Presentazioni




  1. Un Palazzo, una Corte

    Perchè la "Consulta"?
    Dal papato alla Monarchia alla Repubblica

  2. Come e perchè nascono le Corti costituzionali

    Una istituzione giovane
    Onnipotenza del Parlamento?
    L'esperienza americana
    In Europa: un controllore per il Parlamento
    Un arbitro per i conflitti costituzionali

  3. La Corte costituzionale italiana

    Come è nata la Corte
    La lenta attuazione
    La prima udienza e la prima questione
    Qualche dato

  4. La struttura

    La composizione della Corte
    Chi sceglie i giudici
    Prerogative e obblighi dei giudici costituzionali
    La Presidenza della Corte
    L'organizzazione amministrativa

  5. Le funzioni

    Il controllo di costituzionalità delle leggi
    Chi può provocare il giudizio della Corte?
    Il giudice comune come "portiere" del giudizio di costituzionalità
    Corte costituzionale e giudici: un dialogo permanente
    La Corte e la libertà del legislatore
    Il fattore tempo
    Le decisioni della Corte
    La dichiarazione di incostituzionalità e i suoi effetti
    Le pronunce di rigetto
    Le pronunce interpretative
    Le controversie fra Stato e Regioni e fra Regioni
    I conflitti tra poteri
    I giudizi di ammissibilità dei referendum
    I giudizi penali

  6. Come lavora la Corte

    Un anno di cause
    L'instaurazione del giudizio
    Chi può partecipare?
    La riunione della Corte
    Un relatore per ogni causa
    L'udienza pubblica
    La camera di consiglio
    Decisioni a maggioranza?
    La redazione della pronuncia
    La lettura della decisione
    Opinioni dissenzienti

  7. La Corte e le altre Corti

    Le Corti "sorelle"
    Le Corti internazionali e sovranazionali

  8. Conclusione

    La Corte e la Costituzione

  9. Appendici

    Breve storia del Palazzo
    La prima pronuncia della Corte costituzionale
    I giudici dal 1956 ad oggi

Presentazione della 5a edizione
Da quando, nel 2002, per felice iniziativa dell'allora Presidente Cesare Ruperto, apparve la prima edizione di questo libretto, è parso opportuno, dopo che altre tre se ne sono nel tempo susseguite, passare ad una quinta edizione; e non soltanto perché si è sensibilmente modificata la composizione del collegio dei Giudici, ma soprattutto perché, in quest'anno 2016, si compie il sessantennio di attività della Corte. Infatti, al di là di ogni celebrazione puramente formale, Presidente e Giudici hanno voluto intensamente segnare questa ricorrenza identificàndola in un prezioso momento di riflessione sulla lunga linea vissuta all'insegna di una fertilissima esperienza, che lega senza interruzioni quel remoto passato del 1956 all'attualità e si proietta verso l'immediato futuro. Sì, perchè la Corte, suprema istituzione di garanzia, si è assunta l'arduo ma fecondo còmpito di organo respiratorio dell'ordinamento giuridico italiano; proponèndosi costantemente di percepire le dinamiche che hanno percorso e percorrono la dimensione costituzionale della Repubblica e che si incarnano nella carica espansiva della più ampia e compatibile tutela delle persone. E ha dato compiuta realizzazione a tutto questo individuando valori e principii anche inespressi, latenti ma vivi, e traducèndoli in situazioni giuridiche protette. A suo vanto, la Corte può così oggi constatare che il nòvero dei diritti fondamentali, grazie alla sua attività giurisdizionale, si è di gran lunga arricchito. L'auspicio è che questa quinta edizione valga a rafforzare la consapevolezza del ruolo altamente garantistico che la Corte ha svolto e svolge continuamente. Nel licenziarla per la stampa è un gradito dovere ringraziare tutti coloro che hanno intelligentemente collaborato nell'opera di revisione e di aggiornamento; in particolare il professor Achille de Nitto, che ci ha generosamente offerto un insostituibile aiuto.
Paolo Grossi
Presidente della Corte costituzionale
dal Palazzo della Consulta, il 23 aprile 2016


Un Palazzo, una Corte
Chissà quante volte sarà capitato di leggere in un giornale o di sentire alla televisione che la "Consulta" si è pronunciata o le era stato chiesto di pronunciarsi su un certo problema. E può essere accaduto di vedere, in rapide immagini di cronaca o di repertorio, in occasione di qualche cerimonia o di qualche avvenimento, i giudici della Corte costituzionale riuniti in udienza, in toga nera lunga come una tonaca, collo e maniche merlettati, intorno ad un lungo banco a forma di ferro di cavallo. Queste pagine cercano di fornire alcune essenziali informazioni su questa istituzione.

Perché la "Consulta"?
Con questo nome viene spesso designata la Corte costituzionale, perché il Palazzo della Consulta, situato a Roma, in Piazza del Quirinale, è la sede della Corte. Una scelta felice, questa della sede, non solo perché il settecentesco palazzo è un'opera architettonica di grande bellezza, ma anche perché la sua collocazione esprime bene, simbolicamente, la posizione della Corte costituzionale: sul colle "più alto" di Roma, faccia a faccia con il Palazzo del Quirinale, sede del Presidente della Repubblica, massima istituzione rappresentativa, e a sua volta titolare prevalentemente come la Corte di compiti di garanzia; relativamente lontano, invece, dai palazzi della Roma "politica" (Montecitorio e Palazzo Madama, sedi delle due Camere; Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei ministri, cioè del vertice del Governo; i vari ministeri) e della Roma "giudiziaria" (ad es., il "Palazzaccio", sede della Corte di cassazione, cioè del vertice della magistratura). La Corte infatti dialoga con la politica, ma non è essa stessa una istituzione "politica" in senso stretto. Non ha il compito di rappresentare i cittadini realizzando gli indirizzi e gli orientamenti da essi (o dalla loro maggioranza) prescelti, ma piuttosto quello di garantire il rispetto da parte di tutti della legge fondamentale della Repubblica, la Costituzione; proprio in relazione a questo compito e nel suo svolgimento, essa dialoga altresì con gli organi giurisdizionali, ma non è essa stessa un'istituzione giudiziaria come questi.

Dal papato alla Monarchia alla Repubblica
Sin dall'edificazione e fino al 1870 salvo che per il brevissimo periodo in cui vi si insediò il governo della Repubblica Romana del 1848-49, quando Roma faceva parte ancora dello Stato pontificio in questo palazzo aveva sede un organismo ecclesiastico con funzioni giudiziarie in materia civile e penale, la "Sacra Consulta". Alla parete d'una stanza è ancora oggi possibile leggere il testo di sentenze pronunciate dalla Sacra Consulta a carico di responsabili di delitti commessi nello Stato pontificio. Quando Roma fu annessa al Regno d'Italia, nel 1870, e il Quirinale divenne la residenza ufficiale del Re, il palazzo della Consulta fu per un certo periodo la dimora del principe ereditario Umberto di Savoia (il futuro re Umberto I) con la moglie Margherita. A questo periodo risalgono molte decorazioni interne del palazzo. Successivamente esso divenne la sede del ministero degli Affari esteri, e, dopo il trasferimento di questo a Palazzo Chigi (prima che alla "Farnesina"), la sede del ministero delle Colonie, poi dell'Africa italiana (ancora oggi alcuni dipinti alle pareti, di soggetto "coloniale", ricordano quel periodo). Alla fine della seconda guerra mondiale, questo ministero venne soppresso, ma le sue strutture continuarono ad occupare per alcuni anni il palazzo, finché nel 1955, concretamente istituita la Corte costituzionale, il palazzo ne divenne la sede, mai da allora cambiata: l'articolo 1 della legge n. 265 del 1958 stabilisce che il palazzo della Consulta «è destinato a sede permanente della Corte costituzionale».
Come e perchè nascono le Corti costituzionali
Una istituzione giovane
La Corte costituzionale è una istituzione creata in tempi relativamente recenti. Nulla di simile vi era nell'ordinamento italiano anteriore alla Costituzione del 1948. In altri paesi, organismi analoghi erano stati previsti per la prima volta sulla base soprattutto delle elaborazioni teoriche di un grande giurista democratico austriaco, Hans Kelsen in alcune Costituzioni europee degli anni Venti del secolo scorso. Dopo la seconda guerra mondiale, una Corte (o Tribunale o Consiglio) costituzionale è stata prevista, oltre che nella Costituzione italiana, in quella tedesco-occidentale del 1949 (la prima entrata in funzione nell'Europa postbellica, a partire dallo stesso anno); più tardi si ritrova (in forma diversa) nella Costituzione francese del 1958, nelle Costituzioni democratiche del Portogallo (1974) e della Spagna (1978), e nella Costituzione jugoslava (1963). Più di recente quasi tutte le nuove Costituzioni degli Stati dell'Europa orientale e di quelli sorti dallo scioglimento dell'Unione Sovietica hanno previsto la istituzione di organismi analoghi, e lo stesso è accaduto in altri Stati extraeuropei. Oggi un meccanismo di controllo di costituzionalità delle leggi risulta esistente, in varie forme, in 192 dei 196 Stati del mondo generalmente riconosciuti. Ma se le Corti costituzionali sono istituzioni giovani, il problema da cui esse nascono e a cui cercano di rispondere viene da lontano.

Onnipotenza del Parlamento
Secondo la più antica tradizione costituzionale europea, formatasi soprattutto nella Gran Bretagna del Sei-Settecento e nella Francia postrivoluzionaria, anche le istituzioni statali sono soggette al diritto, e i giudici (le Corti, i tribunali), indipendenti dagli altri poteri, hanno il compito di risolvere le controversie, applicando le regole di diritto e ripristinandone l'osservanza quando esse sono violate. Ma come nascono le regole del diritto dello Stato? Esse scaturiscono dalla tradizione che si fissa in consuetudini dichiarate e applicate dai giudici, oppure dalle leggi emanate dagli organi investiti del "potere legislativo", cioè dai Parlamenti, eletti dai cittadini e perciò rappresentativi della volontà popolare. I giudici non possono creare o modificare le leggi, ma le devono applicare (essi sono «soggetti soltanto alla legge», come dice l'articolo 101 della Costituzione italiana). Le Costituzioni riconoscono e disciplinano questa "divisione dei poteri". Sempre secondo questa tradizione, la legge esprime tipicamente la volontà dell'autorità dello Stato. Il Parlamento, che delibera le leggi, è libero nel formularle, è in un certo senso "onnipotente": secondo un famoso 20 detto riferito al Parlamento inglese, esso "può far tutto, meno che cambiare un uomo in donna". Ma può anche cambiare liberamente la Costituzione? Su questo punto molte Costituzioni dell'Ottocento non si esprimevano in modo esplicito; più tardi alcune regolarono invece i particolari procedimenti con cui si poteva modificare la Costituzione. Rimaneva però il fatto che, mentre gli atti delle autorità amministrative potevano essere soggetti al controllo di legalità da parte dei giudici, nessuno (neanche i giudici) era invece autorizzato a controllare le leggi espressione massima della "sovranità" dello Stato per verificare se esse fossero conformi alla Costituzione.

L'esperienza americana
Gli Stati Uniti d'America, invece, fin dall'inizio della loro storia, hanno seguito una strada diversa. La costituzione americana stabilisce un equilibrio tra poteri della Federazione e quelli degli Stati membri e non prevede l'"onnipotenza" del potere legislativo. Quest'ultimo, infatti, è concepito come un "delegato" dei cittadini e, come tale, non può agire contro i diritti dei cittadini stessi, dai quali trae i propri poteri. In base a questa dottrina costituzionale, che è scritta nel Federalist (la prima e celeberrima illustrazione della Costituzione americana), le Corti giudiziarie si ritennero, fin dall'inizio dell'Ottocento, investite del potere di controllare le leggi, dei singoli Stati e della Federazione, negando loro applicazione se in contrasto con quanto stabilito dalla Costituzione federale: sia con le regole costituzionali sulla suddivisione dei poteri fra Stati e Federazione, sia con le regole costituzionali (introdotte attraverso emendamenti nella Costituzione federale) sui diritti dei cittadini (garanzie rispetto all'arresto arbitrario, libertà di parola, ecc.). In una famosa sentenza (caso Marbury contro Madison, 1803) la Corte suprema federale degli Stati Uniti affermò che la Costituzione è anch'essa una legge, superiore alle altre leggi; che sin quando essa non venga modificata con gli appositi speciali e complessi procedimenti, le altre leggi ("ordinarie") devono rispettare la Costituzione; e che, se non la rispettano, sono nulle e qualunque giudice ha il potere e il dovere di non applicarle.

In Europa: un controllore per il Parlamento
In Europa l'idea della superiorità della legge, espressione della sovranità dello Stato o del popolo rappresentato dal Parlamento (erede, in un certo senso, degli antichi sovrani "assoluti"), rese per lungo tempo difficile accettare che qualcuno, fuori dal Parlamento, potesse controllare le leggi e negare obbedienza a una legge perché contraria alla Costituzione. Nel corso del Novecento un secolo sconvolto dalle guerre e segnato profondamente da esperienze autoritarie (in Italia il fascismo) che avevano portato all'abbattimento delle tradizionali istituzioni prese forza la consapevolezza che la salvaguardia dei diritti fondamentali proclamati dalle Costituzioni e degli equilibri costituzionali fra i poteri esigeva la possibilità di un controllo anche sulle manifestazioni più elevate di volontà degli organi rappresentativi, compresi i Parlamenti, e quindi sulle leggi. In generale si ritenne, però, che ad effettuare questo controllo non fossero adatti i normali organi giudiziari. Essi sono chiamati ad applicare le leggi piuttosto che a giudicarle, perché formati da magistrati di carriera, non rappresentativi e privi della necessaria sensibilità politica. Controllare la costituzionalità delle leggi non è lo stesso che controllare, per esempio, la legalità di un atto del potere esecutivo: molte norme della Costituzione sono generiche, e applicare la Costituzione non è mai un'operazione soltanto tecnico-giuridica (neanche applicare le leggi, spesso, lo è; ma nel caso della Costituzione questo vale in misura maggiore). D'altra parte il controllo non poteva nemmeno essere affidato allo stesso Parlamento che deliberava le leggi: il controllato non può essere anche il controllore di se stesso. Di qui, la soluzione di creare un apposito Tribunale o Corte, operante come un giudice, formato da persone tecnicamente preparate, scelte appositamente per tale funzione, per lo più elette dal Parlamento o da altre supreme istituzioni statali, non revocabili sino alla fine del loro mandato (in genere di lunga durata o esteso fino al raggiungimento di un limite di età), e indipendenti dai poteri propriamente politici. A questa istituzione fu affidato il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e di annullarle se incostituzionali. Nasce così la "giurisdizione" costituzionale: un'attività di tipo giudiziario, per il carattere dei procedimenti utilizzati, e non politica ma di garanzia delle norme costituzionali; un'attività, però, anche vicina e interferente con le istituzioni politiche che esercitano il potere legislativo.

Un arbitro per i conflitti costituzionali
A questa funzione delle Corti costituzionali quali "giudici delle leggi", se ne sono aggiunte altre, tutte in genere accomunate dallo scopo di meglio assicurare l'osservanza delle norme costituzionali: fondamentale quella di risolvere le controversie fra lo Stato centrale e gli Stati federati o gli enti territoriali (come le Regioni) garantendo l'equilibrio tra i poteri centrali e quelli periferici, e quella di risolvere i conflitti fra diversi poteri dello Stato. A parte tutto ciò, alle Corti costituzionali si ricorre in vari altri casi, quando occorre un organo imparziale per risolvere questioni che i giudici non avrebbero l'autorità sufficiente per decidere (ad es. le controversie elettorali, i giudizi contro i ministri o il capo dello Stato, ecc.) In sintesi: quasi in tutte le attuali esperienze costituzionali, ormai, si riconosce la necessità di meccanismi di controllo e di arbitrato imparziale, in nome della Costituzione, rispetto alle supreme attività e istituzioni statali. Nei paesi che hanno seguito il modello statunitense, i relativi poteri sono riconosciuti alle ordinarie Corti supreme; nei paesi che hanno seguito il modello europeo (e tra questi l'Italia), ad apposite Corti o Tribunali costituzionali. Alle Corti supreme o alle Corti costituzionali spetta perciò il compito di garantire, in modo indipendente ed imparziale, l'osservanza della Costituzione.
La Corte costituzionale italiana
Come è nata la Corte
Quando l'Assemblea costituente si accinse ad elaborare il testo della Costituzione della Repubblica italiana (approvato poi il 22 dicembre 1947, promulgato dal Capo dello Stato il 27 dicembre ed entrato in vigore il 1° gennaio 1948), fece una scelta di fondo: attribuire alla nuova Costituzione una forza "superlegislativa", così che le leggi "ordinarie" non potessero modificarla né derogare ad essa (per far ciò è necessario seguire uno speciale procedimento più complesso, previsto dall'articolo 138 della stessa Costituzione): così da attribuire ai diritti e doveri sanciti dalla Costituzione e alle altre regole che assicurano l'equilibrio fra i poteri la massima resistenza anche di fronte alle leggi del Parlamento. A questa scelta la Costituente fece seguire coerentemente anche se non tutte le forze politiche furono pienamente convinte, allora, di fronte a questa novità che a qualcuno sembrò una "bizzarria" la previsione, fra le "Garanzie della Costituzione" (titolo VI della parte seconda), di una Corte costituzionale, con le funzioni, indicate nell'articolo 134, di giudicare: «sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione», nei casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione. A quest'ultimo compito si aggiungeva originariamente quello di giudicare i ministri per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni. Un'ulteriore funzione della Corte, quella riguardante il giudizio sull'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo, fu aggiunta dalla legge costituzionale n. 1 del 1953.

La lenta attuazione
La Costituzione ha previsto la istituzione della Corte e le sue funzioni fondamentali (articolo 134), la sua composizione (articolo 135), gli effetti delle sue decisioni sulle leggi (articolo 136); ma ha rinviato a successive leggi costituzionali e ordinarie l'ulteriore disciplina di essa e della sua attività. Era dunque necessario che venissero approvate queste leggi, perché la Corte potesse concretamente costituirsi e iniziare a funzionare. Nel febbraio del 1948 la stessa Assemblea costituente (i cui poteri erano stati prorogati per due mesi) approvò la legge costituzionale n. 1 del 1948, che stabilisce chi e come può ricorrere alla Corte. Si dovettero attendere però cinque anni perché venissero approvate la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 dello stesso anno, che completano l'ordinamento della Corte. Dopo lo scioglimento delle Camere e le nuove elezioni (svoltesi sempre nel 1953), altri ritardi furono dovuti alle difficoltà del Parlamento di trovare gli accordi necessari ad eleggere, con le elevate maggioranze richieste, i cinque giudici di sua competenza. Solo nel 1955 fu completata la prima composizione della Corte costituzionale, che si insediò nel palazzo della Consulta e si diede la prima necessaria organizzazione, emanando anche le norme regolamentari per la disciplina dei suoi procedimenti: le cosiddette "Norme integrative". Sette anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, finalmente la Corte era in grado di funzionare.

La prima udienza e la prima questione
Il 23 aprile 1956 si tenne la prima udienza pubblica della Corte, presieduta dal suo primo Presidente, Enrico De Nicola: lo stesso che aveva ricoperto la carica di capo provvisorio dello Stato repubblicano nonché, per pochi mesi, di Presidente della Repubblica. La prima questione discussa riguardava la costituzionalità di una norma della vecchia legge di pubblica sicurezza del 1931, che richiedeva un'autorizzazione di polizia per distribuire volantini o affiggere manifesti, e puniva la distribuzione o affissione non autorizzate: questione sollevata da una trentina di giudici penali di tutto il paese, i quali dubitavano della conformità della norma all'articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero. Per sostenere l'incostituzionalità della legge parlarono alcuni fra gli avvocati e i giuristi più illustri, fra cui Costantino Mortati, Vezio Crisafulli e Giuliano Vassalli (tutti, più tardi, in tempi diversi, nominati giudici costituzionali), nonché Piero Calamandrei, già membro dell'Assemblea costituente e grande studioso del processo e della Corte costituzionale e ancora Massimo Severo Giannini, già capo di gabinetto al ministero per la Costituente. La Corte dovette anzitutto decidere sul punto, molto discusso, se la sua competenza a controllare la costituzionalità delle leggi si estendesse anche alle leggi emanate prima della Costituzione (come appunto la legge di pubblica sicurezza del 1931) o fosse invece limitata (come sosteneva l'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio) alle leggi approvate dopo la Costituzione. È evidente l'importanza del problema, dato che gran parte della legislazione che allora, e ancora per molti anni in sèguito, componeva l'ordinamento del nostro Stato veniva dal fascismo e dall'epoca precedente ed era rimasta in vigore. Escludere il controllo della Corte su di essa avrebbe significato impedire di fatto che la Costituzione diventasse davvero operante in molti settori dell'ordinamento, rinviandone l'attuazione a tempo indefinito. La Corte affermò che tutte le leggi, anteriori o posteriori alla Costituzione, potevano essere controllate e dovevano essere annullate se contrastanti con la Costituzione. I princìpi di questa, infatti, non si rivolgono solo al legislatore, ma si impongono immediatamente a tutti: cittadini, autorità e giudici. La norma della legge di pubblica sicurezza che era stata impugnata fu così dichiarata incostituzionale. È tale storica sentenza n. 1 del 1956 che ha aperto la strada ad innumerevoli sentenze successive, le quali hanno "bonificato" l'ordinamento da molte norme delle vecchie leggi non in armonia con la nuova Costituzione, nei campi in cui l'intervento innovatore del Parlamento nel tempo è mancato, ha tardato o è stato inadeguato.

Qualche dato
Dal 1956 la Corte ha pronunciato molte migliaia di decisioni. Negli ultimi tre anni i casi sottoposti all'esame della Corte hanno oscillato tra i 300 ed i 500 all'anno, e la Corte li ha decisi (con riunione dei casi simili) pubblicando, nello stesso periodo, in media, all'incirca, 300 pronunce. Dopo lo straordinario impegno richiestole nel 1978-79 per il processo "Lockheed", che aveva provocato un certo ritardo nella risoluzione delle altre cause, essa si è "messa in pari" nel 1988, con uno sforzo organizzativo eccezionale, compiuto sotto la presidenza di Francesco Saja, e da allora si mantiene al passo con il ritmo dei casi che sopravvengono ogni anno. All'inizio di ogni anno il Presidente della Corte svolge una relazione pubblica, nel corso di un incontro con la stampa, illustrando il lavoro del periodo trascorso e dando conto degli orientamenti delle decisioni più importanti e dei dati statistici sull'attività. Le decisioni della Corte e gli atti che introducono i giudizi sono tutti pubblicati ogni mercoledì in una serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Oggi le decisioni, le relazioni e altri documenti sono disponibili sul sito Internet della Corte (www.cortecostituzionale.it), oltre che in pubblicazioni e supporti informatici specializzati.
La struttura
La composizione della Corte
Secondo l'articolo 135 della Costituzione, la Corte si compone di quindici giudici. Il sistema di nomina è frutto di un equilibrio delicato, perché cerca di armonizzare fra loro esigenze diverse: assicurare che i giudici siano il più possibile imparziali e indipendenti; garantire il necessario livello di competenza tecnico-giuridica; portare nella Corte varie competenze ed esperienze, diverse culture e sensibilità, ma non estranee e scollegate rispetto a quelle presenti nelle istituzioni politiche. I giudici devono essere scelti tutti fra ristrette categorie di giuristi con elevata preparazione: magistrati, in servizio o a riposo, provenienti dalle "supreme magistrature", cioè dalla Corte di cassazione (organo di vertice della magistratura ordinaria), dal Consiglio di Stato (organo di vertice della magistratura amministrativa) e dalla Corte dei conti (organo della magistratura contabile); professori universitari ordinari di materie giuridiche; avvocati con una esperienza di almeno vent'anni di esercizio della professione. Non c'è alcun limite minimo né massimo di età: di fatto, richiedendosi l'appartenenza alle magistrature superiori o una qualifica accademica elevata o un lungo esercizio professionale, i giudici giungono per lo più alla Corte in età matura. Ogni giudice è nominato per un mandato di nove anni (ancora una volta senza limiti di età), e non è rieleggibile né prorogabile: alla scadenza, va a riposo o rientra, se ne ha ancora i requisiti, nella precedente posizione professionale. La lunghezza del mandato (originariamente di dodici anni, e ridotto a nove da una riforma costituzionale del 1967) è superiore a quella di ogni altro mandato previsto dalla Costituzione (le Camere sono elette per cinque anni, il Governo dura al massimo una legislatura, cioè cinque anni, il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni): si tende così ad assicurare l'indipendenza dei giudici, anche dagli organi politici che li designano. Se un giudice cessa dal mandato anticipatamente, per morte o dimissioni o decadenza (quest'ultima può essere disposta solo dalla stessa Corte nel caso di gravissime mancanze, ma non è mai accaduto), viene sostituito ad opera dello stesso organo che aveva designato il suo predecessore, e dura in carica a sua volta nove anni. In tal modo, essendosi nel tempo sfasate fra di loro le date delle nomine dei singoli giudici, il mutamento della composizione della Corte è sempre parziale e graduale, e non c'è mai una brusca cesura fra una composizione ed un'altra; sicché la "giurisprudenza" della Corte (cioè gli orientamenti che stanno a base delle sue decisioni) può sì mutare, ma nell'àmbito di una fondamentale continuità. Ogni giudice, entrando a far parte della Corte, si immette nel "collegio" apportando il contributo della sua personalità e lavorando a stretto contatto con gli altri giudici. È infatti una caratteristica essenziale della Corte costituzionale quella di essere un organo "collegiale": le sue decisioni non sono prese da una né da poche persone, ma sempre dal collegio, cioè dall'insieme dei giudici (da undici numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare a quindici, il totale dei membri).

Chi sceglie i giudici
Nell'attribuire il potere di nomina dei componenti della Corte, la Costituzione ha operato un delicato e complesso bilanciamento fra le diverse esigenze che si sono dette. Un terzo dei giudici (cioè cinque) è eletto dai magistrati di ciascuna delle tre magistrature superiori (tre dalla Corte di cassazione, uno dal Consiglio di Stato, uno dalla Corte dei conti), a maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti del collegio elettorale) e con eventuale ballottaggio fra i più votati. Altri cinque sono eletti dal Parlamento in "seduta comune", cioè dalle due Camere riunite, con un voto a maggioranza di due terzi dei componenti nei primi tre scrutini, e di tre quinti dei componenti (cioè circa 570, sui circa 950 deputati e senatori) dal quarto scrutinio in poi. Gli ultimi cinque sono scelti dal Presidente della Repubblica di propria iniziativa. I giudici provenienti dalle magistrature sono portatori di qualificate esperienze giudiziarie e sono sganciati dalle scelte degli organi politici. I giudici di nomina parlamentare (scelti per lo più tra professori e avvocati, ma anche fra magistrati) possono più facilmente essere portatori di esperienze e di sensibilità presenti nelle assemblee rappresentative (spesso hanno anche alle spalle un'attività parlamentare), ma l'elevato numero di voti richiesto per l'elezione fa sì che non sia la sola maggioranza a sceglierli: normalmente intervengono accordi fra le forze politiche presenti in Parlamento, per cui i giudici eletti sono sì indicati, ciascuno, da forze parlamentari diverse, di maggioranza e di opposizione, ma sono accettati e votati dalle une e dalle altre. Non è raro che il raggiungimento degli accordi e del consenso necessari richieda molto tempo e molte votazioni: è per questo che, quando nuovi giudici devono essere eletti dal Parlamento, accade che l'elezione ritardi, e nel frattempo la Corte continui a funzionare a ranghi ridotti. I giudici eletti dal Parlamento non sono comunque rappresentanti o mandatari delle forze che li hanno indicati, ma, al pari di tutti gli altri componenti della Corte, sono indipendenti dai partiti che li hanno eventualmente designati e dallo stesso Parlamento che li ha eletti. I cinque giudici nominati dal Capo dello Stato sono scelti normalmente in funzione di integrazione o di equilibrio rispetto alle scelte effettuate dal Parlamento, in modo tale che la Corte costituzionale sia lo specchio il più possibile fedele del pluralismo politico, giuridico e culturale del Paese. La pluralità delle provenienze e delle fonti di designazione favorisce la presenza di esperienze e competenze diverse (per esempio, di esperti nei diversi campi del diritto, penale, civile, amministrativo, ecc.), nonché di sensibilità e di orientamenti differenti. Ma ciò che conta soprattutto è che, nel collegio, i giudici sono tutti eguali, e danno il loro contributo a titolo individuale. Non ci sono nella Corte gruppi o "partiti": ognuno giunge col suo bagaglio di esperienze e di idee, e lo immette nel lavoro collegiale dimenticando, in un certo senso, la propria provenienza e la propria fonte di designazione (per cui è improprio assegnare i giudici ai diversi raggruppamenti politici e partitici, secondo ciò che si fa, ad esempio, per i membri del Parlamento). Di fatto, il numero limitato dei giudici, il metodo collegiale e l'esclusività dell'impegno nel lavoro della Corte (durante il mandato i giudici non possono svolgere nessun'altra attività professionale, e tanto meno attività politica), la durata del mandato e la lunga consuetudine di lavoro comune (quando la Corte è riunita, tutti i giudici trascorrono sei-sette ore al giorno nella "camera di consiglio", ove discutono tra loro e deliberano nel totale segreto) fanno sì che la fisionomia e le dinamiche interne della Corte siano legate essenzialmente alla personalità dei suoi componenti. Nello stesso tempo, poiché il "prodotto" della Corte (le sue decisioni) è sempre e solo collettivo, esso va sempre considerato come il frutto della integrazione fra i diversi apporti individuali.

Prerogative e obblighi dei giudici costituzionali
Durante il mandato, i membri della Corte costituzionale, al fine di garantirne al massimo l'indipendenza (ed anche l'immagine di indipendenza), nonché l'estraneità agli interessi coinvolti nei giudizi, godono di particolari prerogative e allo stesso tempo sono assoggettati a particolari doveri. Essi non possono essere chiamati a rispondere in alcuna sede delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni, e nemmeno possono essere sottoposti a procedimento penale, o privati della libertà, senza l'autorizzazione della Corte. Godono di uno stipendio commisurato per legge al trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione, il magistrato di carriera investito delle più alte funzioni, e la Corte fornisce loro tutti i supporti e le strutture necessarie per lo svolgimento dei loro compiti. D'altra parte l'esercizio del mandato di giudice costituzionale è incompatibile con qualsiasi altra attività: coloro che erano magistrati o professori universitari (se non sono già a riposo) sono collocati "fuori ruolo", e rientrano nell'impiego precedente al termine del mandato; coloro che erano avvocati non possono esercitare, durante il mandato, la professione né mantenere l'iscrizione nei relativi albi. È preclusa qualsiasi altra attività retribuita, salvi restando solo i diritti per le opere dell'ingegno (diritti d'autore). È vietato ai giudici non solo appartenere a un partito ma anche svolgere attività politiche. Per la stessa ragione essi si astengono, per pratica costante, dall'esprimere pubblicamente opinioni, se non in sede scientifica, e dal rilasciare interviste su argomenti che in qualsiasi modo tocchino la politica o le questioni devo- 31 lute alla Corte. Fa solo eccezione l'incontro annuale con la stampa del Presidente, di cui si è detto, a parte le rare esternazioni "istituzionali" dello stesso Presidente. Ciò può comportare qualche difficoltà di comunicazione con l'opinione pubblica, la quale non sempre viene messa in grado di comprendere a fondo, anche per l'inevitabile tecnicismo che caratterizza l'attività della Corte, il significato e la portata esatta delle sue decisioni. Si deve però ricordare che queste, come in genere le decisioni degli organi giudiziari, sono obbligatoriamente motivate, per cui è sempre possibile conoscere e valutare (e anche criticare, se è il caso) le ragioni che le sorreggono. Alla scadenza del mandato, come già detto, il giudice cessa dalle sue funzioni e non è rieleggibile. È d'uso che al giudice cessato venga conferito il titolo di "giudice emerito"; egli ha diritto alla pensione (o alla ricongiunzione del servizio prestato come giudice a quello della professione in cui rientra) e ad un trattamento di fine rapporto.

La Presidenza della Corte
La Corte elegge fra i propri componenti il Presidente, che dura in carica tre anni ed è rieleggibile (fino al 1967 durava in carica quattro anni ed ugualmente era rieleggibile). Poiché però la scadenza del mandato novennale di giudice comporta la cessazione di ogni funzione, spesso accade che il Presidente che i giudici scelgono di solito, ma non sempre, fra i colleghi più anziani (non di età, ma di mandato) venga a cessare dal mandato prima del compimento del triennio. È per questo che la durata della presidenza della Corte è spesso breve, cosicché nella vita della Corte si sono succeduti, in sessanta anni, 40 Presidenti. Il Presidente è eletto dai giudici a scrutinio segreto, a maggioranza assoluta (cioè di almeno otto voti, se la Corte è completa), e con eventuale ballottaggio fra i due più votati dopo la seconda votazione. Per evitare che si conosca all'esterno il voto espresso da ogni giudice nelle schede con cui si provvede all'elezione, queste vengono immediatamente distrutte dopo il voto dagli scrutatori. È d'uso tuttavia, da qualche tempo, la diffusione di un comunicato alla stampa, che informa del nominativo del Presidente eletto e del numero di voti da questi conseguito. Anche l'autonomia della Corte nella scelta del proprio Presidente ne esalta le caratteristiche di collegialità. Il Presidente, rispetto all'attività di giudizio, non ha autorità diversa dagli altri giudici, salvo il caso in cui vi sia parità di voti, quando il suo voto vale doppio: è un primus inter pares, i cui poteri consistono essenzialmente nella ripartizione fra i giudici dei compiti di relatore sulle cause, nella fissazione dei calendari dei lavori (il "ruolo" degli affari da 32 trattare in ogni seduta), nella convocazione e nella direzione dei lavori del collegio. Per il resto, egli rappresenta la Corte all'esterno (nell'ordine delle precedenze dopo il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle due Camere e il Presidente del Consiglio dei ministri), e sovraintende alla struttura e all'attività amministrativa della Corte, cui però è preposto, come diremo, il Segretario generale. Uno o più vicepresidenti, designati dal Presidente o dalla Corte, sostituiscono il Presidente in caso di assenza o impedimento. Un Ufficio di Presidenza ha compiti deliberativi in alcune materie di organizzazione e di amministrazione. Commissioni composte da alcuni giudici sono costituite per particolari funzioni amministrative (predisposizione di regolamenti, gestione del servizio studi e della biblioteca, rapporti con il personale, ecc.).

L'organizzazione amministrativa
Mentre i procedimenti in cui si svolgono le sue attività giurisdizionali sono disciplinati da leggi costituzionali ed ordinarie (oltre che dalle Norme integrative, di cui già si è detto), la Corte costituzionale al pari della Presidenza della Repubblica, delle due Camere del Parlamento e, per molti aspetti, della Presidenza del Consiglio dei ministri organizza autonomamente le proprie attività e predispone le strutture a ciò necessarie. La Corte dispone della propria sede e di un bilancio autonomo alimentato da fondi provenienti dal bilancio dello Stato (52,7 milioni di euro per il 2016) e pubblicato sul sito internet della Corte (www.cortecostituzionale.it). Entro questo stanziamento, le spese sono autonomamente decise dalla Corte stessa e dai suoi organi interni, senza alcuna interferenza esterna nemmeno a fini di controllo. La Corte ha una propria struttura amministrativa di supporto per le varie attività (cancelleria, ruolo e massimario, servizio studi, ragioneria, acquisti, appalti, gestione del personale, biblioteca, ecc.), disciplinata da suoi regolamenti, alla quale è preposto un Segretario generale, nominato dalla Corte, con incarico temporaneo, fra alti magistrati, dirigenti delle amministrazioni pubbliche o altri esperti. Inoltre ogni giudice ha dei collaboratori, da lui scelti fiduciariamente, che lo assistono nei suoi compiti. Si tratta di assistenti di studio (fino a tre, tratti dalla magistratura o dall'università), incaricati di preparare le ricerche sulle questioni da decidere, e di una segreteria che svolge tutte le attività di supporto. Complessivamente, sono circa 300 le persone che lavorano stabilmente per la Corte; la quale è anche autonoma nello stabilire il loro trattamento giuridico ed economico e nel giudicare sugli eventuali loro ricorsi (la cosiddetta "autodichìa", o "giustizia domestica", che tradizionalmente è attribuita nel nostro sistema agli organi costituzionali).
Le funzioni
Il controllo di costituzionalità delle leggi
Abbiamo sin qui descritto la "macchina" della Corte costituzionale; illustriamo ora più da vicino i suoi compiti che, come abbiamo visto, sono indicati in termini generali dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali. Il primo e storicamente più importante è il compito di decidere le controversie «relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni» (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a controllare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (cosiddetta costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (cosiddetta costituzionalità sostanziale). Atti legislativi: dunque leggi dello Stato, ma anche decreti legislativi delegati (deliberati dal Governo su delega delle Camere) e decreti-legge (adottati in via d'urgenza dal Governo e sottoposti alla conversione in legge da parte delle Camere); ed anche leggi delle Regioni e delle Province autonome, le quali, nel nostro sistema costituzionale, dispongono di una propria potestà legislativa. Non sono invece soggetti al controllo della Corte, sotto questo profilo, gli atti normativi da considerare subordinati alla legge, come i regolamenti: tali atti sono soggetti al controllo di legittimità (cioè di conformità alla legge) svolto dai giudici comuni. Poiché la legge deve essere conforme alla Costituzione e i regolamenti devono essere conformi alla legge, anche questi ultimi risulteranno conformi alla Costituzione, senza bisogno che siano sottoposti al controllo della Corte costituzionale.

Chi può provocare il giudizio della Corte?
Uno dei problemi più discussi a proposito della funzione della Corte costituzionale quale giudice delle leggi, è stato quello della "via di accesso" al giudizio. Come in genere ogni giudice, la Corte non può decidere autonomamente di quali questioni occuparsi: occorre che qualcuno la investa proponendo un ricorso o sottoponendole un dubbio. Chi può chiedere alla Corte di pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge? Qualunque cittadino, il Capo dello Stato, il Governo, minoranze parlamentari, organi giudiziari? L'Assemblea costituente, quando giunse ad esaminare il problema, non lo risolse ma rinviò la soluzione ad una successiva legge costituzionale, che fu approvata come già detto dalla stessa Assemblea nel febbraio 1948 (legge costituzionale n. 1 del 1948). In essa si stabilì (articolo 2) fermo il disposto dell'articolo 127 della Costituzione, che prevedeva l'impugnativa davanti alla Corte costituzionale, da parte del Governo, delle leggi regionali reputate contrastanti con la Costituzione che anche le Regioni potessero a loro volta impugnare, entro un breve termine dalla loro pubblicazione, le leggi dello Stato che reputassero lesive della propria autonomia garantita dalla Costituzione. Quel disegno è ora confluito nel nuovo testo dell'articolo 127 della Costituzione, con le modifiche del titolo V della parte II, introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. In tali casi il giudizio costituzionale serve essenzialmente a risolvere le controversie fra Stato e Regioni sui limiti delle rispettive competenze, e quindi sia a difendere l'autonomia delle Regioni da "attentati" del legislatore statale, sia a presidiare il potere legislativo statale da eventuali abusi dei legislatori regionali. Tutto questo si svolge nella logica dello Stato "regionale", in cui è la Costituzione a ripartire le competenze fra Stato e Regioni, con la Corte costituzionale che funge da "arbitro" nelle relative controversie. Ma, soprattutto, l'Assemblea costituente ha fatto una scelta fondamentale per quanto riguarda il sistema generale di controllo della costituzionalità delle leggi, escludendo che queste possano essere direttamente impugnate davanti alla Corte a opera di qualunque soggetto, e prevedendo invece che i dubbi di costituzionalità delle leggi possano essere sollevati solo in occasione della loro applicazione da parte dei giudici comuni. Quando cioè un giudice qualsiasi autorità giudiziaria, dal giudice di pace di una piccola città o dalla commissione tributaria di una provincia fino alla Corte di cassazione, e perfino gli arbitri rituali si trovi a dover risolvere una controversia, per decidere la quale dovrebbe fare applicazione di una norma di legge, e dubiti della conformità di questa norma alla Costituzione, egli ha il potere e il dovere di investire la Corte costituzionale della relativa questione. Il giudice non può decidere la causa come se la legge non ci fosse, ignorandola, anche se è convinto della sua incostituzionalità (in questo rimane l'antico divieto per il giudice di negare applicazione ad una legge in vigore); ma nemmeno è tenuto ad applicarla meccanicamente: dopo aver sperimentato il tentativo di una interpretazione "conforme" a Costituzione, deve invece proporre il dubbio di costituzionalità davanti all'unico organo che ha l'autorità per risolverlo, appunto la Corte costituzionale. Le vie di accesso alla Corte sono dunque tante quanti sono i giudici comuni, di qualunque grado. Si può dire, in sintesi, che nessun giudice è obbligato ad applicare una legge della cui costituzionalità egli dubiti, ma che solo la Corte costituzionale può liberarlo definitivamente dal vincolo, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge e così consentendogli di decidere la causa senza tener conto di essa. È questo il sistema di controllo di costituzionalità che viene detto "incidentale", perché la questione di costituzionalità di una legge sorge come "incidente" nell'àmbito di un processo comune, avente ad oggetto una qualsiasi materia controversa, ed è proposta alla Corte dal giudice di tale processo.

Il giudice comune come "portiere" del giudizio di costituzionalità
Nel giudizio comune, il dubbio sulla costituzionalità di una norma di legge che dovrebbe essere applicata può essere prospettato da una delle parti (l'imputato o il pubblico ministero in un giudizio penale, l'attore o il convenuto in un giudizio civile, il ricorrente o l'amministrazione resistente in un giudizio amministrativo, ecc.), oppure può essere rilevato dallo stesso giudice d'ufficio, cioè anche senza sollecitazione di parte. Se è una parte che chiede di investire la Corte costituzionale, il giudice non è tenuto senz'altro a trasmettere la questione alla Corte costituzionale, ma nemmeno può ignorarla. Deve decidere, motivando, anzitutto se la questione proposta ha rilevanza nella causa (cioè se la norma di legge della cui costituzionalità si dubita è necessaria per decidere la causa: altrimenti la questione è priva di "rilevanza"); in secondo luogo, se il dubbio ha, a suo avviso, una qualche ragion d'essere. Se gli appare chiaramente privo di fondamento, il giudice deve respingere l'istanza della parte per "manifesta infondatezza" (altrimenti si aprirebbe la strada a qualsiasi questione di costituzionalità, anche cervellotica, sollevata da una parte magari solo per ritardare la decisione della causa); in caso contrario, deve rivolgersi alla Corte costituzionale, non potendo risolvere da sé il dubbio, né in senso positivo né in senso negativo. Ai giudici comuni è affidato dunque, secondo un'immagine usata da Piero Calamandrei, il ruolo di "portieri" del giudizio di costituzionalità: ad essi spetta cioè il potere di aprire o chiudere la porta che dà ingresso alla Corte. All'inizio, si temeva che tale potere dei giudici si risolvesse in un impedimento all'intervento della Corte, che cioè la "porta" risultasse troppo "stretta". L'esperienza ha fugato questo timore, dimostrando che i giudici comuni non solo non tengono chiusa la "porta", ma la aprono con grande frequenza.

Corte costituzionale e giudici: un dialogo permanente
Dunque il sistema che affida ai giudici comuni la funzione di filtro delle questioni di costituzionalità, lungi dal lasciare disoccupata la Corte, ha prodotto un grande contenzioso costituzionale. Difatti, in occasione delle controversie giudiziarie, le norme delle leggi non vengono in considerazione solo nel loro significato generale ed astratto, ma nelle loro possibili applicazioni e conseguenze nei casi concreti. Non è l'astrattezza della regola di diritto, ma la concretezza dei casi della vita, ciò di cui si discute davanti ai giudici. I problemi di costituzionalità si moltiplicano, allora, sotto il segno dell'indefinita varietà di situazioni cui le leggi si devono applicare. La Costituzione non è, del resto, un mero insieme di norme specifiche: è il testo che contiene ed esprime i princìpi di fondo che debbono ispirare l'intero sistema giuridico. Quindi i problemi di costituzionalità delle leggi non si riducono mai ad un semplice confronto fra norme della legge e norme della Costituzione, ma investono il modo in cui i princìpi costituzionali si concretizzano nelle singole discipline legali e nella loro applicazione. Per esempio, moltissime questioni (la maggior parte di esse, si può dire) vengono sollevate invocando il principio costituzionale di eguaglianza («tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge...; è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...»: articolo 3 della Costituzione). Per dire se questo principio è rispettato o meno, occorre chiedersi se una concreta disciplina legale, così come si applica o per le conseguenze che comporta rispetto alle varie situazioni di fatto, risponda o meno al criterio generico ma penetrante dell'uguale valore di ogni persona e della ragionevolezza dei diversi "trattamenti" legali. E non è certo netto il confine tra legittime diversificazioni operate dal legislatore, nell'esercizio del suo compito di adattamento della legge ai mutevoli obiettivi politici, e discriminazioni costituzionalmente vietate. Inoltre, il significato delle disposizioni legislative e il modo in cui esse si combinano l'una con l'altra nel sistema non sono sempre chiari ed univoci. I modi di affrontare e risolvere i problemi giuridici sono naturalmente molteplici, ed è compito dei giudici trovarli, interpretando e applicando le leggi. In quest'opera il richiamo ai princìpi costituzionali dovrebbe essere costante. Non è raro che i giudici, nell'incertezza sulla interpretazione delle leggi, si rivolgano alla Corte sollevando dei dubbi di costituzionalità che sono risolvibili dando alle leggi una corretta interpretazione, adeguata ai princìpi costituzionali. E la Corte il cui compito non è quello della interpretazione delle leggi, ma quello del controllo della loro compatibilità con la Costituzione non di rado risponde indicando un'interpretazione più corretta, o invitando il giudice a trovarla. Questo "dialogo" fra la Corte costituzionale e le migliaia di giudici comuni, che rappresenta la sostanza di molta parte della giurisprudenza costituzionale, è reso possibile proprio dal sistema di controllo incidentale sulle leggi scelto dalla Assemblea costituente.

La Corte e la libertà del legislatore
Quando, dunque, una scelta legislativa del Parlamento appaia discutibile e controversa, e su di essa venga provocato da qualche giudice, chiamato ad applicarla, il controllo di costituzionalità della Corte, è allora che si dovrà trovare il delicato equilibrio fra il ruolo della Corte (che deve garantire l'osservanza dei princìpi costituzionali, anche contro la maggioranza parlamentare) e il rispetto del diritto del legislatore di fare le scelte politiche che ritiene più utili al paese, e che la Corte non ha il potere di ostacolare anche se, in ipotesi, possa considerarle inopportune. La Corte non è una terza istanza legislativa, a cui si possa fare ricorso per contestare o modificare, con una valutazione politica di opportunità, le scelte fatte dai rappresentanti eletti in Parlamento. Essa sta a guardia dei "confini". Se il legislatore resta entro i confini della Costituzione (e i princìpi costituzionali lasciano grande spazio per le scelte del legislatore), la Corte non ha alcun potere di censurarne le valutazioni, anche se magari le appaiano inadeguate o difettose. Se però il legislatore supera tali confini, spetta alla Corte censurare la legge o ricondurla entro di essi, per impedire che la Costituzione venga violata.

Il fattore tempo
Il sistema incidentale di controllo di costituzionalità fa sì che le leggi non possano essere portate immediatamente e direttamente all'esame della Corte a opera di chi le ritenga incostituzionali. Occorre passare per un giudizio e che ci sia un giudice chiamato ad applicarle, il quale sollevi la relativa questione. Può trascorrere del tempo, e ciò talvolta consente che nell'applicazione ai casi della vita, il significato della legge si chiarisca e si precisi. Può dunque darsi che di una disposizione legislativa di dubbia costituzionalità per lungo tempo non si discuta davanti alla Corte, perché nessuno ha sollevato la questione, e che ciò avvenga solo a distanza di molti anni. Ecco allora che norme antiche ma, talora, di rara applicazione vengono dichiarate incostituzionali magari a distanza di decenni non solo dalla loro emanazione, ma anche dall'entrata in vigore della Costituzione e dall'inizio dell'attività della Corte costituzionale (per esempio, l'articolo 569 del codice penale del 1930, che imponeva l'applicazione automatica della pena accessoria della perdita della potestà - ora responsabilità - genitoriale al genitore condannato per alcuno dei delitti contro lo stato di famiglia, è stato dichiarato incostituzionale solo con la sentenza n. 31 del 2012 e poi, ancora, con la sentenza n. 7 del 2013, reputandosi irragionevole che il previsto automatismo impedisse al giudice di valutare in concreto l'interesse del figlio minore a vivere e a crescere mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori).

Le decisioni della Corte
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una pronuncia di accoglimento, che dichiara l'illegittimità costituzionale della norma, oppure con una pronuncia di rigetto, che dichiara la questione non fondata. La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (per esempio, perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui, o l'ha proposta in modo contraddittorio, o perché non riguarda una norma di legge; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere, o anche perché mancano le indicazioni essenziali per individuare l'oggetto del ricorso). Questo tipo di pronunce non è raro, specie nei giudizi incidentali, stante il grande numero di questioni sollevate dai giudici e la tendenza di questi, talora, a far ricorso alla Corte costituzionale per prospettare problemi che non sono propriamente di costituzionalità, ma di semplice interpretazione della legge. Altre volte non si perviene alla decisione, perché nel frattempo è intervenuta qualche novità legislativa, che potrebbe rendere inutile la pronuncia della Corte. In tal caso, vengono restituiti gli atti al giudice che aveva sollevato la questione, affinché questi valuti, nel nuovo contesto, se riproporre la questione stessa.

La dichiarazione di incostituzionalità e i suoi effetti
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia vale a dire, non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale: così stabilisce l'articolo 136 della Costituzione. La pronuncia della Corte ha dunque un effetto generale (non limitato al singolo giudizio in cui la questione è stata sollevata) e definitivo. La legge "scompare" dall'ordinamento. Il Parlamento può deliberarne un'altra in sostituzione (ma naturalmente non potrà emanare una disposizione identica a quella già dichiarata incostituzionale). Il Parlamento può anche, in ipotesi, superare la dichiarazione di incostituzionalità ma, allora, dovrà modificare la Costituzione, rendendo così costituzionale ciò che, prima, era incostituzionale; ma perché questo avvenga occorre che sia seguito il particolare procedimento prescritto per la revisione costituzionale (articolo 138 Costituzione). In ogni caso, però, nessuna modifica può investire i princìpi supremi su cui si fonda la Costituzione, come è sancito per la forma repubblicana dello Stato dall'articolo 139 e, per i diritti della persona, dall'articolo 2. Più spesso la dichiarazione di incostituzionalità colpisce una sola parte della disposizione legislativa impugnata, quella appunto non compatibile con la Costituzione, lasciando sopravvivere il resto. Anzi la Corte, proprio per ridurre al massimo gli effetti di "vuoto" legislativo prodotti dalle sue pronunce di accoglimento, definisce attentamente la parte della legge destinata a cadere, e talvolta individua la norma che la sostituirà, traendola dalla stessa Costituzione o dal sistema legislativo. Questa tecnica di decisione ha fatto parlare di sentenze "manipolative", in quanto esse, in qualche modo, riscrivono la legge per renderla compatibile con la Costituzione, ovvero di sentenze "additive", in quanto esse comportano l'inserimento nella legge di elementi nuovi, necessari per adeguarla ai princìpi costituzionali. Si noti che la dichiarazione di incostituzionalità, avendo effetto generale, non si limita a imporre a tutti una diversa regola per il futuro, ma impedisce di applicare la norma incostituzionale anche quando si tratta di fatti passati. Poiché non sarebbe pensabile di rimettere in questione rapporti e situazioni ormai chiusi, magari in un lontano passato, rimangono però fermi gli effetti prodotti dalla norma che si sono definitivamente consolidati, che cioè non possono essere contestati davanti a un giudice (perché è stata già pronunciata una sentenza ormai definitiva, perché si tratta di diritti ormai prescritti, ecc.). Se la norma dichiarata incostituzionale sanziona penalmente una condotta, invece, non solo essa cade, ma anche le eventuali condanne già divenute definitive e tuttora in esecuzione perdono ogni effetto.

Le pronunce di rigetto
Se la pronuncia della Corte è di rigetto, cioè dichiara non fondato il dubbio di costituzionalità, la legge rimane in vigore. La decisione non ha però effetto generale e definitivo, in quanto lo stesso dubbio può essere nuovamente sollevato anche con motivi o argomenti nuovi, e la Corte potrebbe accoglierlo, sulla base dei nuovi elementi addotti, o modificando la propria precedente posizione. Naturalmente non è frequente che la Corte contraddica le proprie pronunce; ma talvolta accade (cambia nel tempo la composizione della Corte, e può cambiare anche, entro certi limiti, l'interpretazione e l'applicazione delle norme costituzionali su punti dubbi o controversi). Ad esempio, la norma del codice penale che puniva l'adulterio della moglie (non anche del marito), ritenuta non incostituzionale nel 1961 (sentenza n. 64), fu poi dichiarata illegittima nel 1968, per violazione del principio di parità fra i coniugi stabilito dagli articoli 3 e 29 della Costituzione (sentenza n. 126). Per lo più, però, la giurisprudenza della Corte costituzionale come quella di ogni autorità giudicante, la cui composizione varia solo gradualmente e lentamente presenta una continuità di linee di fondo, arricchendosi via via di precisazioni, specificazioni e integrazioni. I mutamenti della giurisprudenza si collegano anche ai cambiamenti della società e della cultura giuridica, che fanno emergere sensibilità ed esigenze nuove o diverse: anche la Corte costituzionale, che opera in un contesto storico concreto, non può non risentirne. Ciò non significa, però, che essa sia al seguito degli umori del momento, diffusi nell'opinione pubblica, perché ciò contraddirebbe il suo ruolo di garante della Costituzione.

Le pronunce interpretative
È molto frequente che la Corte respinga un dubbio di costituzionalità non perché esso, così come formulato dal giudice comune, sia privo di fondamento, ma perché è da respingere l'interpretazione che il giudice ha dato della disposizione impugnata, una disposizione che, se interpretata in altro modo, non presenta il vizio denunciato. Ciò avviene con le cosiddette sentenze "interpretative", fondate sulla circostanza che spesso una disposizione legislativa si presta ad essere intesa in modi diversi, e sul criterio che la Corte afferma da tempo secondo cui la legge deve essere interpretata, tutte le volte che è possibile, in senso conforme alla Costituzione. Queste decisioni, che affermano un'interpretazione "costituzionale" della legge, formalmente non vincolano i giudici diversi da quello che ha sollevato la questione: ad essi spetta applicare le leggi in piena autonomia. Normalmente, però, essi si adeguano alle interpretazioni offerte dalla Corte, se sono necessarie per evitare che la legge assuma un significato incostituzionale. Secondo il più recente orientamento della Cassazione, dopo che la Corte ha espresso un giudizio sfavorevole sulla compatibilità costituzionale di una determinata soluzione interpretativa, non è formalmente precluso ai giudici (diversi da quello rimettente) di applicare la norma in quel significato. Viene riconosciuto, però, che la pronuncia interpretativa riveste il valore di un autorevole precedente, anche in punto di non infondatezza del dubbio di legittimità della norma. Accade dunque di regola che i giudici, qualora ritengano di non poter adottare l'interpretazione alternativa suggerita dalla Corte, sollevino nuovamente la questione; e la Corte potrà pervenire a una successiva pronuncia di accoglimento, prendendo atto che la giurisprudenza dei giudici comuni non accetta la soluzione interpretativa che permetteva di fare salva la legge. Anche questo fa parte del permanente dialogo che la Corte intrattiene con gli altri giudici, oltre che con il legislatore. A quest'ultimo, infatti, talvolta la Corte si indirizza nelle sue decisioni dando suggerimenti e indicazioni per una disciplina delle materie considerata più adeguata rispetto alla Costituzione: in tali casi si parla di "sentenze di monito".

Le controversie fra Stato e Regioni e fra Regioni
Già sappiamo che c'è un'altra strada, oltre a quella del giudizio incidentale, per portare una legge all'esame della Corte: le controversie costituzionali fra Regioni e Stato quanto alle rispettive competenze legislative. Il Governo può ricorrere direttamente contro una legge regionale, e una Regione può ricorrere direttamente contro una legge statale o una legge di altra Regione. Il giudizio, anche in questi casi, segue le stesse regole, ha gli stessi esiti e produce effetti analoghi a quelli di cui abbiamo parlato. Un diverso meccanismo di ricorsi trova applicazione quando la controversia fra Stato e Regione o fra Regioni ha per oggetto non una legge, ma un atto di altra natura (un regolamento, un atto amministrativo, un atto giudiziario, ecc.). La Regione che lamenti la lesione della propria autonomia costituzionale può sollevare "conflitto di attribuzione" nei confronti dello Stato (che sarà rappresentato dal Presidente del Consiglio dei ministri) o di altra Regione; a sua volta, lo Stato, che ritenga un atto di una Regione (diverso da una legge) eccedente i limiti della competenza regionale o lesivo di una competenza statale, può sollevare conflitto di attribuzione contro la Regione (che sarà rappresentata dal suo Presidente). In questi casi la sentenza della Corte dichiara a chi spetta l'attribuzione in contestazione, ovvero come essa deve essere esercitata per non ledere le attribuzioni altrui, ed eventualmente annulla l'atto illegittimo.

I conflitti tra poteri
C'è un'altra categoria di "conflitti di attribuzione" che la Corte è chiamata a risolvere: sono i conflitti che sorgono fra "poteri dello Stato", quando essi ritengono che le attribuzioni che la Costituzione assegna loro siano state violate da un altro potere dello Stato. Poiché la Costituzione ha inteso comunque assicurare una garanzia di applicazione imparziale delle norme sulle competenze a opera di un organo "arbitrale", anche queste controversie, che hanno riguardo alla separazione dei poteri, sono state demandate alla giustizia costituzionale. Può accadere, ed è accaduto, che sorga conflitto, ad esempio, tra un organo giudiziario e una Camera parlamentare, a proposito dell'applicazione di una immunità garantita ai parlamentari dalla Costituzione; tra il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura a proposito dei rispettivi poteri riguardanti i magistrati; fra il Governo e un pubblico ministero a proposito dell'applicazione del segreto di Stato; fra un ministro e la Camera parlamentare che abbia votato una mozione di sfiducia nei suoi confronti; fra i promotori di un referendum abrogativo e l'Ufficio della Corte di cassazione che controlla la regolarità delle procedure referendarie. Persino la Corte costituzionale può entrare in conflitto con un altro organo, quando sono contestate le sue stesse attribuzioni: in questo caso, mancando un "arbitro" terzo, la stessa Corte costituzionale assume contemporaneamente il ruolo di parte e di giudice del conflitto.

I giudizi di ammissibilità dei referendum
La legge costituzionale n. 1 del 1953 ha aggiunto una nuova competenza a quelle ora esaminate: giudicare sull'ammissibilità dei referendum richiesti, secondo l'articolo 75 della Costituzione, da almeno cinquecentomila elettori o da almeno cinque consigli regionali, per l'abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato (decreto legislativo, decreto-legge). Inizialmente, si riteneva che questo giudizio di ammissibilità si limitasse a verificare che la legge sottoposta a referendum non appartenesse a una delle quattro categorie di leggi escluse dall'articolo 75 della Costituzione: leggi tributarie, leggi di bilancio, leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, leggi di amnistia e di indulto. Ma già nella sentenza n. 16 del 1978 la Corte costituzionale, chiamata a deliberare sull'ammissibilità di un gruppo di otto referendum, stabilì che, oltre a queste cause esplicite di inammissibilità, ve ne sono altre, ricavabili implicitamente dai princìpi costituzionali e dalla natura e dai caratteri dell'istituto referendario. Così, ad esempio, si è ritenuto che siano inammissibili le richieste di referendum formulate in modo da ricomprendere in un unico quesito più domande di abrogazione oggettivamente diverse, coartando così la libertà dell'elettore; le richieste di abrogazione di leggi il cui contenuto non è libero, ma è vincolato dalla Costituzione, o che non si possono modificare senza incidere sulla Costituzione (la quale, infatti, non si può intaccare con un referendum abrogativo, ma solo con l'intervento di maggioranze parlamentari speciali, ed eventualmente con un referendum successivo di conferma); le richieste di abrogazione che tendono a introdurre, ritagliando un testo legislativo, disposizioni nuove e non a eliminare disposizioni esistenti (il referendum ammesso è infatti solo abrogativo, non introduttivo di nuove leggi); le richieste di abrogazione di leggi vincolate da obblighi internazionali o comunitari (per non dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato senza una delibera del Parlamento). La Corte è investita del giudizio di ammissibilità dopo che la richiesta di referendum è stata ritenuta regolare dall'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione; e il referendum viene indetto solo se la Corte lo giudica ammissibile. La legge stabilisce che le richieste di referendum, presentate entro il 30 settembre di ogni anno, siano esaminate tutte dall'Ufficio centrale entro il 15 dicembre, e dalla Corte costituzionale entro il 20 gennaio successivo, per arrivare alla consultazione sui referendum ammessi, in una data compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Ecco perché, quando vengono presentate richieste di referendum abrogativo, la Corte è impegnata in una speciale sessione in gennaio, con una procedura particolarmente sollecita. Le sue decisioni in materia sono state spesso al centro dell'attenzione e della politica, non solo per l'oggetto dei referendum proposti ma anche per gli effetti che essi potevano produrre sulla vita politica e parlamentare.

I giudizi penali
Tradizionalmente i giudizi penali a carico del Capo dello Stato e dei componenti del Governo per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni sono assoggettati a una speciale giurisdizione o almeno ad una speciale disciplina, per la loro particolare connotazione politica. Anche la nostra Assemblea costituente ha fatto questa scelta, stabilendo che a giudicare di tali reati fosse la Corte costituzionale, ma non nella sua ordinaria composizione di quindici giudici, bensì in quella integrata da sedici cittadini (giudici popolari, in un certo senso, perché non scelti necessariamente fra giuristi), sorteggiati, in occasione del processo, in un elenco di quarantacinque cittadini ultraquarantenni scelti, ogni nove anni, dal Parlamento in seduta comune. Solo una volta nella sua storia la Corte è stata chiamata (nella composizione integrata di 31 membri) a rendere un giudizio di questo tipo, in un processo per corruzione il caso Lockheed, conclusosi nel 1979 nel quale erano imputati due ex ministri (uno fu prosciolto, l'altro condannato). A seguito di tale esperienza, che bloccò per lungo tempo le altre attività della Corte, ci si persuase che fosse meglio limitare questa speciale competenza penale della Corte al solo caso dei reati del Presidente della Repubblica; mentre, per i ministri, si è trasferita la competenza alla giurisdizione penale comune, sia pure con procedure particolari (legge costituzionale n. 1 del 1989).
Come lavora la Corte
Un anno di cause
Prendiamo un anno come esempio: il 2015. Sono pervenute alla Corte 348 questioni di legittimità costituzionale di leggi, proposte in via incidentale da giudici comuni (in particolare: 15 dalla Corte di cassazione, 148 da Corti di appello e Tribunali ordinari, 7 dal G.I.P., 5 dal G.U.P, 19 dal Consiglio di Stato, 113 da Tribunali amministrativi regionali,10 dalla Corte dei conti, 10 da giudici tributari, 7 da giudici di pace, 2 dal Tribunale di sorveglianza, 3 da Tribunali dei minorenni; 2 da Collegi arbitrali; 2 dalla Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei Deputati; 5 dal Giudice dell'esecuzione); 104 questioni di legittimità proposte con ricorso da Regioni (o province autonome) contro leggi statali (34) o dallo Stato contro leggi regionali o provinciali (70); 11 ricorsi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e province autonome; 4 ricorsi per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Nello stesso anno, la Corte ha pubblicato 276 decisioni, di cui 168 sentenze e 108 ordinanze. Di queste pronunce, 145 sono state rese in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, 113 a seguito di giudizi in via principale, 8 in sede di conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni e 4 a seguito di conflitti di attribuzione fra poteri. Nel novero delle decisioni sono inoltre ricomprese 3 ordinanze in esito alla fase di ammissibilità dei conflitti, 2 sentenze sull'ammissibilità di richieste referendarie e 1 decisione di correzione di errori materiali. Il numero di questioni decise è di solito superiore a quello delle pronunce, perché spesso con una unica pronuncia sono decise più questioni o più ricorsi simili, che vengono riuniti a questo scopo. Il ritmo di lavoro della Corte è dunque tale da mantenere il passo con le richieste di giudizio: generalmente non si accumulano arretrati significativi.

L'instaurazione del giudizio
Come si svolge un giudizio costituzionale? Quale iter segue una causa dal momento in cui è proposta a quello in cui la Corte pubblica la sua decisione? Seguiamo una delle tante questioni di costituzionalità sollevate da un giudice (ma lo stesso, con piccole varianti, vale per i ricorsi presentati nelle controversie fra lo Stato e le Regioni; nei conflitti fra poteri si aggiunge, prima che inizi il vero e proprio giudizio, un controllo preliminare della Corte sull'ammissibilità del conflitto stesso). Il giudice che ha sollevato la questione deve far notificare la sua ordinanza alle parti del suo giudizio e al Presidente del Consiglio dei ministri (o al Presidente della Giunta regionale se la questione riguarda una legge regionale), e farla comunicare ai Presidenti delle Camere del Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato; successivamente la trasmette alla cancelleria della Corte costituzionale. L'ordinanza qui pervenuta viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale (così che tutti possano sapere che vi è un giudizio in corso sulla costituzionalità di quella norma di legge) ed esaminata da un apposito ufficio della Corte che ne mette a fuoco l'oggetto e ricerca i precedenti.

Chi può partecipare?
Dalla pubblicazione decorre il termine entro cui possono presentare le proprie conclusioni e i propri argomenti i soggetti che prendono parte al giudizio comune da cui la questione proviene, e inoltre il Presidente del Consiglio dei ministri (o il Presidente della Giunta regionale, se si tratta di una legge regionale). Entro un breve termine precedente il momento in cui la causa viene trattata dalla Corte, poi, le parti possono depositare memorie scritte, da allegare al fascicolo della causa in possesso di tutti i giudici costituzionali, insieme all'ordinanza del giudice (o al ricorso) che ha introdotto la questione. La legge prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri possa prendere parte al giudizio davanti alla Corte, non perché il Governo sia interessato all'esito dei singoli giudizi, ma perché si discute della validità di una legge (la quale, come già detto, se dichiarata incostituzionale, viene privata di efficacia), e il Governo viene considerato come il rappresentante dell'unità dell'ordine legale (come il Presidente della Regione rappresenta l'unità del suo particolare ordinamento). Il Presidente del Consiglio è difeso in giudizio dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale, per lo più, propone alla Corte le ragioni che potrebbero indurre a considerare non fondata, o inammissibile, la questione di costituzionalità. Il suo intervento è perciò, di norma, a "difesa" della legge: però non è necessariamente così, accadendo anche, sia pure raramente, che condivida i dubbi di costituzionalità. Si noti che nei giudizi incidentali la Corte decide comunque la questione, anche se nessun soggetto è intervenuto: a rendere necessario il responso della Corte basta l'ordinanza del giudice che ha sollevato la questione. Diverso è il caso dei giudizi che si iniziano con ricorso (nelle controversie fra Stato e Regioni o nei conflitti fra poteri): in questi casi è essenziale che vi sia un soggetto (il ricorrente) che porta avanti il giudizio.

La riunione della Corte
A questo punto iniziano i lavori della Corte. Il Presidente, nell'ambito di un calendario di massima prefissato per tutto l'anno, seleziona le cause da discutere in ciascuna riunione, designa il giudice costituzionale incaricato di riferire su di esse (giudice relatore) e stabilisce il "ruolo" di ogni seduta, cioè l'elenco delle cause da discutere. Due sono le forme in cui ha luogo la trattazione delle cause. Si può avere un'"udienza pubblica", cioè una riunione aperta al pubblico, nel corso della quale, dopo che il giudice relatore ha illustrato la questione così come proposta, gli avvocati che rappresentano i soggetti intervenuti nel giudizio espongono le loro tesi davanti alla Corte riunita. Al termine dell'udienza pubblica, la Corte si riunisce di nuovo, ma in "camera di consiglio", senza pubblicità, per deliberare sulla causa. Oppure la causa può essere trattata direttamente in camera di consiglio, senza discussione pubblica e sulla base dei soli atti scritti. Si ricorre a questa procedura semplificata quando non vi sono parti costituite davanti alla Corte (può esserci solo la memoria dell'Avvocatura dello Stato o dell'avvocato del Presidente regionale); oppure, anche quando vi siano parti, se il Presidente della Corte ritiene probabile che la questione possa essere senz'altro respinta perché palesemente infondata o inammissibile (per esempio in base a precedenti decisioni in materia): la decisione finale spetta comunque sempre alla Corte. La Corte, sia in udienza pubblica che in camera di consiglio, si riunisce nella sua composizione plenaria di quindici giudici (o, come ricordato, fino al minimo di undici, se c'è qualche posto vacante o qualche assenza ). Non si suddivide mai in sezioni o collegi minori composti da una parte dei giudici. (Soltanto quando si riunisce per giudicare i ricorsi dei suoi dipendenti è previsto che il collegio sia formato da tre soli giudici, preventivamente designati). Il funzionamento in composizione plenaria è reso possibile dal numero non elevatissimo di componenti. Esso assicura, di massima, la coerenza degli indirizzi della Corte: negli organi di giustizia costituzionale che si suddividono in sezioni, infatti, queste possono facilmente esprimere indirizzi contrastanti fra di loro.

Un relatore per ogni causa
Si è detto che il Presidente, per ogni causa, designa un giudice relatore. L'incarico è distribuito fra i giudici, con esclusione (normalmente) del solo Presidente. In ogni udienza dunque, e in ogni camera di consiglio, si alternano diversi relatori per la trattazione delle diverse cause fissate. Con quali criteri il Presidente sceglie il relatore di ogni causa? Non ci sono regole fisse. A parte l'esigenza di distribuire il lavoro fra tutti i giudici, tenendo conto della gravosità della causa, di fatto il Presidente segue per lo più il criterio di assegnare la causa al giudice che sia già stato relatore su cause concernenti problemi simili, e si orienta a rispettare le competenze dei giudici i quali, per i loro studi o per le loro esperienze precedenti, hanno normalmente una più approfondita conoscenza di certi settori del diritto piuttosto che di altri (diritto penale, procedura penale, diritto civile, diritto del lavoro, diritto tributario, diritto amministrativo, ecc.). Ma si tratta di criteri assai approssimativi, poiché, comunque, ogni questione pone problemi di interpretazione della Costituzione che possono essere simili anche se riguardano settori diversi di materia; e inoltre vi sono campi del diritto in cui le questioni di costituzionalità vengono sollevate più frequentemente, e dunque tutti i giudici dovranno, una volta o l'altra, occuparsene. Per le cause più complesse e più delicate, poi, la scelta può essere guidata da specifiche ragioni di opportunità apprezzate dal Presidente. La scelta del relatore è importante, perché si tratta di colui che, approfondendo tutti gli aspetti della causa, propone al collegio i termini della questione e le possibili soluzioni; ma non è comunque decisiva ai fini della sorte della causa, poiché l'opinione del relatore non sempre diventa quella dell'intera Corte. Questo è conseguenza della collegialità piena che caratterizza il suo lavoro. Né il relatore è l'unico a conoscere preventivamente la questione e ad averla studiata. La preparazione del materiale per ogni causa da discutere è affidata ad un assistente di studio del giudice relatore, il quale redige una "ricerca", in cui include, in modo ragionato, i testi normativi, le precedenti decisioni della stessa Corte in argomento, le pronunce significative dei giudici comuni e gli scritti di studiosi che possono avere rilievo per l'argomento della questione e per la sua decisione. La ricerca è distribuita a tutti i giudici, così che ciascuno è messo in grado di studiare approfonditamente la causa. Talvolta, nei casi più rilevanti e complessi, al materiale distribuito ai giudici si può accompagnare una ricerca sulla legislazione e sulla giurisprudenza di altri paesi o di Corti internazionali, in cui analoghe questioni o problemi simili siano stati affrontati. Ciò dipende dal fatto che i princìpi costituzionali validi nei diversi ordinamenti si rifanno spesso a idee o impostazioni comuni (una specie di diritto costituzionale comune), e quindi anche i problemi di costituzionalità che si presentano nei vari paesi possono essere simili. La Corte può trarre, da queste esperienze, indicazioni o spunti utili per la propria decisione.

L'udienza pubblica
La Corte si riunisce in udienza pubblica, nell'apposita aula del palazzo della Consulta, normalmente ogni due settimane, il martedì mattina alle 9.30. Dietro il banco a forma di ferro di cavallo siedono i giudici (al centro il Presidente), in posti fissati, dai più anziani di mandato (vicino al centro) a quelli di più recente nomina (alle ali). Tutti indossano la toga nera, disegnata sul modello di un "robone" senese del '500. Nelle occasioni solenni indossano anche un collare dorato con una medaglia, e portano con sé il "tocco", il copricapo tradizionale. In un banco a parte, lateralmente, siede il cancelliere, in toga nera, incaricato di redigere il verbale dell'udienza, nel quale però non vengono riportati i contenuti delle singole esposizioni orali, salvo che non sia espressamente richiesta qualche specifica verbalizzazione, ma si dà solo atto dei vari interventi. Accanto al cancelliere siede il messo, in mantello rosso, che chiama le cause nell'ordine del ruolo o in quello determinato dal Presidente. Di fronte allo scranno dei giudici è collocato il banco degli avvocati che intervengono a discutere le cause (anch'essi in toga nera). Deve trattarsi di avvocati abilitati a difendere davanti alle "giurisdizioni superiori", per il che si richiede l'iscrizione ad un Albo speciale. Essi prendono la parola, nell'ordine indicato dal Presidente, dopo la relazione del giudice relatore. Di consueto i giudici ascoltano soltanto e non interrogano gli avvocati, che espongono senza interruzioni i loro argomenti. Per ultimo, nelle questioni incidentali, parla l'avvocato dello Stato che rappresenta il Presidente del Consiglio (o l'avvocato della Regione, se si tratta di una legge regionale). Normalmente non sono consentite repliche. Alle spalle degli avvocati è riservato uno spazio per i giornalisti e gli assistenti di studio. Dietro, vi sono le sedie per il pubblico, per lo più costituito da gruppi di studenti universitari o di scuole medie superiori, che vengono ad assistere all'udienza per conoscere da vicino come lavora la Corte. Talvolta assistono gruppi di persone appartenenti alle categorie interessate a qualcuna delle questioni discusse.

La camera di consiglio
È in camera di consiglio, nella totale assenza di pubblicità, che si svolge la discussione tra i giudici per la decisione delle questioni. La Corte si riunisce in camera di consiglio, di regola, ogni due settimane, in concomitanza con l'udienza pubblica (la settimana alterna è utilizzata dai giudici per il lavoro individuale, di preparazione delle cause e di redazione dei testi delle decisioni). Gli orari sono canonici: dalle 9.30 alle 13 e dalle 16 alle 19. Il luogo è la bella aula affrescata, attigua a quella dell'udienza. Attorno a un tavolo ovale allungato siedono i giudici, ciascuno al suo posto fisso, con una piccola postazione microfonica davanti. È in questa sede che il collegio esamina dialetticamente le questioni, sotto la direzione del Presidente; che si delineano le soluzioni, si decide, si approvano le sentenze. Si può capire anche quale assidua consuetudine si potrebbe dire di vita caratterizza i quindici giudici costituzionali, in un ambiente i cui riti e le cui regole ricordano a taluno, in qualche modo, quelli di un monastero. La conoscenza reciproca (delle rispettive idee, e dei rispettivi caratteri) è, dopo qualche mese, molto intensa. E poiché il mandato di ogni giudice dura nove anni, si può credere che l'esperienza della Corte lasci una forte impronta in chi la compie, e faccia del collegio dei quindici qualcosa di più che la semplice riunione di alcune persone che adottano insieme delle deliberazioni: ne faccia quasi una persona formata da quindici persone. Nella settimana di lavoro collegiale si esaminano prima, normalmente, le cause discusse in udienza pubblica, poi quelle chiamate solo in camera di consiglio. L'esame di una causa può durare pochi minuti, quando il relatore espone una proposta di soluzione che non incontra obiezioni e perciò viene fatta propria immediatamente dalla Corte, o intere giornate, a seconda della complessità e del carattere più o meno controverso delle questioni trattate. I giudici hanno sott'occhio gli atti e il materiale della ricerca. Ma si deve notare che la discussione non si fonda su un progetto di decisione già scritto dal relatore (come accade in altre Corti), e non è quindi orientata da un'ipotesi già formulata. Si inizia con l'esposizione del relatore, che richiama gli eventuali problemi di ammissibilità della questione, e si continua con la discussione, prima sull'ammissibilità stessa e poi sul merito. La relazione si può concludere, secondo la scelta del relatore, con una proposta precisa, o con l'indicazione delle alternative di soluzioni possibili. Quindi intervengono gli altri giudici. Se la questione è di scarso rilievo, può accadere che intervengano solo alcuni di essi; altrimenti, intervengono tutti: l'ordine degli interventi segue l'ordine inverso dell'età anagrafica dei giudici, mentre per ultimo interviene il Presidente. La discussione può continuare, se qualcuno lo chiede, con ulteriori interventi, repliche, richieste di chiarimento o di precisazione. Può anche accadere che qualcuno chieda di differire la discussione a un momento successivo, o di acquisire nuovi elementi per poter approfondire la materia. La discussione comunque non segue necessariamente uno schema fisso: molto dipende dalle richieste dei giudici, oltre che, naturalmente, dalle determinazioni del Presidente che la dirige, ma che a sua volta spesso si rimette alle esigenze espresse dai colleghi. Il relatore può intervenire a dare risposte a singoli interventi, oppure intervenire soltanto alla fine traendo il risultato della discussione e formulando le sue proposte finali, che possono anche non coincidere con quelle eventualmente da lui avanzate all'inizio. È qui, soprattutto, che si misura l'efficacia e l'utilità della discussione collegiale, dalla quale possono emergere sia obiezioni alle tesi del relatore, sia nuove prospettazioni, o semplicemente l'indicazione di ulteriori motivi ed argomenti su cui fondare la decisione. Si deve infatti considerare che la decisione della Corte non si sostanzia solo nel cosiddetto dispositivo della pronuncia (dichiarazione di illegittimità costituzionale, dichiarazione di non fondatezza, dichiarazione di inammissibilità della questione), ma anche e soprattutto nella motivazione che lo sorregge. Ci può essere accordo sul dispositivo, ma dissenso sulle motivazioni. Queste sono importanti soprattutto perché costituiscono più dei dispositivi il nucleo dei precedenti che potranno essere richiamati in occasione di cause che successivamente la Corte sia chiamata a decidere nella stessa o analoga materia; e anche perché allo stesso dispositivo possono corrispondere motivazioni che abbiano contenuti diversi. Ad esempio, è molto diversa una decisione che dichiara una questione non fondata perché l'incostituzionalità denunciata non sussiste, da una che dichiara la stessa questione sempre non fondata, perché la norma impugnata è da interpretare in un senso diverso da quello indicato dal giudice (le sentenze interpretative di cui si è già parlato). Perciò decidere come si motiva è tanto importante quanto decidere se l'incostituzionalità c'è o non c'è. E questo può spiegare anche l'accanimento e la lunghezza di certe discussioni in camera di consiglio.

Decisioni a maggioranza?
Come qualsiasi gruppo di teste pensanti, anche la Corte può dividersi. "Tante teste, tante opinioni". I quindici giudici sono in numero abbastanza elevato da rendere probabili i dissensi, nonostante che tutti facciano riferimento alla stessa Costituzione e che la lunga consuetudine di lavoro comune possa favorire la formazione di vedute comuni. Anche la Corte dunque, come in genere gli organi collegiali, può dover giungere a una decisione sulla base di un voto di maggioranza. Ad un voto formale si arriva solo quando non si manifesta un'unanimità di vedute (ad esempio, nel senso della proposta del relatore) né una nettissima maggioranza di opinioni convergenti, oppure se comunque qualche giudice lo chiede. È il Presidente che indice le votazioni, stabilendo così anche la chiusura della discussione. La pratica della Corte, pur essendo variabile a seconda dello stile della Presidenza e degli orientamenti dei giudici, è fondamentalmente orientata nel senso della ricerca, fin quando è possibile, di una convergenza, se non unanime, il più possibile larga di opinioni. Per questo, talvolta, la discussione si prolunga per approfondire l'ipotesi di eventuali soluzioni di compromesso o che, comunque, siano in grado di evitare divisioni laceranti all'interno del collegio. Spesso il compromesso può consistere in una soluzione che non chiude definitivamente la questione per l'avvenire (ad esempio, questione dichiarata inammissibile anziché non fondata) o in una linea di motivazione meno drastica, o nell'inserire nella decisione qualche cautela limitativa di certe affermazioni. È verosimile immaginare che questa pratica sia anche legata all'attuale mancanza d'uno strumento, attraverso cui i giudici dissenzienti dalla maggioranza possano far constare il loro dissenso (le cosiddette opinioni dissenzienti, che nell'esperienza di altre Corti costituzionali sono invece pubblicate con la decisione della maggioranza). La prassi della Corte è di decidere sulla proposta finale del relatore; talvolta, se è emersa una questione preliminare (per esempio, di ammissibilità) si vota prima sulla proposta del relatore in ordine a questa e poi, se è il caso, sulla proposta di merito. Se il relatore ha prospettato diverse soluzioni, indicandole in un ordine di preferenza, si segue quest'ordine. Si può dire che sia questo il maggior potere di cui dispone il relatore, la cui personalità può talora pesare nel condurre alla formazione di una maggioranza nel senso da lui prospettato. Tutti i giudici presenti alla discussione debbono votare a favore o contro la proposta messa ai voti: non è consentito astenersi. Non solo, ma tutti i giudici presenti all'inizio della trattazione della causa (in udienza pubblica, o in camera di consiglio) debbono partecipare alla deliberazione sino alla fine: non è possibile dunque, come invece accade nelle assemblee politiche, "uscire dall'aula", cioè non partecipare al voto; né è comunque possibile che la composizione concreta del collegio cambi nel corso della discussione della stessa causa. Se il collegio, in concreto, è costituito da un numero pari di componenti (il numero minimo, come sappiamo, è undici; quindi, se è costituito da dodici o da quattordici componenti) e nel voto essi si dividono esattamente a metà, l'esito della votazione è determinato dal voto del Presidente (o di chi comunque presiede la seduta). Questa è l'unica occasione nella quale il Presidente esercita un potere maggiore degli altri giudici: per il resto, il suo voto conta come quello degli altri. La sua influenza di fatto può naturalmente discendere dalla sua autorevolezza nei confronti dei colleghi, ma nel ristretto collegio della Corte non vi sono "gerarchie" interne, solo diverse personalità e, semmai, diverse opinioni.

La redazione della pronuncia
Con la decisione e con l'eventuale voto in camera di consiglio non si è ancora compiuto l'itinerario del giudizio della Corte. La pronuncia non c'è ancora, ci sarà solo nel momento in cui essa sarà stata scritta, approvata, firmata e il suo originale sarà stato depositato nella cancelleria della Corte. La fase che segue la decisione è dunque di grande rilievo: è in essa che prende corpo la motivazione della pronuncia, di cui già abbiamo sottolineato l'importanza. Normalmente è incaricato della redazione della sentenza (o dell'ordinanza) il giudice che è stato relatore della causa. Ma che succede se il relatore (come accade, non del tutto raramente) è rimasto in minoranza? La prassi quasi costante è che il relatore, pur dissenziente, scriva la sentenza, ovviamente esponendo motivazioni idonee a giustificare il dispositivo. Qualche, rara, volta avviene che il relatore dissenziente, per ragioni di "coscienza costituzionale", preferisca non redigere la sentenza: in questo caso il Presidente affida l'incarico di scriverla ad un altro giudice, scelto fra coloro che hanno condiviso la decisione, salvo che non intenda scriverla egli stesso.

La lettura della decisione
Se la decisione deve essere tradotta in una sentenza, il giudice incaricato redige il testo e lo distribuisce a tutti i colleghi. Dopo di che, in occasione di una successiva riunione in camera di consiglio (spesso vi si dedica la seduta del lunedì pomeriggio, antecedente l'udienza pubblica del martedì, o le ultime sedute della settimana), si procede alla lettura collegiale del testo distribuito. Il redattore legge la motivazione (in genere, la parte in "diritto", cioè quella che contiene le ragioni giuridiche della decisione, non la parte in "fatto", nella quale si riferiscono soltanto i termini della questione e le argomentazioni dei vari soggetti eventualmente intervenuti): al termine della lettura, i componenti del collegio (ciascuno dei quali ha il testo davanti) esprimono le loro eventuali obiezioni od osservazioni: prima, se ve ne sono, sull'impianto generale della motivazione, poi seguendo il testo pagina per pagina. Si discute su eventuali modifiche, o aggiunte, o soppressioni di argomenti, di frasi, anche di singole parole, finché non si perviene ad un accordo, o fino a quando comunque viene definito un testo, anche eventualmente a maggioranza. Può anche accadere che la maggioranza, non condividendo il testo della motivazione, inviti il redattore a presentarne un altro, o a formulare qualche parte modificata o aggiunta: in questo caso la lettura viene rinviata finché non è pronto e distribuito il nuovo testo. Come si vede, anche in questa fase si ha discussione e piena collegialità di lavoro. I giudici che hanno dissentito rispetto alla decisione possono interloquire e fare in modo che nella motivazione si tenga in qualche modo conto delle loro opinioni o preoccupazioni: il che ancora una volta favorisce la possibilità di raggiungere, se possibile, motivazioni "di compromesso", o comunque prive di affermazioni particolarmente controverse nell'àmbito del collegio; qualche volta può condurre anche come gli osservatori critici non mancano di notare a motivazioni meno nette o più laconiche, "sfuggenti" rispetto a quanto sarebbe stato se si fosse verificato un largo consenso nel collegio. Non si deve mai dimenticare che la sentenza è il prodotto di una deliberazione collegiale, non della sola opinione del redattore (che talora, addirittura, è dissenziente, come si è detto), e che lo stesso redattore, nello scriverla, si sforza di esprimere le opinioni anche degli altri giudici e di raccogliere quanto è emerso dalla discussione. Perciò sbagliano i commentatori quando personalizzano eccessivamente la decisione, addebitandola (o accreditandola) al giudice redattore, quasi che a lui solo o essenzialmente a lui risalissero le opinioni e gli argomenti esposti, e non alla intera Corte. Naturalmente, essendo il testo base scritto da un solo giudice, una sua impronta almeno stilistica in genere rimane, e la linea argomentativa riflette fondamentalmente quella da lui proposta (però sempre interpretando la volontà collegiale). Ma è abbastanza frequente che il testo finale contenga meno di quanto il redattore aveva proposto, perché vengono fatte cadere affermazioni più controverse o ritenute dal collegio meno opportune, ovvero contenga anche passaggi o argomenti o sfumature di argomenti che il redattore non aveva originariamente prospettato e che provengono dalla discussione collegiale. Questo modo di procedere spiega perché, talvolta, la discussione sul testo della sentenza può impegnare la Corte quanto e addirittura più che non la prima discussione sulla decisione da adottare: poiché, come si è detto, in una sentenza costituzionale la motivazione può avere importanza essenziale. Il procedimento decisionale in due fasi (decisione della causa e successiva deliberazione del testo della sentenza) comporta che come già accennato la pronuncia della Corte esista, giuridicamente, solo dopo che il testo definitivo della sentenza sia stato deliberato, sottoscritto e depositato. Fino a quel momento, può anche accadere che la Corte ritorni sulla sua prima decisione, modificandola e perfino rovesciandola, se, nelle discussioni successive, emerge che la decisione adottata non è la più corretta. Lo stesso redattore talvolta, nello scrivere la motivazione, si avvede che vi sono difficoltà logiche o giuridiche a motivare la decisione assunta, o emergono obiezioni di cui non si era tenuto conto: egli può allora proporre al collegio di modificarla. La prassi della Corte è nel senso che la decisione già assunta specie se votata, sia pure a maggioranza può essere modificata solo se nessuno dei componenti del collegio si oppone (altrimenti, come è ovvio, si aprirebbe la strada ad un processo decisionale senza fine). Se, diversamente, la decisione assunta deve essere tradotta in una ordinanza (succintamente ma adeguatamente motivata, trattandosi di una pronuncia che afferma la "manifesta infondatezza" o la "manifesta inammissibilità" della questione di costituzionalità), il testo scritto dal giudice redattore viene distribuito a tutti i giudici e se nessuno formula obiezioni, anche per iscritto, entro alcuni giorni dalla distribuzione, l'ordinanza viene sottoscritta dal Presidente e dal giudice redattore, e depositata in cancelleria, divenendo così definitiva e pubblica. Ogni giudice può però fare osservazioni e proporre modifiche, finché non si perviene al testo definitivo.

Opinioni dissenzienti
Presso Corti costituzionali o diversi organi giudiziari di altri paesi è previsto che i componenti del collegio, i quali dissentano sulla decisione o anche solo sulla motivazione, possano redigere e far pubblicare insieme alla sentenza le proprie opinioni scritte, dissenzienti o concorrenti (queste ultime quando il dissenso è solo sulla motivazione, condividendosi la decisione). Nei paesi anglosassoni, ciò discende anche dalla impostazione tradizionale per cui le decisioni giudiziarie di organi collegiali non constano di un testo unitario, ma risultano dalla somma (unanimemente convergente, o risultante solo 56 dalla maggioranza) delle "opinioni" redatte dai singoli giudici. In altri paesi di tradizione diversa si ammette che le opinioni o voti particolari, diversificati rispetto all'orientamento della maggioranza, possano trovare espressione. Nella giurisprudenza di queste Corti sono rappresentate dunque non solo le posizioni della maggioranza, ma anche quelle dissenzienti o particolari: e può accadere che, a distanza di tempo, la linea espressa in una opinione dissenziente sia accolta, in un altro caso, dalla maggioranza della Corte, portando così a un'evoluzione degli indirizzi giurisprudenziali. In Italia, finora, non è stata ammessa questa pratica, prevalendo l'idea tradizionale che la pronuncia giudiziaria è unica e impersonale, anche se di fatto può risultare da un processo decisionale collegiale in cui non tutti i membri del collegio sono stati concordi. Di più, su ciò che avviene in camera di consiglio, e dunque sui contrasti manifestatisi, sulle proposte fatte e non accolte, sugli argomenti non riportati nella motivazione, si mantiene uno stretto riserbo; così che, quando i giornali riportano che la Corte si è divisa in un certo modo, che la decisione è stata assunta con una certa maggioranza, ecc., lo fanno solo sulla base di indiscrezioni o illazioni: ufficialmente non è possibile sapere se una decisione è stata assunta all'unanimità o a maggioranza, con quale maggioranza, e chi l'ha votata. Da tempo si discute, sia in sede dottrinale, sia in sede legislativa, sia nell'àmbito della stessa Corte (la quale, secondo molti, potrebbe disciplinare da sé la materia, facendo uso della propria competenza regolamentare), dell'opportunità di introdurre l'istituto della "opinione dissenziente" nei giudizi costituzionali, e delle eventuali modalità con cui ciò potrebbe avvenire. Esiste però un contrasto di valutazioni sull'opportunità di tale riforma. A favore, si dice che essa potrebbe favorire la scrittura di motivazioni più esplicite, in cui le ragioni che sorreggono la decisione risultino con maggiore nettezza, attraverso il confronto con i motivi addotti da chi sostiene una soluzione diversa. Inoltre la critica, sempre possibile, delle decisioni della Corte potrebbe più facilmente passare dal piano della contestazione aprioristica a quello del confronto argomentativo, sfatando anche l'immagine, talvolta accreditata, di un gruppo di giudici che prevale con la sola forza dei numeri o in nome di posizioni precostituite. In senso contrario, si avanza il timore di un'eccessiva personalizzazione dei giudizi, dell'esposizione dei singoli giudici a pressioni esterne, nonché dell'indebolimento dell'autorità delle decisioni e dello sforzo di ricerca di soluzioni il più possibile condivise all'interno della Corte.
La Corte e le altre Corti
Le Corti "sorelle"
La giustizia costituzionale non è un fatto specificamente italiano. Più volte abbiamo sottolineato che la Corte costituzionale italiana, pur collocandosi nel quadro di precise e specifiche regole della Costituzione della Repubblica, ha una fisionomia e un ruolo analoghi a quelli di organi simili (Corti o Tribunali costituzionali, Corti supreme) presenti in altri ordinamenti, che svolgono compiti paragonabili. Si è osservato anche che, nel suo lavoro, la Corte non trascura l'esperienza degli altri paesi. Da tempo si sono sviluppate relazioni di scambio e di collaborazione con questi organi, soprattutto europei, ma anche di altre parti del mondo, tra cui in particolare quelli dell'area ispanico-americana, in cui la cultura giuridica italiana esercita influenza significativa (la nostra Corte ha sottoscritto, ad esempio, un accordo di collaborazione con il Tribunale costituzionale del Cile, nonché con la Suprema Corte di Giustizia della Nazione degli Stati Uniti del Messico). Le relazioni più intense riguardano le Corti costituzionali europee simili alla nostra per storia ed esperienza (la Corte costituzionale federale tedesca, il Tribunale costituzionale austriaco, il Consiglio costituzionale francese, il Tribunale costituzionale spagnolo, quello portoghese: con gli ultimi due la Corte ha formalizzato i rapporti con uno specifico accordo trilaterale che prevede incontri annuali tra Giudici e scambi di documentazione). Contatti sono stati altresì instaurati con la Corte costituzionale della Federazione russa, con la quale è stata stipulata una convenzione. Più di recente scambi di documentazione e incontri sono intercorsi con la Suprema Corte costituzionale della Repubblica araba d'Egitto e con la Corte costituzionale della Repubblica d'Albania, con le quali è stato firmato un accordo. In Europa opera da molti anni la Conferenza europea delle Corti costituzionali, che organizza, fra l'altro, un congresso ogni tre anni, e di cui oggi fanno parte organismi di circa quaranta Paesi. Da ultimo, nei giorni 12 e 13 maggio 2014, si è tenuto a Vienna il XVI Congresso della Conferenza dedicato al tema «La cooperazione tra le Corti costituzionali in Europa. Situazione attuale e prospettive». Hanno preso parte all'incontro, accanto alle Corti che sono membri a pieno titolo della Conferenza, anche Corti di altri Paesi, in veste di osservatori. A livello più ampio dell'Europa opera l'Associazione delle Corti costituzionali dei paesi che usano la lingua francese, creata per iniziativa del Consiglio costituzionale francese. Essa raggruppa Corti, oggi, di più di quaranta paesi, venticinque dei quali sono africani, e l'elemento linguistico cui essa si richiama (la francofonia) non impedisce la collaborazione a vario titolo anche di organismi di paesi di lingua diversa dal francese, come la nostra Corte. I rapporti fra le Corti sono agevolati anche dall'opera della Commissione per la democrazia attraverso il diritto, cosiddetta "Commissione di Venezia" per via della sede dei suoi lavori, istituita dal Consiglio d'Europa col proposito di diffondere la conoscenza dei sistemi giuridici dei diversi Paesi europei, soprattutto, originariamente, nel processo di democratizzazione degli Stati dell'Europa orientale, e di studiare i problemi che possono insorgere nel funzionamento delle loro istituzioni. Tale Commissione riserva particolare attenzione alla giustizia costituzionale, e la nostra Corte le offre un valido contributo fondato sulla propria, ormai sessantennale, esperienza.

Le Corti internazionali e sovranazionali
Rapporti di collaborazione e di scambio esistono anche con le Corti internazionali che operano in campi affini a quello della Corte costituzionale. Così la Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, la quale giudica, su istanza anche dei singoli interessati, sulle violazioni dei diritti umani garantiti dalla Convenzione europea del 1950 che si verificano nell'ambito dei singoli Stati membri (oggi sono 47 Stati europei), senza che le vie di ricorso offerte dall'ordinamento interno dello Stato vi abbiano posto rimedio. Poiché il contenuto dei diritti garantiti dalla Convenzione europea non è sostanzialmente molto diverso da quello dei diritti garantiti dalla Costituzione, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Corte costituzionale affrontano talora gli stessi problemi (e non è esclusa anche la possibilità di contrasti fra le due giurisprudenze). La differenza fondamentale è che la nostra Corte si occupa solo delle leggi, per verificare se sono in armonia con la Costituzione, mentre la Corte di Strasburgo si occupa non delle leggi, ma di casi concreti in cui viene denunciata la violazione di un diritto, indipendentemente dal fatto che essa dipenda dall'esistenza di una legge o invece da cattiva applicazione delle leggi o da abusi od omissioni delle autorità nazionali, o da altri difetti di funzionamento del sistema interno (come nel caso delle frequenti denunce portate a Strasburgo per la durata irragionevolmente lunga di processi giudiziari in Italia). La Corte europea non può però sostituirsi alle autorità nazionali: può solo condannare lo Stato a rimediare alla violazione del diritto, se possibile, o a pagare una somma al danneggiato a titolo di riparazione. A partire dal 2007 (sentenze nn. 348 e 349), la Corte costituzionale, facendo leva sul primo comma dell'art. 117 della Costituzione (nel nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001), dichiara illegittime le leggi nazionali in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione ad essa data dalla Corte di Strasburgo. Un'altra Corte sovranazionale con cui la nostra entra in rapporto è la Corte di giustizia dell'Unione europea, che siede a Lussemburgo. È in un certo senso anch'essa una Corte costituzionale, che però si occupa essenzialmente degli atti posti in essere dalle autorità dell'Unione, o delle violazioni del diritto "eurounitario" da parte degli Stati membri. I princìpi di fondo del diritto dell'Unione sono quelli espressi nei trattati europei e quelli derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, e quindi normalmente dovrebbe esservi convergenza e non contraddizione fra i due ordinamenti. Ma diritto dell'Unione e diritto interno degli Stati membri si incontrano e si intrecciano oggi sempre più frequentemente e strettamente. Va ricordato che l'Unione europea ha formulato pure essa, a Nizza, una carta di diritti fondamentali, cui fa riferimento, incorporandola, il Trattato di Lisbona sull'Unione Europea, in vigore dal 1° dicembre 2009. Possono sorgere anche contrasti fra le Corti interne e quella europea sulla delimitazione delle rispettive competenze. Finora però, pur ragionando in modi diversi, Corte costituzionale e Corte di giustizia hanno evitato gravi conflitti fra le rispettive decisioni (la Corte ha, anzi, per la prima volta nel 2008, con l'ordinanza n. 103, sottoposto alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, alcune questioni di interpretazione di norme del 60 Trattato CE). In definitiva, attraverso la migliore conoscenza reciproca e la cooperazione internazionale delle Corti, si rafforzano i presupposti perché gli ideali e i princìpi del costituzionalismo diritti e doveri della persona, equilibrio fra i poteri, garanzie di giustizia si affermino e si rafforzino in tutto il mondo.
Conclusione
La Corte e la Costituzione
La conoscenza delle istituzioni che reggono il paese, da parte dei cittadini di una società democratica, è premessa indispensabile perché le istituzioni non siano viste e vissute come corpi estranei e lontani, che riguardano solo gli "addetti ai lavori". Anche la giustizia costituzionale non è "affare" per iniziati, ma uno degli istituti fondamentali attraverso cui la società democratica si organizza e si governa. Essa quindi riguarda tutti i cittadini. Perciò abbiamo proposto questo scritto, destinato a tutti i nostri concittadini. La Corte non è una assemblea politica, ma non è neppure un asettico consesso di tecnici che si pronunciano su questioni che interessano solo gli specialisti. I suoi giudici non vengono chiamati a esercitare il loro compito dal voto degli elettori, ma come già detto non sono lontani ed estranei alla vita democratica del paese e ai suoi problemi, molti dei quali si manifestano anche come problemi di costituzionalità. E la Costituzione è lo strumento che, nel mutevole volgersi delle decisioni e degli indirizzi politici, e nel permanente rinnovarsi del confronto sociale, serve a mantenere saldi e stabili i riferimenti comuni a tutti, maggioranze e minoranze, necessari per il paese. È stato detto: "La Costituzione è il documento che un popolo si dà nel momento della saggezza, a valere per il momento della confusione". L'intervento di garanzia della Corte costituzionale non è espressione dunque di un'arbitraria volontà che si impone a tutti, a esprimere la quale i giudici non avrebbero alcun titolo di legittimazione, ma vale a garantire il rispetto, anche da parte di chi forma e applica la legge, dei confini oltre i quali tale saggezza sarebbe perduta. Nel continuo confronto delle opinioni, nello svolgersi nel tempo della giurisprudenza e nell'ascolto delle esigenze culturali e sociali che, sempre in modo nuovo, vanno manifestandosi, la giustizia costituzionale rappresenta una espressione fondamentale dello spirito e degli ideali che il nostro Paese si è dato con la Costituzione.
Appendici
Breve storia del Palazzo
La costruzione della nuova "Fabbrica della Sagra Consulta" fu deliberata nella primavera del 1732 per volere di papa Clemente XII, il fiorentino Lorenzo Corsini, allo scopo di edificare un «nuovo e magnifico» palazzo in sostituzione di quello più piccolo e malandato che già ospitava la Congregazione della Sacra Consulta, organo della giustizia ordinaria, civile e penale, dello Stato pontificio. La progettazione e l'esecuzione furono affidate al geniale architetto Ferdinando Fuga, fiorentino anch'egli, presto chiamato a Roma quale architetto dei Palazzi apostolici. Fuga contribuì in modo decisivo all'ancora attuale sistemazione del colle del Quirinale e della piazza, perché oltre al Palazzo della Consulta completò le Scuderie del Quirinale e affiancò alla facciata laterale del Palazzo del Quirinale l'ala detta "Manica lunga", che si sviluppa per ben 360 metri. Realizzare il Palazzo della Consulta comportava numerosi problemi, da quelli finanziari a quelli ingegneristici. I primi furono risolti in modo brillante, e anche spregiudicato, grazie ad alcuni "tagli alla spesa pubblica" (come diremmo oggi) e soprattutto grazie ai proventi del gioco del Lotto, ripristinato per l'occasione con la revoca del divieto e della pena della scomunica. Più complessi, forse, i problemi geologici e idraulici, per la ricchezza d'acqua e la friabilità del terreno: qui sorgevano infatti le Terme dell'imperatore Costantino a Montecavallo, l'antico nome del colle del Quirinale, derivante dalle statue dei Dioscuri Castore e Polluce, scolpiti nell'atto di domare i cavalli: statue del III secolo, collocate nelle terme e ancora oggi al centro della piazza. C'era poi un ulteriore problema, dalla cui soluzione derivano in larga misura la particolarità e il pregio del Palazzo della Consulta: nel nuovo edificio avrebbero dovuto trovare sistemazione adeguata alla dignità cardinalizia, non soltanto la ricordata Congregazione ma anche la Segnatura de' Brevi, che redigeva lettere e "brevi" pontifici (soprattutto indulgenze e dispense papali) e anch'essa affidata a un cardinale. Tutto questo in un sito a forma trapezoidale, nel quale solo il lato maggiore, per dimensioni e caratteristiche del terreno, avrebbe potuto costituire la facciata principale. Ferdinando Fuga risolse il problema degli spazi articolando il palazzo in due parti uguali e con appartamenti identici al piano nobile, sul lato prospiciente la piazza del Quirinale, raggiungibili attraverso un unico scalone d'onore rivolto verso il cortile sul quale si affaccia con grandi finestre e formato da due gradinate simmetriche, che si congiungono ai piani ammezzati e che nell'ultimo tratto sono state prolungate fino al Salone del Belvedere posto all'ultimo piano, dal terrazzo del quale si gode uno dei migliori panorami della Capitale. Nonostante le difficoltà (occorse un anno per la posa delle fondazioni) già nel dicembre 1734 era completa la copertura del tetto e poco dopo, al centro della balaustra del terrazzo del Belvedere, fu posta la grande scultura in marmo di Carrara, opera del napoletano Paolo Benaglia, con lo stemma pontificio sostenuto da due statue alate. Nella primavera '37 si conclusero i lavori e più tardi, sul portone della facciata principale (già sormontato da un altro grande stemma pontificio), furono poste le statue della Giustizia e della Religione, attribuite allo scultore lombardo Giovanni Battista Maini. In origine il palazzo era di colore azzurro molto chiaro, detto "color aria", al quale l'odierno bianco panna, scelto alcuni anni fa in occasione del restauro delle facciate, è certo molto più fedele rispetto agli intonaci giallo ocra e "terra romana", dei quali si è fatto larghissimo uso negli edifici istituzionali a partire dall'800. Per descrivere ambienti, affreschi e arredi del palazzo, e in particolare del secondo piano (il piano nobile), bisogna tener conto delle sue diverse destinazioni nel tempo alle quali si è peraltro fatto cenno nel capitolo iniziale e in particolare del pur breve periodo, tra il 1871 e il 1874, nel quale divenne la residenza dei principi ereditari Umberto e Margherita di Savoia. A quel tempo risalgono alcuni interventi edilizi, come l'ampliamento del salone delle feste (l'attuale Sala delle udienze), e molti nuovi affreschi delle volte e di alcune pareti nelle sale e stanze degli ex appartamenti cardinalizi, affreschi affidati ad artisti già all'opera nel Palazzo del Quirinale. Nella storia del palazzo si distinguono tre stratificazioni pittoriche. La prima, in gran parte perduta, risale al tempo della costruzione e fu opera di Antonio Bicchierai e Domenico Piastrini. Del primo si sono conservati alcuni pregevoli affreschi, e in particolare la Magnificenza sul soffitto del Salotto verde, che collega il Salotto rosso, destinato al Presidente, con il Salone pompeiano dove la Corte si riunisce in Camera di consiglio. La seconda stratificazione risale al pontificato di Papa Braschi (Pio VI), ed è perciò dell'ultima parte dello stesso '700, opera del lucchese Bernardino Nocchi, che in parte è andata perduta a causa delle sovrapposizioni avvenute nel periodo sabaudo. Restano però quasi integri i suoi dipinti nel Salone pompeiano, con le cinque tempere sulla volta, che illustrano il Ratto di Proserpina, e le decorazioni alle pareti, affreschi grotteschi in stile pompeiano. Pregevoli anche le quattro virtù cardinali sulle volte di una delle sale poste lungo le facciate laterali (ciascuna delle quali è oggi adibita a studio dei giudici). Il terzo periodo pittorico è quello sabaudo, ed è opera di Cecrope Barilli, Annibale Brugnoli e Domenico Bruschi. Del parmense Barilli è il dipinto nella volta dello studio del Presidente, La Luce che sconfigge le Tenebre, mentre è di Domenico Bruschi La Pace, nella volta dell'adiacente Salotto rosso. A questo periodo risalgono anche i trofei floreali e gli stemmi sabaudi diffusi un po' dappertutto, e che in particolare affrescano l'intero soffitto della Sala delle udienze. Semplici, geometrici affreschi parietali della stessa epoca sabauda sono stati recuperati e restaurati, dopo essere rimasti coperti, durante il '900, dal damasco di seta color oro, dal quale derivava il nome di Sala gialla finora attribuito alla Sala delle udienze. Sulle tre pareti interne si trovano altrettanti pregevoli quadri, tra i quali una Madonna con il bambino di Rubens. Tra gli altri quadri esposti nel palazzo, il bellissimo trittico di Giacomo Balla, Il Maggio, del primo Novecento, e la grande tela ottocentesca di Giovanni Fattori, Cavalleggeri in campagna durante la II guerra d'Indipendenza (il cui armistizio, a Villafranca, fu firmato da Napoleone III e Francesco Giuseppe utilizzando il calamaio che oggi si trova sullo scrittoio del Presidente della Corte) e le Nozze di Cana del Tintoretto. Di grande pregio e valore i tre arazzi alle pareti dell'anticamera del Presidente: uno del XVI secolo, della manifattura di Bruxelles, raffigura Romolo e Remo con la lupa romana; gli altri due sono manifatture francesi del XVIII secolo, con la storia di David e Salomone, re di Israele. Il busto bronzeo del primo Presidente della Corte, Enrico De Nicola e quelli marmorei di protagonisti del Risorgimento (Cavour, D'Azeglio e Ricasoli), insieme con quadri, specchiere, lampadari di Murano, sono posti nei salottini che si aprono lungo i corridoi del piano nobile. Tra gli oggetti preziosi, basti qui ricordare la portantina cardinalizia e l'orologio di porcellana francese, che si ammirano nel Salotto rosso presidenziale.