Ritenuto in fatto
1. - In un procedimento promosso per l'ammissione al regime di
affidamento in prova al servizio sociale o, in alternativa, a quello
di semilibertà da un condannato alla pena di due anni e sei mesi di
reclusione per i reati di associazione per delinquere mafiosa e
detenzione di sostanze stupefacenti, il Tribunale di sorveglianza di
Bari, rilevato che, pur dovendosi escludere che l'istante mantenesse
collegamenti con la criminalità organizzata, ostavano alla
concessione dei benefici la condanna per il primo dei predetti reati,
in mancanza del presupposto della collaborazione con la giustizia
previsto dal primo comma, primo periodo, dell'art. 4- bis della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come
sostituito dall'art. 15, primo comma, lettera a), del decreto-legge 8
giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, o
di quello del riconoscimento delle circostanze attenuanti considerate
dal primo comma, secondo periodo del predetto articolo, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 27 Cost., questione di
legittimità delle riferite disposizioni dell'ordinamento
penitenziario.
In particolare, a parere del giudice a quo, la previsione del
secondo periodo del primo comma dell'art. 4-bis, che subordina la
concedibilità dei benefici carcerari ai condannati per taluno dei
reati "ostativi" di cui al primo periodo del medesimo comma alla
condizione che a tali soggetti, pur in presenza di una collaborazione
oggettivamente irrilevante, sia stata applicata una delle circostanze
attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6, 114 o 116, secondo comma, del
codice penale, contrasta con il principio di uguaglianza sancito
dall'art. 3 Cost., in quanto opera una irragionevole discriminazione
tra condannati che abbiano ugualmente avuto una partecipazione
all'attività delittuosa del tutto secondaria (come nel caso
dell'istante, significativamente condannato a una pena modesta in
relazione al titolo del reato), tale da non consentire una concreta
possibilità di utile collaborazione con la giustizia; e ciò sia
perché il riconoscimento delle specifiche attenuanti considerate
dalla norma non esaurisce l'area delle situazioni di marginalità
della partecipazione a sodalizi criminosi sia perché una di esse -
quella del risarcimento del danno - introduce una ulteriore
discriminazione tra soggetti a seconda delle loro capacità
economiche, senza peraltro rivestire alcun significato ai fini della
valutazione del grado di pericolosità sociale del condannato e,
quindi, della giustificabilità della irrilevanza del suo apporto
collaborativo.
La disposizione del primo periodo del primo comma sarebbe poi in
contrasto, in primo luogo, sia con il diritto di difesa tutelato
dall'art. 24 Cost. sia con i princìpi di uguaglianza e
ragionevolezza implicati dall'art. 3 Cost.: quanto al primo
parametro, perché la concedibilità dei benefici solo ai soggetti
collaboranti potrebbe indurre l'imputato, anche se innocente, a
dichiarare falsamente la sua colpevolezza, così tra l'altro da
intralciare il retto cammino della giustizia e il perseguimento delle
reali responsabilità penali; quanto al principio di uguaglianza,
perché il condannato innocente impossibilitato a collaborare viene
ad essere discriminato rispetto a chi, realmente criminale, è in
grado di tenere questo atteggiamento; quanto al principio di
ragionevolezza, perché la previsione condiziona irragionevolmente le
scelte difensive, nella fase della cognizione, al trattamento
penitenziario.
Secondo il remittente, inoltre, la medesima disposizione,
estendendo la sua portata applicativa al passato, e in particolare
anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (come nel
caso di specie, trattandosi di reato consumato nel 1989) contrasta
con il divieto di retroattività della legge penale, stabilito
dall'art. 25 Cost., dovendosi riconoscere alle norme dell'ordinamento
penitenziario natura sostanziale, atteso che la pena viene ad essere
specificata nel suo contenuto e nella sua concreta afflittività
proprio dalle disposizioni che regolano il trattamento esecutivo, in
genere, e da quelle relative alle misure alternative alla detenzione,
in specie. Nel caso di specie, si osserva, all'istante è stata
sottratta la possibilità di prevedere le conseguenze, in termini di
accesso ai benefici penitenziari, derivanti dalla sua condotta
processuale.
Infine, ad avviso del Tribunale, la previsione del primo periodo
del primo comma può ritenersi ledere il principio della finalità
rieducativa della pena di cui all'art. 27 Cost.. Essa, infatti,
vanifica, in mancanza del presupposto della collaborazione, ogni
prospettiva di reinserimento del condannato nel tessuto sociale
durante la espiazione della pena, rendendo così irrilevante la
partecipazione al processo di rieducazione che il medesimo può
compiere dopo la condanna.
2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, che ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate.
Circa l'osservazione del remittente, secondo cui la disciplina in
esame non dà rilievo alla collaborazione oggettivamente irrilevante
al di fuori delle circostanze specificamente individuate dal
legislatore, l'Avvocatura sostiene che tale limitazione non è
irragionevole, considerata anche l'assimilazione a tale presupposto
della "collaborazione impossibile" affermata dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 306 del 1993.
Sarebbero infondati anche i dubbi di costituzionalità sollevati
con riferimento agli altri parametri.
Secondo la difesa del Governo, è contraddittorio fondare la
lesione dell'art. 24 Cost. sull'ipotesi di un imputato
impossibilitato a collaborare in quanto innocente, poiché tale
situazione è coperta dal giudicato di condanna, salvi gli istituti
previsti dall'ordinamento per rimediare all'errore giudiziario.
Non verrebbe in causa nemmeno il principio di irretroattività
della legge penale, perché, come sarebbe desumibile dalla citata
sentenza della Corte, in sede di ammissione ai benefici il giudice si
limita a valutare il comportamento del condannato alla stregua di
indici di pericolosità legalmente prefissati.
Infine, conclude l'Avvocatura, la questione è infondata anche
sotto il profilo dell'art. 27 Cost., in quanto, sempre alla stregua
dei princìpi affermati dalla sentenza n. 306, la finalità
rieducativa della pena va coordinata con la considerazione del grado
di pericolosità del condannato, sicché è ragionevole che il
legislatore riduca o circoscriva l'ambito di applicazione di certi
benefici subordinandoli al verificarsi di determinati presupposti.
3. - La parte privata ha depositato fuori termine atto di
costituzione nel giudizio, a sostegno della tesi della natura di
legge penale sostanziale delle norme disciplinanti le misure alternative alla detenzione.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di sorveglianza di Bari dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, secondo periodo, della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
come sostituito dall'art. 15, primo comma, lettera a), del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di
procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che subordina
la concedibilità dei benefici carcerari ai condannati per taluno dei
delitti "ostativi" indicati nel primo periodo del medesimo comma alla
condizione che a tali soggetti, pur in presenza di una collaborazione
oggettivamente irrilevante, sia stata applicata una delle circostanze
attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6, 114 o 116, secondo comma, del
codice penale. Più precisamente, l'organo remittente rileva il
contrasto di tale previsione con il principio di uguaglianza sancito
dall'art. 3 Cost., per l'irragionevole discriminazione tra condannati
che abbiano ugualmente avuto una partecipazione all'attività
delittuosa del tutto secondaria, tale da non consentire una concreta
possibilità di utile collaborazione con la giustizia; e ciò sia
perché il riconoscimento delle specifiche attenuanti considerate
dalla norma non esaurisce l'area delle situazioni di marginalità
della partecipazione a sodalizi criminosi sia perché una di esse -
quella del risarcimento del danno - introduce una ulteriore
discriminazione tra soggetti a seconda delle loro capacità
economiche, senza peraltro rivestire alcun significato ai fini della
valutazione del grado di pericolosità sociale del condannato e,
quindi, della giustificabilità della irrilevanza del suo apporto
collaborativo.
Il Tribunale sottopone altresì a scrutinio di costituzionalità
la previsione di cui al primo periodo del medesimo art. 4-bis, primo
comma, della legge n. 354 del 1975, che, relativamente ai condannati
per taluno dei delitti ivi indicati, subordina la concedibilità dei
benefici carcerari alla collaborazione con la giustizia. È al
riguardo dedotto il contrasto con l'art. 24 Cost., perché la
concedibilità dei benefici solo ai soggetti collaboranti potrebbe
indurre l'imputato, anche se innocente, a dichiarare falsamente la
sua colpevolezza; con l'art. 3 Cost., sotto il profilo sia della
disparità di trattamento, perché il condannato innocente
impossibilitato a collaborare viene ad essere discriminato rispetto a
chi, realmente criminale, è in grado di tenere questo atteggiamento,
sia della irragionevolezza, perché condiziona le scelte difensive,
nella fase della cognizione, al trattamento penitenziario; con l'art.
25 Cost., perché, estende la sua portata applicativa al passato,
dovendosi riconoscere alle norme dell'ordinamento penitenziario
natura penale sostanziale; e, infine, con l'art. 27 Cost., perché
vanifica, in mancanza del presupposto della collaborazione, ogni
prospettiva di reinserimento del condannato nel tessuto sociale
durante la espiazione della pena.
2. - La questione relativa al secondo periodo del primo comma
dell'art. 4- bis dell'ordinamento penitenziario è fondata.
Nell'illustrare per il Senato le finalità della disciplina sul
divieto di concessione dei benefici contenuta nel nuovo testo
dell'art. 4-bis, modificato dal decreto-legge n. 306 del 1992, il
Relatore (atto n. 328) osservava che non era "solo il contributo più
o meno significativo alle indagini a costituire il fulcro
dell'intervento governativo"; e che ciò "che le norme hanno inteso
esprimere è che, attraverso la collaborazione, chi si è posto nel
circuito della criminalità organizzata può dimostrare per facta
concludentia di esserne uscito". Ciò doveva considerarsi in armonia
con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena
"perché è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza
quella volontà di emenda che l'intero ordinamento penale deve
tendere a realizzare". Si aveva d'altro canto cura di precisare che
la "via del ravvedimento operoso ( ..) è aperta a tutti", purché si
tratti di scelta inequivoca: "o continuare a percorrere le vie della
criminalità organizzata o scegliere la strada della società
civile".
Quanto alla disposizione impugnata, essa trae origine da un
emendamento, apportato al testo del decreto-legge n. 306 dalla
Commissione Giustizia del Senato, avente la finalità, sempre per
usare le parole del relatore, "di contemperare l'esigenza di
severità cui si ispira il decreto-legge con quella di non dettare
disposizioni criticabili sul piano della legittimità
costituzionale".
Con questa previsione sono stati normativamente definiti i casi in
cui la rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata può
essere accertata anche prescindendo dal requisito della
collaborazione rilevante (come definita dall'art. 58- ter ord. pen.).
Seppure non chiaramente esplicitato dai lavori preparatori, è lecito
ritenere che la ratio della non preclusività della collaborazione
irrilevante sia legata a due ordini di particolari ed obiettive
situazioni. Una parte di esse si collega alla marginalità della
partecipazione del soggetto nel contesto del sodalizio criminoso,
tale da non rendere concretamente possibile una condotta
collaborativa significativa. È questo il caso dell'avvenuta
applicazione dell'art. 114 cod. pen. (riconoscimento della minima
importanza causale della condotta) ovvero, seppure con meno sicura
pertinenza, dell'art. 116, secondo comma, del medesimo codice
(diminuzione di pena per il concorrente che abbia voluto un reato
meno grave rispetto a quello poi commesso). Sfugge invece alla
dimensione del livello di partecipazione al fatto del soggetto agente
il riferimento al requisito alternativo del risarcimento del danno ex
art. 62, n. 6, cod. pen. (anche successivo alla condanna):
verosimilmente in questo caso il legislatore ha ritenuto un simile
comportamento post delictum presuntivamente incompatibile, per altra
via, con la sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata.
Il regime scaturito dalla modifiche apportate all'art. 4- bis ord.
pen. dal decreto-legge n. 306 del 1992, come modificato dalla legge
di conversione n. 356 del 1992, è quindi compendiabile, ai fini che
qui interessano, nelle seguenti proposizioni: a) i condannati per
determinati delitti ricollegabili all'area della delinquenza
organizzata, individuati nel primo periodo del primo comma dell'art.
4-bis, non possono ottenere i benefici penitenziari se non è
raggiunta la prova certa della rottura dei collegamenti tra essi e
l'ambiente criminale di cui facevano parte; b) tale prova non può
considerarsi raggiunta se l'interessato non collabori efficacemente
con la giustizia a norma dell'art. 58-ter; c) proprio perché la
collaborazione, a prescindere dai risultati che essa può produrre
nella lotta contro il crimine, è presa in considerazione dalla norma
quale dimostrazione del distacco del condannato dal mondo della
criminalità organizzata, essa può valere ai fini della concessione
dei benefici anche se oggettivamente irrilevante, qualora ciò trovi
giustificazione o nella marginalità della partecipazione criminosa
(artt. 114 e 116, secondo comma, cod. pen.) o in altri indici legali
(art. 62, n. 6, cod. pen.).
A questo quadro va aggiunto che, in forza della sentenza di questa
Corte n. 306 del 1993, alla collaborazione oggettivamente irrilevante
è equiparata la collaborazione impossibile, perché (ricorrendo
sempre i requisiti legali di cui si è detto) "fatti e
responsabilità sono già stati completamente acclarati o perché la
posizione marginale nell'organizzazione non consente di conoscere
fatti e compartecipi pertinenti al livello superiore".
3. - Il giudice a quo deduce appunto che anche altre situazioni,
diverse da quelle nominativamente individuate dalla disposizione
impugnata, avrebbero dovuto essere considerate dal legislatore,
seguendo la medesima ratio, come meritevoli di considerazione in
presenza di collaborazione oggettivamente irrilevante.
Secondo l'apprezzamento dell'organo rimettente, l'istante,
condannato alla pena complessiva di due anni e sei mesi di reclusione
per il reato (ostativo, ex art. 4- bis primo comma, primo periodo) di
associazione per delinquere di stampo mafioso e per quello di
detenzione illecita di sostanza stupefacente, non manterrebbe più
collegamenti con la criminalità organizzata; e l'impossibilità di
collaborare con la giustizia deriverebbe dalla marginalità della sua
partecipazione all'associazione criminosa, come si ricaverebbe anche
dalla mite pena irrogatagli.
Ora, nel giudizio di costituzionalità definito con la citata
sentenza n. 306 del 1993, questa Corte, nell'esaminare questioni
riguardanti la medesima disposizione, pur dichiarandone
l'inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, aveva
osservato che quelle di cui agli artt. 62, n. 6, 114 e 116, cod.
pen., erano "fattispecie normativamente assai ristrette", e che
potevano "darsi ipotesi ad esse così prossime sul piano fattuale, da
poterne sostenere ragionevolmente l'assimilazione".
Questa valutazione non può qui che essere confermata.
Tralasciando il riferimento normativo all'art. 116 cod. pen., che
integra una fattispecie del tutto particolare, e quello all'art. 62,
n. 6, del medesimo codice, che, come si è già sottolineato, è
estraneo al profilo del livello di partecipazione criminosa del
soggetto agente, va in primo luogo osservato che l'attenuante di cui
all'art. 114 non può essere riconosciuta, a norma del secondo comma
di tale articolo, "nei casi indicati nell'art. 112", tra cui è
quello del numero dei concorrenti (cinque o più), elemento che, se
può rilevare ai fini della non concedibilità dell'attenuante
(trattandosi in sostanza di una valutazione legale di plusvalenza di
una aggravante), non esprime alcun particolare significato ai fini
della individuazione del grado di coinvolgimento nel fatto criminoso
di questo o quel concorrente. Inoltre, trattandosi di attenuante
facoltativa, essa può non essere applicata, come afferma la
giurisprudenza, per motivi del tutto diversi dal dato obiettivo della
minima partecipazione, ad esempio per la gravità del reato ai sensi
dell'art. 133 cod. pen. Secondo l'orientamento giurisprudenziale
prevalente, poi, l'attenuante in questione non potrebbe essere
applicata nell'ambito delle fattispecie plurisoggettive necessarie,
quali sono buona parte di quelle considerate dall'art. 4- bis, primo
comma, primo periodo.
Se ne ricava innanzi tutto che, nell'economia della disposizione
impugnata, l'art. 114 (non diversamente dagli artt. 116 e 62, n. 6)
costituisce un termine di riferimento disomogeneo e comunque
inappagante. Infatti, partendo dal dato del minimo contributo causale
rispetto al fatto-reato, altro è valutare, in sede di cognizione, se
l'imputato sia meritevole, anche sotto il profilo soggettivo, di una
diminuzione di pena, altro è stabilire, nel quadro delle finalità
della esecuzione penale, se, obiettivamente, al condannato non sia
possibile offrire una collaborazione che superi la soglia della
irrilevanza.
Ma, più in generale, deve ritenersi che una collaborazione
rilevante a termini dell'art. 58- ter ord. pen. possa essere resa
impossibile da una partecipazione al fatto secondaria, o comunque
limitata, ma non tale da corrispondere a quella "minima importanza
nella preparazione o nell'esecuzione del reato") considerata
dall'art. 114 cod. pen. Giova al riguardo sottolineare che, stando
alla giurisprudenza (che ha fatto una applicazione molto restrittiva
della fattispecie in esame), non basta ai fini del riconoscimento di
tale attenuante la "minore" efficienza causale dell'attività di un
concorrente rispetto a quella degli altri, occorrendo invece una
"minima" efficienza causale, tale da configurare l'apporto del
concorrente come sostanzialmente trascurabile nel quadro
dell'economia generale del reato.
Se, dunque, la ratio della non preclusività della collaborazione
irrilevante si collega tra l'altro alla marginalità della
partecipazione del soggetto nel contesto del sodalizio criminoso,
tale appunto da non rendere concretamente possibile una condotta
collaborativa significativa, consegue che la norma impugnata
irragionevolmente discrimina, ai fini dell'ammissione ai benefici
penitenziari, il condannato che, per il suo limitato patrimonio di
conoscenze di fatti o persone, al di là dei casi di applicazione
degli artt. 62, n. 6, 114 e 116, secondo comma, cod. pen., non sia in
grado di prestare un'utile collaborazione con la giustizia ai sensi
dell'art. 58- ter ord. pen.
Resta fermo che, trattandosi di apprezzamento che attiene
all'accertamento della responsabilità definita con la sentenza di
condanna, è solo a questa che occorre fare riferimento per valutare
se ricorrano le condizioni sopra indicate, essendo inevitabilmente
preclusa, per l'intangibilità del giudicato, ogni diversa
valutazione degli organi che presiedono alla fase esecutiva.
4. - Va pertanto dichiarata, per contrasto con l'art. 3 Cost.,
l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, primo comma, secondo
periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non
prevede che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma
possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata
partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di
condanna, renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia,
sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in
maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata.
5. - Una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale del
secondo periodo del primo comma dell'art. 4-bis, nei termini sopra
precisati, si rende superflua la questione riguardante il primo
periodo del medesimo comma, che va pertanto dichiarata inammissibile.