Sentenza 10/2013 (ECLI:IT:COST:2013:10)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: QUARANTA - Redattore: MATTARELLA
Udienza Pubblica del ;    Decisione  del 16/01/2013
Deposito del 23/01/2013;   Pubblicazione in G. U. 30/01/2013  n. 5
Norme impugnate: Artt. 3 e 29 del decreto legislativo 01/09/2011, n. 150.
Massime:  36890 
Massime:  36890 
Atti decisi: ord. 174/2012

Massima n. 36890
Titolo
Procedimento civile - Controversie aventi ad oggetto l'opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione - Previsione che siano regolate dal rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e 702 ter cod. proc. civ. - Possibilità di conversione del rito da sommario ad ordinario sulla base dell'apprezzamento delle esigenze sostanziali e processuali, rimesso alla valutazione discrezionale del giudice - Tassativa esclusione - Evocazione di parametro inconferente - Richiesta di un intervento additivo che non si configura come costituzionalmente obbligato - Non compiuta sperimentazione da parte del rimettente del doveroso tentativo di dare una interpretazione costituzionalmente conforme delle norme impugnate - Inammissibilità della questione.

Testo

Dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 29 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Firenze. In base al codice di procedura civile, di regola, l'apprezzamento delle esigenze sostanziali o processuali che possono giustificare la conversione del rito da sommario ad ordinario per le controversie aventi ad oggetto l'opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione è rimessa alla valutazione insindacabile del giudice. L'art. 3 censurato ha introdotto una deroga al suddetto criterio discrezionale, escludendo tassativamente dalla possibilità di conversione le cause previste dal capo III del decreto legislativo medesimo, tra le quali è compresa, all'art. 29 citato, l'opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione. La questione sollevata è inammissibile, sotto molteplici profili. Innanzitutto, il richiamo operato nell'ordinanza di rimessione al principio di buon andamento dell'amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., risulta inconferente, dal momento che questa Corte ha costantemente affermato l'estraneità di tale principio all'esercizio della funzione giurisdizionale (ex multis, ordinanze n. 174 del 2012, e n. 421 del 2008, e sentenza n. 272 del 2008), alla quale evidentemente attengono le norme processuali impugnate. Quanto agli altri parametri costituzionali invocati va osservato che: 1) in base ad un constante orientamento di questa Corte nella disciplina degli istituti processuali vige il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte operate dal legislatore, nel limite della loro non manifesta irragionevolezza (ex multis, ordinanze n. 174 del 2012, n. 141 del 2011, e n. 164 del 2010); 2) anche nel caso in esame, in linea di principio, esiste una pluralità di possibili soluzioni, sicché la decisione richiesta alla Corte avrebbe natura creativa e non sarebbe costituzionalmente obbligata. Infine, la questione è inammissibile anche sotto un ulteriore profilo dal momento che il giudice remittente non si è fatto carico di individuare una possibile interpretazione delle norme censurate idonea a superare i dubbi di costituzionalità, in ossequio al principio, consolidato nella giurisprudenza costituzionale, secondo il quale una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione.

Atti oggetto del giudizio
decreto legislativo  01/09/2011  n. 150  art. 3
decreto legislativo  01/09/2011  n. 150  art. 29

Parametri costituzionali
Costituzione  art. 3
Costituzione  art. 24
Costituzione  art. 97
Costituzione  art. 111


Pronuncia

SENTENZA N. 10

ANNO 2013


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), promosso dalla Corte d’appello di Firenze nel procedimento vertente tra Valdichiana Tour s.r.l. e il Comune di Sinalunga, con ordinanza dell’8 maggio 2012, iscritta al n. 174 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 dicembre 2012 il Giudice relatore Sergio Mattarella.


Ritenuto in fatto

1.— Con ordinanza dell’8 maggio 2012, pervenuta presso la cancelleria di questa Corte il 17 luglio 2012 (reg. ord. n. 174 del 2012), la Corte d’appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).

2.— Nell’ordinanza si riferisce che nel giudizio a quo, con ricorso ex art. 702 bis, cod. proc. civ., Valdichiana Tour s.r.l. si è opposta all’indennità proposta dal Comune di Sinalunga per l’espropriazione di un terreno, e previa ammissione di consulenza tecnica d’ufficio volta a stimarne il valore di mercato, ha chiesto la determinazione giudiziale dell’indennità dovuta.

Il giudice remittente sostiene che il sistema previsto dalle norme impugnate ha istituito una presunzione iuris et de iure di semplicità delle controversie in materia di opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, imponendo inderogabilmente al giudice di trattarle secondo il rito sommario.

In particolare, l’art. 29 impugnato stabilisce che le controversie aventi ad oggetto l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e 702 ter, cod. proc. civ.; e l’art. 3 censurato, ha introdotto una deroga alla facoltà di conversione del rito, da sommario a ordinario di cognizione, rimessa alla discrezionalità del giudice dall’art. 702 ter, comma 2, cod. proc. civ., escludendo tassativamente la possibilità di conversione per le cause previste dal capo III del decreto legislativo n. 150 del 2011, tra le quali è compresa, all’art. 29, l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione.

2.1.— Secondo lo stesso giudice questa scelta del legislatore risulta irrazionale, in quanto determina ingiustificate disparità di trattamento, e rischia di comprimere il diritto di difesa, di pregiudicare il buon andamento del processo e di menomare il corretto esercizio del contraddittorio, in violazione del diritto di difesa e dei principi costituzionali di uguaglianza, di buona amministrazione della giustizia e del giusto processo.

Nell’ordinanza si osserva che «le controversie in materia di espropriazione coinvolgono una serie di problemi che le rendono in assoluto tra le più difficili e complesse», dal momento che esse riguardano diritti reali immobiliari, e la loro trattazione comporta spesso la soluzione di articolate questioni di diritto amministrativo connesse al regime urbanistico dei suoli. A conferma di ciò, si rileva che per identificare correttamente la natura del bene e determinare il valore dell’indennizzo, è pressoché generalizzato il ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, particolarmente impegnativo dal punto di vista degli adempimenti processuali, in quanto richiede l’instaurazione al proprio interno di un’ordinata dialettica con i consulenti di parte. La rilevanza della materia in questione, anche sotto il profilo economico, trova conferma nell’attribuzione delle relative controversie alla competenza esclusiva della Corte d’appello, ovvero a un giudice teoricamente più qualificato, che opera normalmente in composizione collegiale, salva la possibilità di delegare un membro del collegio al compimento di atti d’istruzione.

Anche nel caso oggetto del giudizio a quo, pur ammettendo che esso presenta valori modesti, riguardando un terreno di soli mq. 490, il cui valore è stimato da parte attrice in € 68.600,00, il giudice rileva le complessità di valutazione sopra descritte, in quanto è contestata la natura dei vincoli urbanistici che gravano sul bene, e in via istruttoria si chiede, senza incontrare opposizione dalla difesa convenuta, che venga ammessa una consulenza tecnica che accerti l’estensione del terreno, la sua destinazione urbanistica e la stima del valore di mercato del bene.

Ad avviso del giudice remittente, la stessa natura dello strumento istruttorio richiesto dalle parti condurrebbe a ritenere logica la conversione del rito verso la forma ordinaria. La minuziosa disciplina prevista dagli articoli 191 ss. cod. proc. civ., riguardante la nomina del consulente e lo svolgimento delle indagini tecniche, conferma che tali adempimenti, rimessi all’ausiliario del giudice, non possono svolgersi senza formalità e con le modalità liberamente ritenute più opportune, accantonando questioni come il giuramento del professionista incaricato, la redazione del processo verbale delle operazioni, o la preventiva disamina della relazione provvisoria del consulente d’ufficio da parte dei consulenti di parte.

2.2.— Infine, nell’ordinanza si ammette che l’ordinamento conosce altre situazioni, nelle quali pure si discute di diritti fondamentali, come le controversie di lavoro o quelle di famiglia, rispettivamente trattate con l’apposito rito o col rito camerale, in cui il diritto di difesa si esplica adeguatamente senza bisogno di scritti conclusionali, che si ritengono non consentiti nel procedimento sommario di cognizione in esame. Tuttavia, in quei procedimenti, vi sarebbe un secondo grado di merito, nell’ambito del quale è sempre possibile far valere eventuali distorsioni nella valutazione delle risultanze istruttorie, mentre nella causa che si svolge in un unico grado, come quella in oggetto davanti alla corte d’appello, non resterebbe che sottoporre alla Corte di cassazione quel che non è stato possibile formalizzare davanti al giudice a quo.

Sotto diverso profilo, si contesta anche la scelta a favore dell’ordinanza, in luogo della sentenza, quale strumento per la decisione delle controversie in questione, ribadendosi che la loro complessità mal si concilia con un provvedimento che di norma ha carattere interinale o ordinatorio, mentre la sentenza consentirebbe una più adeguata motivazione.

2.3.— Il giudice remittente ritiene pertanto che l’art. 29 del decreto legislativo n. 150 del 2011, nell’imporre la trattazione sommaria nella materia dell’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, e l’art. 3 dello stesso decreto, nel vietare la conversione del rito sommario in quello ordinario nella stessa materia, violino:

il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto «impongono di trattare con rito semplificato cause complesse, mentre il sistema consente di trattare col rito ordinario cause semplici»;

il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in quanto «rischiano di limitare l’accesso alla prova, rimettendo al giudice la facoltà di procedere liberamente nel modo che ritiene più opportuno agli atti d’istruzione, non permettendo infine ai difensori di formalizzare compiutamente i propri commenti sulle risultanze istruttorie»;

il principio di buona amministrazione della giustizia di cui all’art. 97 Cost., in quanto «impongono di affrontare con strumenti processuali inadeguati realtà contenziose di elevata difficoltà»;

il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., in quanto «costringono ad affrontare adempimenti istruttori particolarmente impegnativi in forma libera e sommaria, senza assicurare l’operatività delle garanzie previste nel rito ordinario».

3.— Nel giudizio davanti alla Corte ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

L’Avvocatura dello Stato osserva che l’art. 29, comma 1, del decreto legislativo n. 150 del 2011, ha ricondotto le controversie aventi ad oggetto l’opposizione alla stima, ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), al rito sommario di cognizione. La disposizione impugnata è stata adottata in conformità al criterio di delega previsto dall’articolo 54, comma 4, lettera b), n. 2), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che – nell’ambito della più ampia delega legislativa per la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale – ha previsto che il Governo si attenesse ai seguenti principi e criteri direttivi: «i procedimenti, anche se in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, sono ricondotti al procedimento sommario di cognizione di cui al libro quarto, titolo I, capo III-bis, del codice di procedura civile, come introdotto dall’articolo 51 della presente legge, restando tuttavia esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario».

Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, tale scelta rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, delegante e delegato, e risulta del tutto ragionevole, dal momento che le controversie in esame sono caratterizzate da un thema probandum relativamente semplice, che per certi versi prescinde dal valore economico delle singole cause, e che presenta la costante caratteristica che a siffatta tipologia di controversie consegue un’attività istruttoria ordinariamente breve.

3.1.— In secondo luogo, si afferma che lo strumento processuale adottato nella specie presenta caratteristiche che confermano la sua natura piena di cognizione, pure perseguita in forme semplificate, rilevandosi che nella relazione illustrativa e nei pareri delle commissioni parlamentari che si sono espresse al riguardo, «la qualità della valutazione in ordine alle inferenze probatorie può essere massima, anche quando si proceda con forme semplificate». Viene infatti attribuita al giudice procedente la facoltà di accedere a tutti gli atti di istruzione, sia indispensabili che rilevanti (articolo 702 ter, comma 5, cod. proc. civ.), consentendo una tutela piena del bene della vita oggetto di cognizione e per cui è causa.

Questa convinzione è confermata dall’art. 54, comma 4, lettera b), n. 2), della legge n. 69 del 2009, che opera un chiaro riferimento alla sola semplificazione delle forme e non anche alla sommarietà della cognizione. Pertanto, secondo l’interveniente, l’introduzione della forma processuale “flessibile” in esame garantisce una cognizione esauriente, favorendo, al contempo, l’osservanza del principio di ragionevole durata dei processi di cui all’articolo 111 Cost..

3.2.— Sotto diverso profilo, si osserva che le norme impugnate non violano il principio di uguaglianza, dal momento che il legislatore ben può predisporre regole processuali differenziate al variare delle caratteristiche proprie delle posizioni giuridiche oggetto di tutela giudiziale. E in effetti, è lo stesso giudice remittente che sostanzialmente riconosce – proprio in relazione alla reputata “inevitabilità” dell’utilizzo del mezzo istruttorio della consulenza tecnica d’ufficio estimativo-contabile – come siffatti procedimenti giurisdizionali siano, in qualche misura, omogenei quanto al loro percorso processuale.

Inoltre, in riferimento alle osservazioni del giudice a quo concernenti lo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, si rileva che – nella giurisprudenza di merito – è stata più volte affermata la struttura “deformalizzata” dell’istruttoria svolta nei procedimenti in esame.

3.3.— Infine, nell’atto di costituzione si richiama l’ordinanza n. 170 del 2009, nella quale la Corte costituzionale ha ribadito «la piena compatibilità costituzionale della opzione del legislatore processuale, giustificata da comprensibili esigenze di speditezza e semplificazione, per il rito camerale (ex multis: sentenza n. 103 del 1985, ordinanza n. 35 del 2002), anche in relazione a controversie coinvolgenti la titolarità di diritti soggettivi; (…) che, in particolare, come già in passato osservato, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la previsione del rito camerale per la composizione di conflitti di interesse mediante provvedimenti decisori non è di per sé suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l’esercizio di quest’ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti purché ne vangano assicurati lo scopo e la funzione».


Considerato in diritto

1.— Con l’ordinanza in epigrafe, la Corte d’appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).

2.— Al fine di chiarire il contesto normativo nel quale si inseriscono le disposizioni impugnate, giova premettere che l’art. 29 del decreto legislativo n. 150 del 2011 stabilisce che le controversie aventi ad oggetto l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e 702 ter cod. proc. civ..

In particolare, l’art. 702 ter, comma 2, cod. proc. civ. prevede in via generale che il giudice, se le difese svolte dalle parti richiedono un’istruttoria non sommaria, con ordinanza non impugnabile dispone procedersi secondo il rito ordinario, fissando l’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ..

Pertanto, di norma, l’apprezzamento delle esigenze sostanziali o processuali che possono giustificare la conversione del rito da sommario ad ordinario è rimessa alla valutazione insindacabile del giudice.

L’art. 3 censurato ha introdotto una deroga a tale criterio discrezionale, escludendo tassativamente dalla possibilità di conversione le cause previste dal capo III del decreto legislativo medesimo, tra le quali è compresa, all’art. 29 citato, l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione.

Più in generale, si osserva che le norme impugnate sono contenute nel decreto legislativo n. 150 del 2011, emanato in attuazione della delega al Governo «per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili» prevista dall’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).

Come reso esplicito dalla relazione illustrativa, il richiamato decreto legislativo, «realizza, conformemente ai criteri di delega (…) la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale, riconducendoli ai tre modelli previsti dal codice di procedura civile, individuati, rispettivamente, nel rito ordinario di cognizione, nel rito che disciplina le controversie in materia di rapporti di lavoro, e nel rito sommario di cognizione (introdotto dalla medesima legge n. 69 del 2009)».

3.— La questione sollevata è inammissibile, sotto molteplici profili.

Innanzitutto, il richiamo operato nell’ordinanza di rimessione al principio di buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., risulta inconferente, dal momento che questa Corte ha costantemente affermato l’estraneità di tale principio all’esercizio della funzione giurisdizionale (ex multis, ordinanze n. 174 del 2012, e n. 421 del 2008, e sentenza n. 272 del 2008), alla quale evidentemente attengono le norme processuali impugnate.

3.1.— In riferimento agli altri parametri costituzionali invocati, deve preliminarmente ribadirsi che nella disciplina degli istituti processuali vige il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte operate dal legislatore, nel limite della loro non manifesta irragionevolezza (ex multis, ordinanze n. 174 del 2012, n. 141 del 2011, e n. 164 del 2010).

Anche nel caso in esame, in linea di principio, esiste una pluralità di possibili soluzioni, quanto al rito con il quale trattare le controversie relative alla opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, come nello specifico testimoniano anche le vicende che hanno condotto all’approvazione del decreto legislativo n. 150 del 2011.

Dall’esame degli atti parlamentari, e dalla relazione illustrativa, emerge infatti che la scelta di inserire le controversie in questione fra quelle per le quali è preclusa al giudice la facoltà di conversione nel rito ordinario di cognizione, è avvenuta solo a seguito dei pareri in tal senso espressi dalle competenti commissioni parlamentari, motivati dalla relativa semplicità degli adempimenti istruttori richiesti in questo tipo di cause, mentre non era prevista nel testo originario del provvedimento. In particolare, le Commissioni giustizia della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, nei pareri sullo schema di decreto legislativo in questione, hanno espresso l’avviso secondo il quale «relativamente alle cause di opposizione alla stima di cui all’art. 54 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 327, parrebbe più coerente con la natura istruttoria del relativo procedimento la riconduzione al rito sommario in luogo di quello ordinario».

La decisione richiesta alla Corte avrebbe pertanto natura creativa e non sarebbe costituzionalmente obbligata, versandosi in materia nella quale sussiste la discrezionalità del legislatore: anche se esaminata sotto questo profilo la questione è quindi inammissibile (ex multis, ordinanze n. 77 e n. 59 del 2010, e n. 243 del 2009). In tal senso, la Corte ha affermato che non può ritenersi «che sia coperto da garanzia costituzionale, quale modello tendenzialmente vincolante per il legislatore, il processo ordinario di cognizione, i cui singoli istituti dovrebbero essere rinvenibili anche nei procedimenti di cognizione diversamente articolati dalla legge» (ordinanza n. 389 del 2005).

Con riferimento alla possibilità di prevedere altri riti, da parte del legislatore, accanto a quello ordinario, la Corte ha più volte ribadito che «la Costituzione non impone un modello vincolante di processo» (sentenza n. 341 del 2006, ordinanze n. 386 del 2004 e n. 389 del 2005), riaffermando «la piena compatibilità costituzionale della opzione del legislatore processuale, giustificata da comprensibili esigenze di speditezza e semplificazione, per il rito camerale, anche in relazione a controversie coinvolgenti la titolarità di diritti soggettivi; in particolare, come già in passato osservato, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la previsione del rito camerale per la composizione di conflitti di interesse mediante provvedimenti decisori non è di per sé suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l’esercizio di quest’ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione» (ex multis, sentenze n. 170 del 2009, n. 221 del 2008, e n. 194 del 2005).

Nel caso in esame, la scelta di trattare con il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss., cod. proc. civ. le controversie richiamate, è stata motivata, nella relazione illustrativa al decreto impugnato, dalla «accentuata semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, rivelata, spesso nella maggior parte dei casi, dal richiamo della procedura camerale prevista e disciplinata dagli artt. 737 ss., cod. proc. civ.. Il presupposto della semplificazione della trattazione è stato altresì rinvenuto in quei procedimenti che, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzati dal thema probandum semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare o decidere. Tale impostazione si evince anche dai pareri resi dalle competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, che hanno concordemente suggerito di ricondurre al rito sommario di cognizione anche i procedimenti in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (…) i quali sono caratterizzati, nell’esperienza pratica, da un’attività istruttoria ridotta, a fronte di questioni giuridiche spesso non altrettanto semplici».

Nel quadro descritto, deve pertanto escludersi che le disposizioni impugnate siano manifestamente irragionevoli, ponendosi invece nell’ambito di un chiaro disegno riformatore, orientato alla semplificazione dei procedimenti civili in esame.

3.2.— Inoltre, la questione risulta inammissibile anche se esaminata sotto un ulteriore profilo, dal momento che il giudice remittente non si è fatto carico di individuare una possibile interpretazione delle norme censurate idonea a superare i dubbi di costituzionalità, in ossequio al principio, costantemente affermato dalla Corte, secondo il quale una disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione.

In particolare, il giudice remittente non sperimenta alcuna possibilità di interpretare la norma nel senso che essa consenta al giudice di assicurare, pur nell’ambito dell’istruttoria deformalizzata, propria del procedimento sommario di cognizione, le garanzie che egli ritiene necessarie ai fini del rispetto dei parametri costituzionali invocati. Lo stesso giudice non esplicita infatti le ragioni alla base della pretesa impossibilità di applicare le disposizioni, ritenute indispensabili, che nel rito ordinario regolano l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio, e di consentire alle parti la facoltà di argomentare, per mezzo di scritti conclusionali, le risultanze istruttorie acquisite.

Il giudice a quo non considera gli orientamenti finora espressi, nella prima fase di attuazione delle norme impugnate, dalla giurisprudenza di merito che, in conformità ai richiamati atti parlamentari, qualifica il rito in esame come un procedimento a cognizione piena, e ad istruttoria semplificata (ordinanze Tribunale di Piacenza, 26 maggio 2011; Tribunale di Varese, 18 novembre 2009; Tribunale di Viterbo, 12 luglio 2010). Omettendo tale valutazione, il giudice non motiva neppure sulle ragioni alla base della lamentata impossibilità di consentire, pure nell’ambito dell’istruttoria deformalizzata, sia l’interlocuzione del consulente di parte con il consulente d’ufficio, in ordine alle sue conclusioni, sia la presentazione di scritti difensivi conclusionali aventi ad oggetto le risultanze istruttorie.

Pertanto la questione, anche sotto questo profilo, è inammissibile, in coerenza con la costante giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto che «la mancata utilizzazione dei poteri interpretativi, che la legge riconosce al giudice remittente, e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato, integrano omissioni tali da rendere manifestamente inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale» (ex multis, ordinanze n. 212 del 2011, n. 44, n. 102 e n. 184 del 2012).


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2013.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Sergio MATTARELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2013.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI