Le disposizioni costituzionali da applicare sono
quelle contenute nell'art. 41, il quale, pur prevedendo limiti e
controlli, legittima in via di principio l'iniziativa economica
privata.
In ordine alla possibilità di riservare la televisione allo Stato
in quanto "servizio pubblico essenziale", la Società, dopo aver
affermato che la "essenzialità" di un servizio pubblico inerisce
all'aspetto qualitativo e non a quello quantitativo, osserva che, per
preservare la libertà prevista dall'art. 21 Cost., occorre, tra
l'altro, assicurare quella di colui che si interpone tra chi manifesta
il pensiero e chi vuole venirne a conoscenza, "tutte le volte che si
rende in pratica necessaria una organizzazione che renda possibile o
serva a facilitare ed a diffondere la comunicazione tra i due" (non
importa se tale necessario intermediario si proponga fini di lucro); e
adduce al riguardo gli esempi della scuola, della impresa
giornalistica, dell'impresa teatrale. È vero che l'art. 21 non
assicura al singolo la possibilità di uso dei mezzi di diffusione del
pensiero, ma gli assicura soltanto di esser messo in grado di
manifestare liberamente ciò che pensa con i mezzi a sua disposizione;
ma "è chiaro che complementare a tale libertà non possa non ritenersi
la libertà di moltiplicazione dei mezzi suscettibili di esser messi a
disposizione dei singoli". Onde "ogni remora che si ponga
all'espansione dei mezzi utilizzabili incide su tale libertà ed assume
carattere di incostituzionalità". I limiti di fatto alla
disponibilità dei mezzi possono giustificare, per la televisione,
provvedimenti amministrativi di autorizzazione all'impianto e all'uso
di essi, e non certo la nazionalizzazione di essi.
La Società si sofferma, poi, a contestare la tesi avversaria,
secondo la quale le vigenti disposizioni non riserverebbero allo Stato
- e ai suoi concessionari - la "utilizzazione in esclusiva del mezzo
televisivo a fini di diffusione di un dato pensiero": essa argomenta
particolarmente dagli artt. 1, 4 e 18 della convenzione tra lo Stato e
la RAI, dai quali risulterebbe che i programmi trasmessi sono programmi
della RAI e non di terzi. "Un solo utente attivo la convenzione
prevede, ed esso è il Governo", a cui favore la RAI, se richiesta,
deve mettere a disposizione le stazioni per la trasmissione dei propri
comunicati. A sostegno della tesi la Società sottolinea che il n. 5
dell'art. 168 Cod. postale usa, per la concessione dei servizi di
radiodiffusione e televisione, una formula ("esercizio dei servizi")
diversa da quella usata per la concessione del solo "esercizio degli
impianti" impiegato per gli altri servizi postali e di
telecomunicazione dai nn. 1, 2, 3. Inoltre, il fatto che l'articolo 261
attribuisce alla autorità governativa "la vigilanza e il controllo
sulla utilizzazione della radiodiffusione", differenziandoli dalla
vigilanza e dal controllo sui "servizi tecnici e amministrativi",
confermerebbe che lo Stato si sarebbe riservato ben più che la
semplice gestione del servizio nel senso sostenuto dalla RAI.
Né è esatto - incalza la Società - che alla natura di "pubblico
servizio" inerisca la necessità giuridica, per lo Stato e per la sua
concessionaria, di consentire a tutti la possibilità di utilizzare la
televisione per effettuare delle trasmissioni: l'ordinamento (art. 34
Cost.) conosce, infatti, altri servizi (come la scuola) "aperti a
tutti" soltanto sul piano passivo (per apprendere) e non anche sul
piano attivo (per insegnare). Neanche può farsi discendere l'anzidetta
necessità dal diritto di esclusiva, non apparendo essa compatibile con
le forme di collettivizzazione, diverse dalla statizzazione, previste
dall'art. 43 della Costituzione. E neppure è esatto che norme
regolamentari contemplino la necessità stessa: comunque, ove pur
delle norme regolamentari la contemplassero, non potrebbe dirsi che
esse ripetano la propria normazione dalla legge.
La Società nega recisamente che il monopolio statale della
televisione possa garantire l'obbiettività, l'imparzialità e la
maggiore efficienza del servizio. Né l'art. 3 Cost. può giustificare
l'assorbimento statale delle iniziative private, che, per la natura
delle cose, siano insuscettibili di illimitata espansione: tutt'al più
esso può consentire allo Stato degli interventi di carattere
suppletivo e integrativo delle iniziative private, e può suggerirgli
un adeguato sistema di misure e di controlli in ordine al modo di
esercizio di tali iniziative. Né, infine, può esser probante criterio
il rifarsi ai sistemi degli altri Paesi, da un lato, perché essi sono
i più vari, e, dall'altro, perché diversa è la disciplina
costituzionale in materia.
10. - Le medesime questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 1 e 168, n. 5, del Codice postale, con riferimento agli artt. 21,
33, 41 e 43. Cost. sono state sottoposte a questa Corte con ordinanza
del Giudice istruttore del Tribunale di Milano emessa il 13 maggio 1960
nel procedimento penale a carico dei sigg. Figari Gianvittorio,
Mazzoldi Luigi Carlo, Volonteri Attilio e De Marsico Francesco, soci
della s. p. a. "Televisione libera", imputati di avere "impiantato un
apparato per comunicazioni col mezzo di onde elettromagnetiche a onde
guidate, senza averne ottenuto la concessione statale": "talché - si
legge nell'ordinanza - ove illegittima fosse la pretesa legislativa di
codesta concessione, quale manifestazione dell'esercizio del monopolio,
è intuitivo che non si verserebbe più in tema di illecito penalmente
sanzionato".
In ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni
di legittimità costituzionale il Giudice istruttore adduce le stesse
ragioni contenute nell'ordinanza emessa dal Consiglio di Stato nel
ricorso "Il Tempo-TV", alla quale, anzi, espressamente si richiama.
L'ordinanza è stata notificata al Presidente del Consiglio dei
Ministri il 20 maggio 1960, e ne è stata data comunicazione ai
Presidenti dei due rami del Parlamento rispettivamente il 19 e il 24
maggio 1960.
Per questo giudizio il Presidente della Corte ha disposto la
riduzione dei termini alla metà.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti il Figari e il Mazzoldi,
depositando deduzioni e mandato rispettivamente il 21 maggio 1960 e il
7 giugno 1960. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
con atto depositato il 7 giugno 1960.
Mentre le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato coincidono con
quelle formulate nel giudizio promosso con l'ordinanza del Consiglio di
Stato, e le deduzioni del Mazzoldi si richiamano sostanzialmente alle
tesi esposte nell'ordinanza del Giudice istruttore, ulteriori tesi e
argomentazioni sono svolte nelle deduzioni del Figari.
Premesso che il Giudice istruttore ha rimesso gli atti a questa
Corte dietro richiesta del Pubblico Ministero, il quale aveva ritenuto
non manifestamente infondate tutte le questioni sottopostegli dalla
difesa del Figari, e che la difesa stessa aveva sottoposto al Pubblico
Ministero, oltre alle questioni devolute a questa Corte dal Giudice
istruttore, anche altre questioni di legittimità costituzionale, il
Figari sostiene, prima d'ogni altra cosa, che, siccome il Pubblico
Ministero aveva il potere di rimettere direttamente alla Corte le
questioni da lui non ritenute manifestamente infondate, sono da
intendere devolute alla Corte non soltanto quelle questioni che il
Giudice istruttore ritenne non essere manifestamente infondate, ma
anche quelle che non furono ritenute tali dal Pubblico Ministero.
In tale ordine di idee la difesa del Figari sostiene, innanzi
tutto, la violazione degli art. 76 e 77 Cost. da parte degli artt. 1,
2, 18 del R. D. 8 febbraio 1923, n. 1067, recante "norme per il
servizio delle comunicazioni senza filo". Gli artt. 1 e 18 sarebbero
viziati per eccesso di delega rispetto alla legge 3 dicembre 1922, n.
1001, la quale non consentiva allo Stato di riservarsi un pubblico
servizio, e tanto meno quello della televisione; l'art. 2 non prevede
affatto un monopolio statale della televisione; comunque, il monopolio
contrasterebbe con gli artt. 41 e 43 della Costituzione Altrettale
violazione risiederebbe nell'art. 1 Cod. postale, lesivo poi anch'esso
degli artt. 76 e 77 Cost. per difetto di delega, in materia di
televisione, nella legge 13 aprile 1933, n. 336. Sarebbe "inficiato di
incostituzionalità per le medesime ragioni" l'art. 1 legge 14 marzo
1952, n. 196, recante modifiche al Codice postale. Incorrerebbero, poi,
in violazione dell'art. 87, quinto comma Cost., il D.P.R. 26 gennaio
1952, n. 180, e il D.P.R. 17 agosto 1957, n. 1136, sulla approvazione
ed esecutorietà della convenzione di concessione in esclusiva della
televisione alla RAI. Infine, il Figari lamenta che il monopolio
statale violerebbe gli artt. 21, 33, 41, 43 della Costituzione.
Il Figari sostiene diffusamente che, fino alla ratifica della
convenzione internazionale di Atlantic City del 1947, nel nostro
ordinamento nessuna disposizione normativa si sarebbe occupata della
televisione; per cui l'attribuzione di essa in esclusiva alla RAI,
avvenuta nel 1952, e non contemplata da alcuna norma, fu un atto
arbitrario. Nel Codice postale del 1936 si parlava - secondo il Figari
- di televisione nel senso di trasmissione delle sole immagini fisse e
non anche di quelle animate. Solo con la convenzione di Atlantic City
venne chiaramente definita la televisione nel senso di "trasmissione di
immagini non permanenti di soggetti fissi o mobili".
Quanto alla violazione degli artt. 21, 33, 41, 43 Cost. da parte
delle disposizioni istitutive del monopolio statale televisivo, il
Figari sostanzialmente si riporta agli argomenti dell'ordinanza di
rimessione.
11. - In data 14 e 15 giugno 1960, la difesa del Figari e
l'Avvocatura dello Stato hanno rispettivamente depositato una memoria.
Nella memoria del Figari viene riaffermata la tesi che il Codice
postale sarebbe incorso in eccesso di delega nello stabilire un sistema
di concessione per la televisione - attività nuova e non conosciuta,
nel suo significato attuale, al momento della legge di delega del 1933.
Siccome, poi, l'esclusiva della televisione fu, in fatto, realizzata
soltanto nel 1952 (con la convenzione tra lo Stato e la RAI), si pone
la questione "se sarebbe stato possibile, vigente la Costituzione con
il suo art. 76, utilizzare ancora una legge di delega del 1933".
In ordine alla violazione, da parte del Codice postale, degli artt.
21, 33, 41 e 43 Cost., a parte gli argomenti comuni alle altre difese,
delle quali già si è riferito, la difesa del Figari nega che la
televisione - non diversamente dal giornale, dal libro, dal
cinematografo, dal teatro - possa esser considerata come un servizio
pubblico essenziale; e sottolinea che tutti questi mezzi di diffusione
del pensiero né sono compresi tra i servizi elencati nel T.U. sulla
municipalizzazione 15 ottobre 1925, n. 2578, né sono stati
considerati inerenti a pubblici servizi dalla giurisprudenza formatasi
sugli artt. 357-359 Codice penale. Nel nostro ordinamento non si sono
mai concepiti, né sono ammissibili, servizi pubblici esclusivi nel
campo di attività in grado di concorrere alla formazione della
opinione e della cultura: la stampa, l'informazione, il teatro, le
manifestazioni artistiche e culturali, la scuola non sono suscettibili
di monopolio, perché non c'è dottrina e cultura di Stato. I monopoli
"sono pensabili soltanto per imprese nello stretto significato
economico del termine". Per escludere, poi, che la televisione possa
esser concepita come un servizio pubblico essenziale, basta fare
appello alla coscienza collettiva, la quale non si meraviglia affatto
se taluno faccia a meno della televisione (e neanche se taluno faccia a
meno di leggere i giornali).
La difesa del Figari nega anche che, in fatto, la situazione dei
canali disponibili renderebbe minimo il numero delle possibili stazioni
trasmittenti: e ciò, tanto più, in quanto - afferma il Figari - il
numero dei canali non utilizzati dalla RAI sarebbe di 60-70 nel campo
Uhf, e in quanto le trasmissioni non si disturbano a vicenda se non
nell'ambito di poche decine di chilometri. Contesta, inoltre, che
l'elevato costo dell'attività o la imprescindibilità di interventi
statali sotto forma di licenza o di autorizzazione possono essere
invocati per giustificare la collettivizzazione di una qualche
attività. Aggiunge che chiunque non voglia tradire lo spirito
dell'art. 21 penserà, anzitutto, che il problema della
collettivizzazione non si pone fino a che è possibile soddisfare le
limitate richieste di attribuzione dei canali disponibili, e che,
"quando non tutte le richieste potessero venire completamente e
contemporaneamente soddisfatte, sarà a passare ad altri accorgimenti
(più di uno, facili ad ipotizzarsi) per dare a ciascuno tutto ciò che
è possibile dargli".
La memoria conclude osservando che l'istituzione del monopolio
della televisione non è imposta nemmeno da ragioni "di utilità
generale": l'art. 43 Cost. tende ad "assicurare che certi beni possono
venire resi di possibile accesso a tutti, e alle migliori condizioni";
e "non è dubbio che i telespettatori sarebbero serviti più largamente
e con maggiore soddisfazione di ogni gruppo, allorché potessero
disporre di più di una televisione".
12. - Gli argomenti esposti nella memoria della Avvocatura dello
Stato coincidono con quelli da questa rappresentati nel giudizio
promosso con l'ordinanza del Consiglio di Stato.
13. - All'udienza di trattazione, le due cause sono state discusse
congiuntamente ed i difensori hanno ampiamente illustrato le rispettive
tesi.
Considerato in diritto:
1. - Le questioni deferite all'esame di questa Corte dalla
ordinanza del Consiglio di Stato e da quella del Giudice istruttore
presso il Tribunale di Milano riguardano la rispondenza ai precetti
degli artt. 21, 33, 41 e 43 Cost. delle disposizioni degli artt. 1 e
168, n. 5, del Codice postale approvato con R.D. 27 febbraio 1936, n.
645, per la parte concernente la riserva allo Stato dei servizi di
televisione circolare a mezzo di onde radioelettriche, e la conseguente
esclusione della possibilità, per chi non ne abbia ottenuto
concessione dallo Stato, di impiantare ed esercitare servizi del
genere. I due giudizi, i quali sono stati discussi congiuntamente, data
la evidente connessione e l'identità delle questioni, possono essere
riuniti.
2. - Sono infondate e vanno respinte entrambe le eccezioni
pregiudiziali sollevate dalla RAI e dalla Avvocatura dello Stato nel
giudizio promosso con la ordinanza del Consiglio di Stato.
Secondo la prima di tali eccezioni, siccome l'istanza della
Società "Il Tempo-TV", del rifiuto della quale doveva giudicare; il
Consiglio di Stato - istanza volta a ottenere il consenso all'impianto
e all'esercizio di un servizio televisivo -, era essenzialmente e
dichiaratamente ispirata da intento di lucro, e non da quello di
facilitare disinteressatamente la diffusione del pensiero, della
cultura e dell'arte, le norme della Costituzione, delle quali la
Società poteva avere interesse a far dichiarare l'inosservanza da
parte della legislazione vigente, mai potrebbero essere quelle dettate
a tutela della libertà di diffusione del pensiero e della libertà
della cultura e dell'arte (artt. 21 e 33 Cost.), bensì soltanto quelle
dettate a tutela della libertà dell'iniziativa economica privata (art.
41, coi limiti di cui all'art. 43). La rimessione a questa Corte delle
questioni di legittimità delle norme impugnate in riferimento agli
artt. 21 e 33 Cost., senza che il Consiglio di Stato si sia dato carico
dell'eccezione (sollevata in quella sede dalla RAI) in ordine alla
irrilevanza di tali questioni, stante la carenza di interesse della
Società "II Tempo-TV" (che le sollevava) in relazione alla violazione
di quei precetti costituzionali, determinerebbe la dedotta
inammissibilità.
La tesi non può essere condivisa. Il sistema delle garanzie
costituzionali in vigore si basa sul principio che quando, comunque,
appaia non indubbia la legittimità di una disposizione legislativa da
applicare al caso concreto - qualsiasi possa essere la norma
costituzionale violata - il giudice ha il dovere di deferire la
questione relativa alla Corte costituzionale (art. 1 legge cost. 9
febbraio 1948, n. 1, e art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87). Per il solo
fatto della esistenza di un sospetto di incostituzionalità, interest
rei publicae che sulla questione si pronunci l'organo di garanzia
costituzionale. Le uniche indagini che il giudice deve e può compiere,
prima di rimettere alla Corte una questione, sono quella circa la
necessaria pregiudizialità di tale questione rispetto al caso da
decidere, e quella circa la non manifesta infondatezza della questione
stessa.
Orbene, come non può esser negato che nel caso in esame il
Consiglio di Stato abbia svolto la necessaria indagine relativa alla
non manifesta infondatezza di tutte le questioni sottoposte alla Corte,
del pari nessuno può negare - né alcuna delle parti in causa nega -
che esso si sia posto - motivando anzi adeguatamente al riguardo - il
problema della rilevanza delle questioni stesse, ai fini del decidere.
E da quanto procede risulta che, per definizione, tale rilevanza
sussiste indistintamente, in relazione a tutte le norme costituzionali
della cui osservanza il giudice ha ritenuto di dubitare. Onde non può,
in proposito, avere importanza - e non occorre, quindi - alcuna
indagine circa gli interessi da esse tutelati e circa il valore che
questi possano avere per le parti del giudizio a quo.
3. - La seconda eccezione - sollevata dalla sola Avvocatura dello
Stato - si basa sul rilievo che, non avendo la Società "Il Tempo-TV"
avanzato alcuna istanza al fine di ottenere la possibilità di
utilizzare il servizio televisivo della RAI per effettuare trasmissioni
di proprio interesse - possibilità che rappresenterebbe, secondo la
stessa ordinanza di rimessione, l'unico bene garantito dagli artt. 21 e
33 Cost., nei confronti del quale sussisterebbe il sospetto di lesione
da parte della vigente disciplina dei servizi televisivi -, mancherebbe
il necessario rapporto di pregiudizialità tra la questione deferita
alla Corte circa la pretesa violazione degli artt. 21 e 33 Cost., e il
caso che il Consiglio di Stato dovrà decidere, dato che questo
presuppone soltanto la risoluzione della questione di legittimità
costituzionale della riserva allo Stato dei servizi televisivi.
Per respingere tale eccezione basta tener presente che è proprio e
solo in riferimento alla legittimità costituzionale di tale riserva,
che il Consiglio di Stato si è posto il problema della compatibilità
con gli artt. 21 e 33 Cost. della mancata previsione di un obbligo per
lo Stato di ammettere a effettuare trasmissioni televisive chiunque
possa avervi interesse: il Consiglio, cioè, ha sollevato la questione
di legittimità costituzionale di una riserva della televisione allo
Stato per il fatto di non essere accompagnata da una contemporanea
previsione dell'obbligo dello Stato di ammettere al godimento dei
servizi chiunque vi sia interessato. Posto il problema in tali termini,
non può considerarsi omesso l'esame della rilevanza, in ordine alla
decisione del giudizio a quo, della proposta questione di legittimità
costituzionale. Il che è sufficiente ai fini della ammissibilità, in
questa sede, del giudizio su quest'ultima.
4. - In ordine all'oggetto della presente decisione, è da porre in
chiaro, prima d'ogni altra cosa, che le sole disposizioni legislative,
delle quali bisogna esaminare la legittimità costituzionale, sono
quelle dell'art. 1 e dell'art. 168, n. 5, del Codice postale, e non
anche quelle altre delle quali si discute nelle deduzioni presentate,
nell'interesse dell'imputato Figari, nel giudizio promosso con
l'ordinanza del Giudice istruttore presso il Tribunale di Milano,
giacché esse non sono state deferite a questa Corte dall'ordinanza di
rimessione. Né potrebbe avere alcun significato - pur ammesso che
fosse esatta (cosa che, invece, non sembra) - la circostanza, affermata
dalla difesa del Figari, che il Pubblico Ministero, nelle sue
conclusioni (che non sono un atto di giurisdizione), non ne avrebbe
escluso la non manifesta infondatezza (art. 23 legge 11 marzo 1953, n.
87).
5. - Venendo all'esame del merito, osserva la Corte che, data la
attuale limitatezza di fatto dei "canali" utilizzabili, la televisione
a mezzo di onde radioelettriche (radiotelevisione) si caratterizza
indubbiamente come una attività predestinata, in regime di libera
iniziativa, quanto meno all'oligopolio: oligopolio totale od oligopolio
locale, a seconda che i servizi vengano realizzati su scala nazionale o
su scala locale. Collocandosi così tra le categorie di "imprese" che
si riferiscono a "situazioni di monopolio", nel senso in cui ne parla
l'art. 43 Cost., per ciò solo essa rientra tra quelle che - sempre che
non vi ostino altri precetti costituzionali - l'articolo stesso
consente di sottrarre alla libera iniziativa.
Né appare arbitrario che il legislatore ravvisi nella diffusione
radiotelevisiva i caratteri di attività "di preminente interesse
generale", richiesti dall'art. 43 perché ne sia consentita la
sottrazione alla libera iniziativa. È fuori discussione, infatti,
l'altissima importanza che, nell'attuale fase della nostra civiltà,
gli interessi che la televisione tende a soddisfare (informazione,
cultura, svago) assumono - e su vastissima scala - non solo per i
singoli componenti del corpo sociale, ma anche per questo nella sua
unità.
Siccome, poi, a causa della limitatezza dei "canali" utilizzabili,
i servizi radiotelevisivi, se non fossero riservati allo Stato o a un
ente statale ad hoc, cadrebbero naturalmente nella disponibilità di
uno o di pochi soggetti, prevedibilmente mossi da interessi
particolari, non può considerarsi arbitrario neanche il riconoscimento
della esistenza di ragioni "di utilità generale" idonee a
giustificare, ai sensi dell'art. 43, l'avocazione, in esclusiva, dei
servizi allo Stato, dato che questo, istituzionalmente, è in grado di
esercitarli in più favorevoli condizioni di obbiettività, di
imparzialità, di completezza e di continuità in tutto il territorio
nazionale.
Ritiene, pertanto, la Corte che la riserva allo Stato dei servizi
di radiotelevisione, e la conseguente possibilità di affidamento di
essi in concessione, non contrastano col sistema degli artt. 41 e 43
della Costituzione.
6. - Resta però a vedere se una siffatta riserva contrasti con gli
artt. 21 e 33 della Costituzione.
A tal riguardo, sia l'ordinanza di rimessione del Consiglio di
Stato, sia le difese delle parti, non mancano di sottolineare
opportunamente che, siccome l'illegittimità denunciata consiste nella
lesione non tanto della libertà di concepire e di manifestare le idee
e le varie espressioni della scienza e dell'arte, quanto della libertà
di avvalersi di ogni possibile mezzo per diffonderle, la norma
costituzionale alla quale bisogna essenzialmente por mente è quella
del primo comma dell'art. 21, secondo la quale tutti hanno diritto di
avvalersi, per manifestare il proprio pensiero, oltre che della parola
e dello scritto, anche di "ogni altro mezzo di diffusione". È chiaro
che quella particolare manifestazione della libertà di pensiero che
consiste nella possibilità di diffonderlo, riguardando ogni forma di
pensiero, riguarda anche quelle più elevate espressioni di esso, che
sono le creazioni artistiche e scientifiche. Della diffusione di queste
non si occupa l'art. 33 Cost., il quale proclama e tutela la libertà
dell'arte o della scienza e quella del loro insegnamento. Onde la
disciplina della loro diffusione è da considerar ricompresa nel
disposto del 1 comma dell'art. 21.
Di questo dunque occorre occuparsi.
7. - Anche in relazione a quest'ultimo precetto, ritiene però la
Corte che la riserva allo Stato dei servizi di radiotelevisione - e la
conseguente possibilità di affidamento di essi in concessione - non
contrasti con la Costituzione.
È vero che il primo comma dell'art. 21 riconosce a tutti la
possibilità di diffondere il pensiero (e naturalmente non il solo
pensiero originale di chi lo manifesta) con qualsiasi mezzo. Ma già si
è visto che, per ragioni inerenti alla limitatezza di questo
particolare mezzo, è escluso che chiunque lo desideri, e ne abbia la
capacità finanziaria, sia senz'altro in grado di esercitare servizi di
radiotelevisione: in regime di libertà di iniziativa, questi non
potrebbero essere che privilegio di pochi.
Ciò premesso, osserva la Corte che, per risolvere il quesito della
rispondenza dell'attuale disciplina legislativa all'art. 21, primo
comma, Cost., non è indispensabile affrontare il problema se, in via
generale, sia compatibile con quest'ultimo l'avocazione allo Stato di
qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero. È sufficiente, infatti,
dimostrare che non contrasta col precetto costituzionale in esame
l'avocazione allo Stato di quei mezzi di diffusione del pensiero che,
in regime di libertà di iniziativa, abbiano dato luogo, o siano
naturalmente destinati a dar luogo, a situazioni di monopolio, o - il
che è lo stesso - di oligopolio. E la dimostrazione è in re ipsa,
quando si consideri che, rispetto a qualsiasi altro soggetto
monopolista, lo Stato monopolista si trova istituzionalmente nelle
condizioni di obbiettività e imparzialità più favorevoli per
conseguire il superamento delle difficoltà frapposte dalla naturale
limitatezza del mezzo alla realizzazione del precetto costituzionale
volto ad assicurare ai singoli la possibilità di diffondere il
pensiero con qualsiasi mezzo.
In quanto precede è implicito che allo Stato monopolista di un
servizio destinato alla diffusione del pensiero incombe l'obbligo di
assicurare, in condizioni di imparzialità e obbiettività, la
possibilità potenziale di goderne - naturalmente nei limiti che si
impongono per questa come per ogni altra libertà, e nei modi richiesti
dalle esigenze tecniche e di funzionalità - a chi sia interessato ad
avvalersene per la diffusione del pensiero nei vari modi del suo
manifestarsi. Donde l'esigenza di leggi destinate a disciplinare tale
possibilità potenziale e ad assicurare adeguate garanzie di
imparzialità nel vaglio delle istanze di ammissione all'utilizzazione
del servizio non contrastanti con l'ordinarnento, con le esigenze
tecniche e con altri interessi degni di tutela (varietà e dignità dei
programmi, ecc.).
Della normazione esistente in proposito per le trasmissioni
televisive nel vigente ordinamento, e che deve esser considerata
autonoma rispetto alle disposizioni che riservano la radiotelevisione
allo Stato, la Corte non può però occuparsi, essendo chiamata a
pronunciarsi unicamente sulla legittimità degli art. 1 e 168, n. 5,
del Codice postale, che riguarda la anzidetta riserva.