Ritenuto in fatto
1.1. - Con due ordinanze di identico contenuto, entrambe emesse il
9 gennaio 1993, il Tribunale di sorveglianza di Ancona ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, secondo
comma, della legge sull'Ordinamento penitenziario, in riferimento
agli artt. 13, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.
Il giudice a quo, chiamato a deliberare in merito ad alcuni
reclami proposti avverso l'applicazione del regime detentivo di cui
al citato art. 41-bis, dopo aver affermato, in seguito ad ampia
disamina, sia la propria giurisdizione che la propria competenza,
ritiene che la normativa introdotta della norma impugnata (improntata
all'esigenza di predisporre un trattamento di particolare rigore nei
confronti di detenuti che, in ragione del reato loro ascritto,
appaiono forniti di un elevato grado di pericolosità sociale) sia,
sotto diversi profili, confliggente con i parametri costituzionali
prima indicati.
1.2. - In primo luogo, premesso che la tutela prevista dal secondo
comma dell'art. 13 della Costituzione si sostanzia in una riserva di
legge e in una riserva di giurisdizione sul diritto alla libertà
personale, il remittente ritiene che il concreto contenuto precettivo
del regime introdotto dalla disposizione in esame comporti una
restrizione della libertà personale riconducibile alla citata tutela
costituzionale: il detenuto sottoposto a tale regime detentivo vede
ulteriormente compressi i propri spazi residui di libertà personale
(permanenza all'aria aperta, possibilità di esperire attività
lavorativa artigianale per conto proprio e per conto terzi, acquisto
di generi alimentari, colloqui con i familiari, sottoposizione della
corrispondenza a visto di controllo, possibilità di ricevere pacchi
dall'esterno, ecc.) rispetto a ciò che costituisce il trattamento
ordinario. Il fatto che tali restrizioni vengano applicate da un atto
della pubblica amministrazione (nella specie: dell'amministrazione
penitenziaria) senza che sia previsto un intervento, neanche in via
di ratifica, dell'Autorità giudiziaria, costituisce, ad avviso del
remittente, un evidente contrasto con il disposto del secondo comma
dell'art. 13 della Costituzione.
1.3. - Inoltre, premesso che il principio di rieducazione della
pena sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, va
correttamente inteso come finalizzazione dell'esecuzione penale al
raggiungimento del reinserimento sociale del reo, il Tribunale di
sorveglianza di Ancona ravvisa un'ulteriore illegittimità della
disciplina in esame per la sottoposizione di alcuni detenuti,
selezionati quasi semplicemente in base al titolo di reato, ad un regime indiscriminatamente sanzionatorio, ispirato ad un ottica di mera
neutralizzazione, contrastante, per di più, anche con il principio
di individualizzazione dell'esecuzione penale.
Per altro verso, prosegue il remittente, la violazione dell'art.
27, terzo comma, della Costituzione, viene anche in rilievo
considerando che la sospensione delle regole di trattamento per un
tempo indubbiamente rilevante (tre anni decorrenti dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 306
del 1992) implica la rinunzia a qualsivoglia intervento dello Stato
inteso a rimuovere le cause del disadattamento sociale; proprio ciò
cui dovrebbe tendere, invece, il trattamento rieducativo, che
costituisce un vero e proprio diritto del condannato.
2.1. - Il medesimo art. 41-bis, secondo comma, viene impugnato con
censure sostanzialmente identiche (pur se riferite formalmente anche
al primo comma dell'art. 13 della Costituzione e non solo al secondo)
dal medesimo Tribunale remittente con altre tre ordinanze pronunciate
il 9 gennaio 1993.
3.1. - Con un'ultima ordinanza emessa il 9 gennaio 1993 il
Tribunale di sorveglianza di Ancona, dopo aver reiterato i dubbi di
costituzionalità sulla citata norma in riferimento al principio
rieducativo della pena sancito dall'art. 27, terzo comma, della
Costituzione, solleva ulteriori censure, in riferimento agli artt.
15, secondo comma, 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma,
della Costituzione.
3.2. - Sussisterebbe, in primo luogo, la violazione dell'art. 15,
secondo comma, della Costituzione, in quanto la disposizione
impugnata, sospendendo la vigenza delle norme dell'Ordinamento
penitenziario in ordine al visto di controllo sulla corrispondenza
dei detenuti, esclude il motivato provvedimento del magistrato di
sorveglianza. Rileva il giudice remittente che il provvedimento
ministeriale emesso in applicazione della norma impugnata prevede,
tra l'altro, la sottoposizione della corrispondenza epistolare e
telegrafica del detenuto direttamente al visto di controllo da parte
del direttore dell'Istituto penitenziario; il che rappresenterebbe un
evidente contrasto con la invocata norma costituzionale, la quale
prevede che una tale limitazione possa avvenire solo per atto
motivato dall'Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla
legge.
3.3. - Infine, posto che il combinato disposto degli artt. 97 e
113 della Costituzione richiede una esauriente motivazione dell'atto
amministrativo, al fine di consentire al destinatario la possibilità
di tutelare diritti ed interessi in via giurisdizionale, può
configurarsi, ad avviso del giudice a quo, anche la violazione dei
suddetti parametri costituzionali in quanto nei provvedimenti
applicativi del regime detentivo previsto dal secondo comma dell'art.
41-bis tale motivazione risulterebbe del tutto assente.
4.1. - È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello
Stato, concludendo per l'infondatezza (rectius: inammissibilità)
della questione.
La difesa del governo ritiene che, nella materia in esame, non
sussista la giurisdizione né la competenza del Tribunale di
sorveglianza.
4.2. - In tema di giurisdizione, rileva l'Avvocatura, il
provvedimento ministeriale ex art. 41- bis, secondo comma, della
legge n. 354 del 1976 non andrebbe ad incidere su di un diritto di
libertà pieno ma si inserirebbe in una situazione in cui tale
diritto già risulta compresso.
Le misure adottate con detto provvedimento non sarebbero qualcosa
di qualitativamente diverso rispetto ad altre, "ordinarie", che
caratterizzano la detenzione. Potrebbe anzi affermarsi che tale atto
concorre ad individuare il complessivo regime di vita penitenziario
del detenuto, insieme ed al pari di tutte le misure previste da altre
disposizioni: il detenuto è sottoposto ad una serie di limitazioni
della libertà personale tra le quali è possibile che vi siano, a
certe condizioni, anche quelle previste dalla norma impugnata.
In conclusione, poiché il ricorso nei confronti del provvedimento
ministeriale porta a sindacare le concrete modalità di esercizio di
un potere riconosciuto per legge alla pubblica amministrazione, si
dovrebbe concludere nel senso della giurisdizione del giudice
amministrativo.
4.3. - Qualora si volesse seguire una diversa linea di
ragionamento, prosegue l'Avvocatura, possono sussistere dubbi anche
sulle conclusioni cui il giudice remittente è pervenuto in tema di
competenza.
Nell'ordinanza si richiama, a fondamento della affermata
competenza del Tribunale di sorveglianza, la possibilità di
applicazione analogica della disciplina della sorveglianza
particolare, nel cui ambito è regolamentato il procedimento di
reclamo dei relativi provvedimenti.
I presupposti e le fasi procedimentali del regime di sorveglianza
particolare sarebbero però diversi da quelli previsti dall'art.
41-bis, per cui dovrebbe dubitarsi della possibilità di fare ricorso
allo strumento dell'analogia, ed inoltre sembrerebbe ravvisabile,
nelle norme dell'Ordinamento penitenziario, l'attribuzione di una
competenza generale a conoscere dei reclami dei detenuti, non al
Tribunale, bensì al Magistrato di sorveglianza.
Considerato in diritto
1.1. - Il Tribunale di sorveglianza di Ancona, con sei ordinanze di
contenuto in parte identico, in parte strettamente connesso, dubita
della legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, secondo comma,
della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull'Ordinamento
penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà). Tale norma, introdotta dall'art. 19 del decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356,
attribuisce al Ministro di grazia e giustizia, quando ricorrano gravi
motivi di ordine e di sicurezza pubblica, la facoltà di sospendere,
in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluni delitti,
l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti
dallo stesso Ordinamento penitenziario.
1.2. - Poiché i provvedimenti di rimessione investono, sotto
profili in larga parte coincidenti, la medesima norma di legge, i
relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica
sentenza.
2.1. - La questione è stata sollevata nel corso di alcuni
giudizi, avanti il Tribunale di sorveglianza di Ancona, sui reclami
proposti da alcuni detenuti avverso i decreti del Ministro di grazia
e giustizia che, in attuazione della norma impugnata, hanno disposto
un regime detentivo di particolare rigore nei loro confronti rispetto
al regime detentivo ordinario: in particolare, i decreti ministeriali
restringono la possibilità di colloqui, anche telefonici, con i
familiari e vietano quelli con persone diverse; sospendono i colloqui
premiali; dispongono che la corrispondenza in partenza o in arrivo
sia sottoposta a visto di controllo; restringono la permanenza
all'aria aperta a non più di due ore al giorno; proibiscono lo
svolgimento di attività artigianali per conto terzi, e pongono varie
altre restrizioni sugli acquisti all'interno dell'istituto
penitenziario, sulla ricezione di pacchi o di somme di denaro, e
sullo svolgimento, in genere, delle attività volte alla
realizzazione della personalità dei detenuti.
2.2. - Ad avviso dei giudici remittenti la disciplina introdotta
dalla norma impugnata - anche al di là dell'attuazione che in
concreto ne è stata data - esprime potenzialità applicative tali da
porre sostanzialmente nel nulla un eventuale iter rieducativo già
positivamente intrapreso dal detenuto e, pertanto, si pone in
contrasto:
con l'art. 13, primo e secondo comma, della Costituzione, in
quanto attribuisce al Ministro di grazia e giustizia (anziché
all'Autorità giudiziaria) il potere, mediante la sospensione totale
o parziale dell'applicazione delle regole di trattamento e degli
istituti previsti dall'Ordinamento penitenziario, di introdurre nei
confronti dei detenuti ulteriori restrizioni della libertà
personale;
con l'art. 15, secondo comma, della Costituzione, perché,
sospendendo la vigenza delle norme dell'Ordinamento penitenziario in
materia di corrispondenza dei detenuti (art. 18, settimo comma),
esclude il motivato provvedimento del Magistrato di sorveglianza in
ordine al visto di controllo;
con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto
implica trattamenti penali contrari al senso di umanità, non
ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non
"individualizzati" ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di
reclusi selezionati solo in base al titolo di reato;
con gli artt. 97, primo comma, e 113, primo e secondo comma,
della Costituzione, per la mancanza di un'esauriente motivazione del
provvedimento applicativo del più rigoroso regime penitenziario, il
che non consentirebbe al destinatario la possibilità di tutelare in
modo adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale.
3.1. - L'Avvocatura dello Stato eccepisce pregiudizialmente
l'inammissibilità della questione per difetto di giurisdizione e di
competenza del giudice remittente.
Ritiene la difesa del Governo che i diritti di libertà del
detenuto siano diritti già "affievoliti" o "compressi" dalla
sentenza di condanna a pena detentiva, e pertanto l'oggetto dei
giudizi a quibus risulterebbe essere il concreto esercizio di un
potere riconosciuto per legge alla pubblica amministrazione; potere
sottoposto, in quanto tale, al sindacato giurisdizionale del giudice
amministrativo. Inoltre, neppure la competenza del Tribunale di
sorveglianza potrebbe essere affermata, dovendosi riconoscere al
Magistrato di sorveglianza, e non al Tribunale, una competenza
generale a decidere sui reclami dei detenuti.
3.2. - Sulla base del costante orientamento di questa Corte
l'eccezione non può essere accolta (v., da ultimo, sentt. nn. 163 e
288 del 1993).
Stante l'autonomia del giudizio di costituzionalità rispetto a
quello dal quale proviene la questione sollevata, la Corte, in sede
di verifica dell'ammissibilità, può rilevare il difetto di
giurisdizione, o di competenza, del giudice a quo soltanto nei casi
in cui questo appaia macroscopico, così che nessun dubbio possa
aversi sulla sussistenza di quel vizio. Nel caso in esame, al
contrario, tutti i giudici a quibus hanno ritenuto, sulla base di
un'ampia motivazione, sia la propria giurisdizione che la propria
competenza, e ciò non contrasta con consolidata giurisprudenza, di
merito o di legittimità, in diverso avviso; può anzi riscontrarsi
un convergente orientamento della giurisprudenza amministrativa
sull'assoluto difetto di giurisdizione del giudice amministrativo
nella materia in esame. Devono quindi rimanere ferme le valutazioni
compiute dai giudici remittenti in ordine alla legittima
instaurazione dei giudizi a quibus.
4.1. - Nel merito, la questione, sotto tutti i profili sollevati,
è infondata nei sensi di seguito esposti.
Alcune premesse di ordine generale si rendono necessarie per
definirne con chiarezza i termini.
4.2. - Va tenuto fermo, in primo luogo, che la tutela
costituzionale dei diritti fondamentali dell'uomo, ed in particolare
la garanzia della inviolabilità della libertà personale sancita
dall'art. 13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi è
stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale
durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni
che, com'è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta
(v. sentt. n. 204 del 1974, n. 185 del 1985, n. 312 del 1985, 374 del
1987, n. 53 del 1993). Questa Corte ha già avuto occasione di
affermare che, dal principio accolto nell'art. 27, terzo comma, della
Costituzione, secondo cui "le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità", discende direttamente
quale ulteriore principio di civiltà che a colui che subisce una
condanna a pena detentiva "sia riconosciuta la titolarità di
situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalità
umana che la pena non intacca" (v. sent. n. 114 del 1979).
In breve, la sanzione detentiva non può comportare una totale ed
assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce
certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in
stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua
libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso
in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la
sua personalità individuale.
Da ciò consegue che l'adozione di eventuali provvedimenti
suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o
che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di
privazione della libertà personale, può avvenire soltanto con le
garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente
previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.
4.3. - A fronte della posizione giuridica soggettiva del detenuto
vi è, d'altro lato, l'opposto potere di coazione personale di cui lo
Stato è titolare al fine della difesa dei cittadini e dell'ordine
giuridico; potere che, durante la fase di espiazione della pena,
comporta l'assoggettamento alle regole previste dall'Ordinamento
penitenziario, le quali definiscono i rapporti fra l'Amministrazione
- cui compete la responsabilità della custodia, del trattamento e
della sicurezza dell'istituzione penitenziaria - gli individui
assoggettati al regime di detenzione e di rieducazione prescritto, e
l'Ordine giudiziario cui spetta istituzionalmente l'attuazione della
potestà punitiva dello Stato e il controllo sull'esecuzione della
pena.
Poiché i diritti inviolabili dell'uomo, fra cui quello alla
libertà personale, rispondono ad un principio di valore fondamentale
che ha carattere generale, la loro limitazione o soppressione (nei
soli casi e modi previsti dalla Costituzione, o per i quali è
disposta una riserva di legge) ha carattere derogatorio ad una regola
generale e, quindi, presenta natura eccezionale: è questo il motivo
per cui le norme che siano suscettibili di incidere ulteriormente su
tali diritti, previste dall'Ordinamento penitenziario (che è appunto
un tipico ordinamento derogatorio), non possono essere applicate per
analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo.
5.1. - Quanto ora esposto consente di riassumere alcuni punti
fermi in materia.
L'Amministrazione penitenziaria può adottare provvedimenti in
ordine alle modalità di esecuzione della pena (rectius: della
detenzione), che non eccedono il sacrificio della libertà personale
già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna,
e che naturalmente rimangono soggetti ai limiti ed alle garanzie
previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza
fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al
senso di umanità (art. 27, terzo comma), ed al diritto di difesa
(art. 24).
Ma è certamente da escludere che misure di natura sostanziale che
incidono sulla qualità e quantità della pena, quali quelle che
comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal
carcere (c.d. misure extramurali), e che perciò stesso modificano il
grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto,
possano essere adottate al di fuori dei principi della riserva di
legge e della riserva di giurisdizione specificamente indicati
dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.
Misure di tal genere - è bene sottolinearlo - devono uniformarsi
anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della
pena, cui l'esecuzione deve essere improntata; principi, questi
ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo
comma, e 3 della Costituzione (cfr. sentt. n. 50 del 1980 e n. 203
del 1991) - nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa
proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle
esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sentt. n. 299 del 1992 e
n. 306 del 1993) - ed implicano anch'essi l'esercizio di una funzione
esclusivamente propria dell'ordine giudiziario.
5.2. - È questo un vero e proprio limite di competenza funzionale
dell'Amministrazione, che - come si è visto - è direttamente
conseguente alla natura dei poteri esercitati e costituisce un
criterio generale già presente nello stesso Ordinamento
penitenziario.
Vi è infatti una distinzione sostanziale tra modalità di
trattamento del detenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la
cui applicazione è demandata di regola all'Amministrazione, anche se
sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (v. art. 69
Ordinamento Penitenziario), o con possibilità di reclamo al
Tribunale di sorveglianza (v. art. 14-ter Ordinamento Penitenziario)
- e misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori dal
carcere (previste, per lo più, al Capo VI del Titolo I
dell'Ordinamento Penitenziario, "Misure alternative alla detenzione":
affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare,
semilibertà, liberazione anticipata, licenze; ma anche
l'assegnazione al lavoro esterno o i permessi premio previsti al Capo
III) le quali sono sempre di competenza dell'Autorità Giudiziaria
(v. artt. 21, 30, 30-ter, 69 e 70 dell'Ordinamento penitenziario)
proprio perché incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena
e, quindi, sul grado di libertà personale del detenuto.
5.3. - Alla luce di tali principi la norma in esame può essere
interpretata in modo aderente al dettato costituzionale.
Posto infatti che i giudici remittenti lamentano, in sostanza, che
il secondo comma dell'art. 41-bis attribuisca al Ministro di grazia e
giustizia la facoltà di incidere (in peius) sulla pena e sul grado
di libertà personale del detenuto, la censura non risulta fondata in
quanto la corretta lettura della norma (in base ai principi
costituzionali prima indicati ed al canone ermeneutico rigorosamente
restrittivo delle norme di carattere eccezionale) non può che
limitare il potere attribuito al Ministro alla sola sospensione di
quelle medesime regole ed istituti che già nell'Ordinamento
penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna
amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di
detenzione in senso stretto.
Eventuali variazioni di tale regime possono comportare
evidentemente un maggiore o minore contenuto afflittivo per chi ad
esse è assoggettato, proprio perché un certo grado di flessibilità
può rivelarsi necessario sia ai fini di rieducazione del detenuto
che per l'ordine e la sicurezza interni (dovendosi del pari prendere
atto che la realtà di ogni istituzione penitenziaria comprende anche
la presenza di soggetti refrattari a qualsiasi trattamento
riabilitativo, ed anzi così spiccatamente pericolosi da rendere
indispensabile la possibilità di un regime differenziato nei loro
confronti), ma nel novero delle misure attualmente previste
dall'Ordinamento penitenziario esse non esulano dall'ambito delle
modalità di esecuzione di un titolo di detenzione già adottato con
le previste garanzie costituzionali.
Vero è che la norma in esame, certamente di non felice
formulazione, sembra comprendere indistintamente nella sua amplissima
enunciazione tutte le regole di trattamento e gli istituti previsti
dall'Ordinamento penitenziario, ivi comprese quindi le misure alternative alla detenzione e l'assegnazione al lavoro esterno o i
permessi e le licenze. Ma una simile interpretazione va esclusa non
solo per le ragioni prima indicate, ma anche perché nello stesso
testo della legge (e va qui presa in considerazione la legge 7 agosto
1992 n. 356, con la quale è stato aggiunto il secondo comma in esame
all'art. 41-bis della legge n. 354 del 1975) allorquando il
legislatore ha inteso far riferimento anche alle misure extramurali
le ha sempre specificamente indicate (cfr. art. 15 della legge n. 356
cit., che modifica l'art. 4-bis della legge n. 354 cit.), mai
accomunandole alle regole di trattamento previste nel testo
dell'Ordinamento penitenziario.
6.1. - Individuati quindi i corretti limiti dei poteri attribuiti
al Ministro, tutte le censure prospettate dai giudici remittenti
risultano o infondate o non riferibili alla norma impugnata ma solo
ai provvedimenti che di questa hanno fatto applicazione: ed invero,
per quanto sin qui esposto, il secondo comma dell'art. 41-bis non
consente l'adozione di provvedimenti suscettibili di incidere sul
grado di libertà personale del detenuto, e quindi non viola l'art.
13, primo e secondo comma, della Costituzione; del pari nulla è
rinvenibile nella disposizione in esame che attribuisca al Ministro
una specifica competenza in ordine alla sottoposizione a visto di
controllo della corrispondenza dei detenuti, e che costituisca quindi
deroga all'art. 18 dell'Ordinamento penitenziario (che, come si è
visto, riserva tale potere al giudice), e, quindi, elusione della
garanzia d'inviolabilità delle comunicazioni sancita dall'art. 15
della Costituzione; così come (a parte la perplessità che può destare l'individuazione per titoli di reato dei destinatari finali dei
provvedimenti, non coerente con il principio di individualizzazione
della pena) deve ritenersi implicito - anche in assenza di una
previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi generali
dell'ordinamento - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque
recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono
rivolti (in modo da consentire poi all'interessato un'effettiva
tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti
contrari al senso di umanità, e, infine, che debbano dar conto dei
motivi di un'eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità
rieducative della pena.
7. - È opportuno, infine, sottolineare che le medesime ragioni
che consentono di escludere l'illegittimità costituzionale della
norma in esame, delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il
portato con il richiamo a principi generali dell'ordinamento,
conducono anche alla conclusione che taluni dei rilievi espressi dai
giudici remittenti, pur se rivolti avverso la citata disposizione
dell'art. 41-bis, non trovano la loro causa nella norma di legge
bensì - come si è già visto - nel solo provvedimento ministeriale
di applicazione.
In base a tutte le ragioni sin qui esposte, anche tali
provvedimenti, come del resto esattamente ritengono le stesse
ordinanze di rimessione, sono certamente sindacabili dal giudice
ordinario, il quale, in caso di reclamo, eserciterà su di essi il
medesimo controllo giurisdizionale che l'Ordinamento penitenziario
gli attribuisce in via generale sull'operato dell'Amministrazione
penitenziaria e sui provvedimenti comunque concernenti l'esecuzione
delle pene (cfr. sent. n. 53 del 1993).